Dialogo sull’Amore

Considerazioni

Dialogo sull’Amore

TRA UN PUNTO DI VISTA

 

EDIFICANTE E UNO MENO

 

René Magritte «Riflesso»

René Magritte «Riflesso»

 

Di dialoghi amorosi ce ne sono stati sempre e in gran quantità: Antonio e Cleopatra, Alessandro e Rossana, Abelardo ed Eloisa, Paolo e Francesca, Yuri Zivago e Larissa Antipova; ma anche Bernadette con la Signora della Grotta, san Filippo Neri con l’Anima sua, Madre Teresa di Calcutta con l’Angelo Custode, e – perché no? – pure Zeno Cosini con la propria Coscienza. Tanto per citare alcuni.

 

Qualunque sia il sesso e la personalità con i quali abbiamo ricordato o ricostruito gli interlocutori di questi dialoghi, essi fanno inevitabilmente capo a due polarità fisse e inamovibili – solo in apparenza conflittuali – che compongono la natura psicofisica e spirituale nel senso piú esteso e motivante dell’essere umano: l’Io superiore e l’ego. Di regola abitano singole individualità: ma la fantasia di poeti e letterati e ha preferito collocarli in due entità separate, quasi a voler rendere ancora piú drammatiche le vicende che li associano, e per giunta entrambi bramosi d’amore e di verità.

 

Naturalmente scendendo nel dettaglio le cose si complicano: abbiamo a che fare con un’anima tripartita e con una coscienza pensante, la cui presenza è di estrema rilevanza, quando funziona a dovere (e quando non lo fa, purtroppo, resta importante comunque). Ma in questo scritto, il dialogo prevede un’evoluzione in positivo delle polarità principali, che non rimangono quindi due centralità poste lí a racchiudere in una provvisoria parentesi l’intimo uomo: gli sono invece molto piú vicine di quanto non sembri, ed hanno quindi modo di scambiarsi le loro vedute, nei casi in cui – ovviamente – la tenacia del loro opporsi conceda sufficiente tregua.

 

Del resto tutto tende ad evolversi e non vedo perché i cosiddetti “punti fermi” debbano restare fermi: nel caso dell’Io è tuttavia lecito avere talvolta il dubbio che si tratti di un’illusione ottica, causata da un nostro non del tutto consapevole moto d’ avvicinamento. Per quanto invece riguarda l’ego, è meglio non avventurarsi in troppe spiegazioni: esso infatti ci è costantemente incollato addosso e ce lo portiamo in giro come una tutina da jogging. Diciamo quindi, per poter girar bene l’azione come si fa sul set del cinema, che avremo qui un Io superiore compassato, maieutico, un tantino cattedratico, ma pieno di disponibilità, mentre l’ego non è piú quel conglomerato di granito inscalfibile e riottoso col quale lo si configura al solito.

 

Di fronte ad un Io piú incline verso l’umano (e per umano intendo molte cose, non tutte positive) ci sarà quindi un ego in cui si è ridestata un’avvisaglia di apprendistato, e con grande cautela, senza mai uscire allo scoperto, si presta a domande, interrogazioni e interventi. In fondo, come sono gli ego umani e umanoidi, il curiosone è lui; non certo l’Io, il quale per sua natura vive e si bea nel cospicuo patrimonio delle eterne risposte. Per cui, se per davvero all’ego sta a cuore una domanda, non gli resta che farsi avanti e proporla nel migliore dei modi a colui che si sa avere le carte in regola per fornire una risposta sensata.

 

Non ci sono statistiche di conferma, ma sono certo che l’interrogativo col quale rompere il ghiaccio e co­struire un discorso proficuo tra due forze di simile natura, potrebbe benissimo avere inizio con una domandina del genere: «Che cosa ci sto io a fare qui nel mondo?».

 

E con tali parole, al nostro ego facciamo aprire il dialogo (Che l’inse?).

 

Se non proprio con i medesimi, magari in altri termini, credo che ognuno di noi abbia avuto modo di chiederselo; cosa siamo venuti a fare qui ? Naturalmente senza ottenere risposte ragionevoli e adeguate ai vari contesti dai quali sono sorte. Non è ci d’aiuto sapere che durante le sfilata delle soubrettine, culminante con la classica nomina di Miss Italia, la risposta piú gettonata sia risultata: «Lavorare per la pace nel mondo». Ma stando al di fuori dell’ambiente d’evasione, e non esponendosi troppo al fascino degli specchietti, si può sostenere, con un certo candore ideale, un principio analogo, mediante la ragguardevole affermazione: «Io sono qui perché voglio essere utile a tutti quelli che amo». È una proposta elevata da prendere in degna considerazione.

 

Abbiamo subito però un primo cicalino che va ad emettere uno di quei suoni interruttivi, piuttosto fastidiosi, e fa capire che la genericità dell’espressione dialettica sconfessa il contenuto etico. In altre parole, bisogna che l’ego articoli meglio quanto detto.

 

Io ed ego

Il dialogo tra Io ed ego

 

Per incoraggiarlo, l’Io gli viene incontro: «Chi sarebbero quelli che tu dici di amare?».

 

«Beh – risponde l’ego – sono i miei famigliari, i miei parenti, i miei amici piú cari; poi quelli che mi hanno fatto del bene, quelli che mi hanno sempre dato una mano, mi hanno aiutato».

 

«Quindi tu pensi che amare in questi termini sia per sé con­clusivo? non suscettibile di ulteriori modificazioni? È una specie d’insieme, che ti sei costruito col tempo e con le esperienze. Un orticello a latere da accudire, coltivare, e magari un pochino anche da sfruttare».

 

«Non ci sarebbe niente di male, mi pare! O no?».

 

«No, certo che no; figuriamoci. Però sai, io penso che la dina­mica dell’evoluzione non si arresta mai, quindi anche il tuo cer­chio magico dell’insieme d’amore, credo, subirà la pressione del tempo: ci saranno delle modifiche, delle variazioni; alcuni personaggi usciranno di scena e magari altri li rimpiazzeranno».

 

«Eh, lo so. È già accaduto e accadrà ancora. Ma devo anche dire che, almeno per quel che riguarda la mia sfera affettiva, il numero di coloro che ne sono ricompresi è in continuo aumento».

 

«Bello! C’è tuttavia un piccolo elemento che non bisogna trascurare».

 

«Che vuoi dire?».

 

«Dico che, in buona sostanza, bene o male, tu operi una spartizione, fai un distinguo. Da una parte metti quelli che hai appena classificato in un certo modo, e dall’altra…».

 

«Dall’altra, cosa?».

 

«Ecco, vedi, ho l’impressione che dall’altra resterà fuori un bel po’ di gente».

 

«Ma che ragionamento è questo? Si capisce che resterà fuori tanta gente! Non posso mica amare tutti!».

 

«Ah no? E perché?».

 

«Questa sí che è grande! Ma tu cosa pretendi da me? Da me, che sono un ego, nato per essere un con­centrato di forze centripete, riflesse, converse e autoreferenti. Per amare tutto e tutti, dovrei fare una capriola mortale e rivoltare come un calzino la mia struttura di base. Una pratica lesionistica che, oltre a tutto, mi pare, non abbia nulla a che vedere con l’amore».

 

«Va bene, ma tu stesso hai pure ammesso che la vita prosegue. Il mondo tira avanti, e le esperienze accrescono arricchendo di continuo la nostra interiorità».

 

«E con ciò?».

 

«Con ciò voglio dire che pure il tuo “recinto dei preferiti” potrebbe allargarsi; e sai com’è, allarga oggi, allarga domani, magari un bel giorno ti accorgi che lí dentro ci potrebbe stare tutta l’umanità».

 

«Già, ma a quel punto io non sarei piú io, cioè non sarei piú un ego. La mia funzione specifica è quella di spartire, dividere, frazionare, ridurre ai minimi termini».

 

«Per meglio possedere e per meglio manovrare!».

 

«Come sarebbe?».

 

«Non è difficile da capire; se domini su troppe cose, alcune inevitabilmente sfuggiranno al tuo controllo, e tu, almeno cosí m’è parso, desideri sempre controllare tutto. Non c’è da vergognarsi. Pure l’Impero Romano…».

 

«No, no, scusa: tu ora stai uscendo dal tema; eravamo rimasti al fatto che secondo te non è sufficiente che io mi limiti ad amare quelli che ho scelto di amare».

 

«Cos’è in fondo che ti fa scegliere fra tante, una persona da amare e un’altra da non amare?».

 

«Ah, beh, ma qui tu ti metti a spaccare il capello in quattro; incontriamo gli altri, mischiati, confusi e tra questi percepiamo coi sensi e coi sentimenti l’eventuale essere che suscita in noi quei sensi e quei sentimenti. Che poi, se sarà amore, va bene, sennò sarà simpatia… Ti va bene cosí?».

 

«Quindi, se interpreto bene, percezione e sentimento sarebbero gli elementi determinanti per il sicuro ricono­scimento di una presenza d’amore?».

 

«Mah, se vuoi metterla su questo piano, ti dico di sí. In fondo è noto che l’amore, o meglio l’innamoramento, non è certo questione di testa. Qui pensiero, razionalità, logica si pongono solo in seconda battuta, e forse anche un pochino piú indietro».

 

«Però in quel che affermi, di sostanza c’è soltanto l’elemento percettivo; il sentimento vale in quanto, prima ancora d’essere sentimento, è una percezione».

 

«Certo. Anch’io conosco i gradi della conoscenza, e so che prima viene la percezione, per l’appunto; poi abbiamo la rappresentazione, e solo come ultimo – last but not least – arriva il concetto. Vedi che ho imparato correttamente?».

 

«Bravo! Complimenti! I tuoi ultimi quarantacinque anni non sono andati sprecati, almeno per la lingua inglese. Però adesso ti prego, dimmi una cosa: secondo te, ai fini di un reale onesto atto conoscitivo, chi tra i tre nominati gioca il ruolo preponderante e decisivo: la percezione, la rappresentazione o il concetto?».

 

«Mah! Io penso che siano tutti d’uguale portata; la percezione è l’iniziale necessario; la rappresentazione è l’elaborazione indispensabile che il pensiero svolge sopra di essa; e il concetto…».

 

«Sí, il concetto… cosa?».

 

«Eh, lí bisogna andar cauti, perché non è roba di tutti i giorni. Il concetto necessita di alcune premesse senza le quali non si fa niente! È come voler andare a visitare uno zoo».

 

«Che vorresti dire?».

 

«Dico che per visitare uno zoo, che ora si chiama “bio-parco”, ci vuole che ci sia un bio-parco. Sennò che vai a visitare?».

 

Uomini con pistola e fucile

Pistola contro fucile

 

«Ah! Divertente, ma poco convincente. Però so essere arguto anch’io e se me lo concedi, ti parafraso una battuta tratta da un vecchio film western, adeguandola al nostro discorso: “Quando un uomo armato di percezione (di pistola) incontra un uomo armato di rappresentazione (di fucile), l’uomo armato di percezione è un uomo morto. A meno che non cominci a parlare (sparare) per primo”».

 

«Questa non l’ho capita».

 

«Per forza; non provarci nemmeno. Come ego sei legato mani e piedi alla percezione immediata; e quel che vi è di piú pericoloso, sei legato solo all’apparenza del percepire; che non è il percepire com­pleto, ma una sua, come si dice in termini informatici, “inizializza­zione”».

 

«Aspetta un momento! È facile per te che, in quanto Io, parti da una posizione dominante. Tu nei concetti ci vivi; ma “io-ego”, da quaggiú, devo arrangiarmi con le percezioni e con le rappresentazioni; e dal momento che esse appaiono di continuo intimamente attaccate le une alle altre, cosa posso dire se non che con queste devo ogni giorno ricavarmi il bel quadretto della mia realtà?».

 

«Ma è questo il punto! Desidero, senza obbligarti allo sforzo, farti ammettere la parzialità, e quindi l’arti­ficiosità, di una tale visione del mondo, che non solo è incompleta ma anche distorta. Sei tu stesso a rivelarmelo, quando ammetti una crescita, uno sviluppo interiore, un’evoluzione. Nulla sta fermo, tutto diviene. Capisci? È un incessante divenire (ricordi Eraclito?). E allora? Se gestisci percezioni e rappresentazioni, proverai prima o dopo una spinta pure verso i concetti, magari astratti sul momento».

 

«No, guarda, non sono d’accordo, quel che vai dicendo è vago e nebuloso».

 

«Ah, va bene, ho capito, ti ci vogliono degli esempi pratici! Allora adesso tiriamo fuori il gioco delle “cartoline-ricordo”».

 

«Cartoline-ricordo? A far che?».

 

«Ci giochiamo, io e te, come sempre. Quante volte l’abbiamo fatto, e sei sempre stato tu a cominciare, mo­strandomi ora questa situazione di vita ora quest’altra. Che, in fondo, sono sempre dettagli della tua sfera privata, in cui ogni volta rischi di perderti. Ma tu ci sei legato sentimentalmente, ed io questo lo capisco e lo rispetto. Ora però il gioco può tornarci utile per andare avanti con il nostro discorso».

 

«E che dovrei fare, secondo te?».

 

«Beh, prima di tutto tirare fuori dall’archivio almeno un paio di “psico-cartoline” e illustrarle in modo sem­plice, stringato, ma anche esaustivo. Come hai fatto sempre! Per esempio, c’è quella dello “schiaffo all’inchiostro”, e poi quell’altra della “ragazzina col cane”; meritano di venir qui ora rivissute, per vedere se, oltre a percezione e rappresentazione, possiamo sviluppare qualcosa in piú. Magari scoprire cose nuove che finora tu non sei stato in grado di rivelare neppure a te stesso».

 

«Ma è roba vecchia, acqua passata che non macina piú!».

 

«Vero! Dicono i saggi che non ti puoi bagnare per due volte nella stessa acqua del fiume; ma non ti hanno spiegato che se ti metti ammollo in un fiume, verrai bagnato sempre da tutte le sue acque. Per cui, amico mio, racconta, racconta di nuovo. Vedrai che ti farà bene».

 

Secondo cicalino interruttivo: l’ego, non del tutto convinto, accetta di narrare.

 

Cartolina-ricordo n. 1: la faccenda dello “schiaffo all’inchiostro”.

 

Bambini macchiati di inchiostro

Lo schiaffo dell’inchiostro

 

Correva l’anno 1950; avevo sette anni e mi trovavo nella seconda classe elementare della scuola di San Giorgio a Trieste. Quella volta si usavano ancora i calamai infissi nei banchi; il bidello veniva a riempirli un paio di volte alla settimana. Un giorno, il compagno seduto vicino a me aveva temperato la sua matita e parte del legno tagliuzzato era finito proprio nel calamaio. Ricordo an­cora la pellicola giallastra della matita galleggiare sul blu intenso dell’inchiostro. Al che, quasi per sfida il ragazzino mi sussurrò: «Scommetto che non riesci a soffiar via le briciole di matita».

 

Io ero sicuro di sí: soffiai; soffiai forte, e successe il patatrac! L’inchiostro, stufo di starsene racchiuso nel calamaio da tempo, schizzò gioioso da per tutto, e, con un evidente slancio di gra­titudine nei confronti del suo liberatore, finí in gran parte ad­dosso a noi, imbrattando il viso, i capelli e il vestito.

 

Il nostro maestro non si perse d’animo; secondo le migliori tradizioni educative dell’epoca, mi prese per un orecchio, mi tirò letteralmente fuori dal banco, e tra il tripudio e le beffe de­gli altri ragazzini, mi trascinò in corridoio, aprendo una per una tutte le porte delle altre scolaresche, ed esibendomi al popolo degli alunni come il mascalzoncello disturbatore che, in spregio all’autorità costituita, aveva compiuto la sua bravata giornaliera!           

 

Finii dal Direttore, il quale informato sull’accaduto, mi appioppò un sonoro ceffone a coronamento della mattinata. Poi mi affidarono ad una inserviente per una parziale ripulitura. Rimasi nel bagno della scuola ben oltre l’orario normale, fintanto che mia zia, avvertita telefonicamente, non venne a prendermi per portarmi a casa.

 

Fine storia n. 1.

 

Ego: «Come sono andato?».

 

Io superiore: «Bene, direi. Racconto preciso, dettagliato, non eccessivamente polemico, anche se qualche venatura si lascia intravedere».

 

«Lo credo; ogni volta che rivango, mi sento l’orecchio destro in fiamme, e la ganascia bruciare ancora».

 

«Il dolore fisico passa; la vergogna, la rabbia e la sensazione d’aver subito una grossa ingiustizia per­mangono a lungo. Ma coraggio, dai! Andiamo avanti con la seconda cartolina!».

 

Cartolina-ricordo n. 2: “la ragazza col cane”.

 

1963, avevo vent’anni, da poco superati gli esami di maturità, mi trovavo a Milano, con un gruppetto di amici triestini. Avevano messo in piedi un servizio di rappresentanza di articoli per fumatori e di oggetti da regalo, ed io, dopo vari tentennamenti, avevo deciso di seguirli nell’avventura commerciale. Abitavamo in un grande appartamento nel quartiere Q-8, zona san Siro, e sotto casa, nel seminterrato, avevamo pure un magazzino-deposito piuttosto capiente con garage e servizi annessi. In quegli anni gli edifici della zona erano tutti nuovi di zecca, molto moderni, circondati da aiuole, giardinetti, viottoli erbosi; il tutto ben distanziato nell’insieme piacevole. Ma il guaio era che tra un gruppo di condomini e l’altro il terreno era rimasto brullo, gli alberelli appena piantati erano smilzi e parevano ombrelli chiusi puntati verso l’alto; le fognature e le altre condotte civiche non ultimate; sicché di notte grossi ratti passeggiavano indisturbati nella nebbia sotto una illuminazione ancora da completare; il che dava un quadro piuttosto spettrale al rione, ma si sa, Milàn l’è ’n gran Milàn e gli si perdonava ogni cosa in nome dei dane’ e dello stadio di san Siro (oggi Meazza) che a quel tempo non mancavo di frequentare. Qua e là, oltre al nostro magazzino, c’erano alcuni negozi appena aperti, piccoli, modesti ma pieni di aspettative, tra i quali, nel gruppo delle case vicine – parliamo di una distanza di 50, 60 metri – un salone di parrucchiera.

 

Fanciulla anni 70 con boxer

La ragazza col cane

 

Essendo appena avviata l’attività del salone, la titolare si concedeva spesso di mandare l’unica lavorante a portare il suo cane a fare un giretto igienico e ad esplorare la zona. Quindi avevo modo di incontrare spesso la ragazza col boxer (anzi, a dir il vero era una boxerina, molto simpatica, snella, elegante, dal manto marrone a macchie scure). Per qualche tempo la figura di questa signorina, che poteva avere 17-18 anni (e che in seguito seppi dal Giuvàn, – barista unico, nonché cronacense e dela­tore del rione – essere la nipote della proprietaria) non mi si focalizzò piú di tanto; ma poi osservando bene il suo volto, quasi sempre imbronciato e scostante, una scintilla d’interesse s’accese in me, e, a farla breve, riempí silenziosamente il mio cuore ventenne con un magico miscuglio di fascinazione e mistero. Chi era quella sconosciuta?

 

La vedevo bella e triste; forse non amava quello che faceva, o forse era un atteggiamento difensivo; fatto è che un giorno (ormai sapendo piú o meno i suoi orari, anzi, gli orari della boxerina maculata) l’attesi al varco in un passaggio che sapevo obbligato, e con un sorrisino disinvolto che tentava di masche­rare quello impacciato, le dedicai il miglior “ciao!” che avevo in dotazione. Lei di scatto girò la testa dall’altra parte e passò ol­tre; la boxerina, che invece sembrava volersi interessare al sottoscritto, si beccò uno strattone di guinzaglio piuttosto significativo. Allora non ero un dongiovanni, né lo divenni in seguito; cosí invece di insistere, lasciai perdere; del resto ci sono delle cose nella vita dei sentimenti che ti sembrano talmente delicate, da impedirti un’azione esplicita e pressante. Ma se natura e temperamento pongono i loro veti, l’anima non sta lí a succhiarsi il pollice; continua a vivere l’intima esperienza sia pure per quel piccolo spiraglio che si sia verificato. E non la dimentica piú.

 

Quale aiuto-magazziniere della ditta, rimasi nei paraggi per tutta l’estate ma poi all’inizio dell’autunno, fui promosso “viaggiatore”; mi venne affidata una vecchia Fiat 600 Multipla, carrozzata Coriasco (ex camioncini grigi della STIPEL ) e di conseguenza avrei dovuto svolgere il mio lavoro itinerante tra Liguria, Piemonte e Val d’Aosta. Il che comportava partire ogni lunedí mattina e tornare a Milano nel pomeriggio del venerdí.

 

Per molto tempo non ebbi occasione di rivedere la ragazza. Accadde poi che la ditta si smembrò, i soci, come tutti soci commerciali, litigarono di brutto, e noi agenti-viaggiatori, capita l’antifona, ce ne tornammo a casa. In pratica l’avventura milanese si concludeva cosí.

 

Partii per ultimo; ero il piú giovane dei rappresentanti e a Trieste non c’erano grandi cose per cui valesse la pena di affrettare il mio rientro. Avevo sgomberato l’appartamento, restituito le chiavi al proprietario, chiuso le utenze, preparato le mie poche cose in due sacche e chiamato un taxi per farmi portare alla Stazione Centrale.

 

Ricordo il giorno: 5 febbraio 1964; tempo incerto, una vaga promessa di primavera subito stretta nell’umido grigiore dell’hinterland; sole pallido e velato. Un po’ come mi sentivo dentro io: con la mestizia del profugo che torna a casa da profugo e per giunta a mani vuote. Ma a vent’anni le cose girano veloci. Sistemati i bagagli nel taxi, mi venne di sollevare lo sguardo all’abitazione sopra il salone della parrucchiera, dove sapevo abitavano zia e nipote. Lei era in piedi dietro la finestra e stava guardando la mia partenza! Chissà da quanto era lí! Senza pensarci su neanche un secondo, alzai entrambe le braccia e le agitai verso di lei come due eliche, con un entusiasmo ed un ardore che mai avevo provato prima; una commozione misteriosa s’era impadronita di me, ne ero perfettamente consapevole, gliela volevo donare tutta! E mi permetteva un agire sicuro, deciso, senza titubanze e tentennamenti. Da dietro quella finestra, lei rispose; spalancò le due ante e rispose, sorridente e piangente ad un tempo, saltellando sul posto, agitando le braccia e mandandomi i bacini con uno slancio perfino superiore al mio. Salii sul taxi, e all’autista che chiedeva dove portarmi, ricordo d’aver mormorato semi-inebetito: “Non lo so; glielo dico dopo: per ora giriamo ancora un po’ qui intorno”».

 

Cimitero con lucine

Le luci di conforto

 

Altro cicalino: l’ora delle reminiscenze è finita. Si tirano le som­me. L’ Io si felicita con l’ego per la buona esposizione, un po’ roman­zata, ma onesta. Riprende quindi il discorso tra i due, che s’era arre­stato sulla contrapposizione tra l’efficacia delle memorie percettive e rappresentative di contro a quelle intuitivo-concettuali: queste ultime brillano di luce propria – sostiene l’Io a spada tratta – ogni volta che un pensiero adeguato sappia rinnovarle degnamente; le prime, invece, sono come le lucine del Campo Santo: un conforto elegiaco per acca­rezzare le anime bisognose di coccole.

 

«Adesso ovviamente dobbiamo riprendere in mano il bandolo della matassa» dice l’Io, dando cosí inizio alla parte conclusiva della ricerca.

 

«Sí, ma ho già detto tutto: l’hai ammesso anche tu che sono stato abbastanza completo, e allora non vedo…».

 

«Ma come non vedi? Come fai a non vedere? Non ti accorgi che ti ho fatto partire appositamente da quelle che sono le tue percezioni rappresentazioni vissute, per spronarti a tirare le somme oltre la barricata del sensibile?».

 

«Tutto facile per te, ma chi come il sottoscritto si trova nella Valle di Lacrime, non dispone di visione panoramica a 180 gradi. Io ho ricordato, ho ripercorso…».

 

«Alt! Fermo lí! Tu hai ripercorso? Ma quando hai vissuto il contesto, non hai percorso niente. L’hai subíto! L’hai dovuto subire! Ed ora mi dici di averlo percorso. E come hai fatto? Ti sei dato una mossa?».

 

«Ma no, no, è che sono partito dalle percezioni… Sí, certo che le ho subite».

 

«E cosa ti è accaduto poco fa alla fine dei tuoi racconti?».

 

«È accaduto che mi sono riamareggiato, intristito, avvilito, cosa posso dire? Ogni volta che ci penso vedo sempre le mie sconfitte. Nel caso dello schiaffo, la mia incapacità di reagire, almeno verbalmente; nell’altro caso, quello della ragazza, il rimpianto di essermi comportato da debole, di non esser stato lesto a cogliere l’oc­casione che mi si presentava».

 

«Quindi se ho capito bene, hai subíto sempre tutto, prima vivendolo e poi ricordandolo: non ti sei mai stancato di dover subire?».

 

«Avevo qualche altra scelta?».

 

«Oh santo cielo! Ma è mai possibile che tu debba stagnare nella palude della banalità? Non pensi altro che alla figura che hai dato di te stesso nei confronti del mondo, e non te ne dai pace! Ma non hai neppure il minimo riguardo per quello che, grazie a queste tue disavventure, chiamiamole cosí, hai ottenuto come esperienza di vita! Quelle non le vedi proprio; neanche oggi. Il tuo malessere è tutto qui!».

 

«Davvero tu affermi che io possa averci guadagnato qualcosa di buono?».

 

«Ma certo! Ma sicuro! È inevitabile! È sempre cosí. La vita è una maestra inflessibile, ma non ti darà mai e poi mai un soffrire senza senso, fine a se stesso. Ascoltami bene: ora citerò Massimo Scaligero, in un passo che tu conosci molto bene; e in seguito applicheremo l’implicita legge dello Spirito che sta in quel passo e che lo rende cosí essenziale da far sparire di colpo ogni ombra di mugugno interiore. Il passo è: “Amare è l’arte della guarigione; è guarire del dolore, guarire della morte ; è irradiare la vita che, come personale e reclusa vita, si ha solo per condurla alla morte. Ma non è facile, perché ogni moto d’amore sboccia nel terreno della morte e deve trarre dal buio profondo del terrestre la sua luce”».

 

«Sí, sí, ricordo bene; è uno dei miei punti preferiti. Ma come applicarlo? Dove?».

 

«Io sono certo che in pectore tu abbia già presente la possibilità di effettuare questo passaggio: esso è fondamentale ai fini dell’evoluzione, ergo è fondamentale ai fini di tutto. Adesso dimmi brevemente, qual è il risultato che hai fin qui ottenuto da ciò che hai vissuto una volta e narrato cosí tante volte?».

 

«Ma mi pare di avertelo già spiegato!».

 

«No. Ora ti chiedo una sintesi; la sintesi è una cosa diversa dalla spiegazione. Questa riguarda il perché dei fatti accaduti. La sintesi invece è il motore grazie al quale i fatti si sono verificati in un certo modo anziché in un altro. Allora ricomincia: dallo “schiaffo all’inchiostro”, cosa ne possiamo tirar fuori?».

 

«Non posso far altro che ripeterlo: rabbia, dolore, delusione, sfiducia nel mondo, nella vita, ingiustizia contro di me che non mi potevo difendere».

 

«Questo è l’elenco delle percezioni e delle rappresentazioni, tutte rapportate all’insofferenza dell’ego, che continua a vedere solo se stesso crocifisso nell’impegno esistenziale; in quanto ego cogli solo il tuo sentirti disonorato, ferito, offeso. Non vedi, né vuoi vedere quel che, contemporaneamente, accade intorno a te».

 

«Perché? Che accadeva intorno a me mentre subivo il maltrattamento?».

 

«Molte cose: hai mai pensato alle reazioni conseguenti che possano aver influito sulla vita del ragazzino che ti ha indotto a soffiare sul calamaio? E quelle del maestro ? Cosa mi sapresti dire sul maestro, preso alla sprov­vista da un evento stupido, questo sí, ma che metteva in precario la sua funzione, il suo ruolo, la sua carriera scolastica e forse anche la sua stessa coscienza? Ti rendi conto che senza avere il minimo riguardo per l’altro, tu hai solo cercato… che cosa? I tuoi diritti! Pensi, alla distanza di tempo, che il tuo contegno sia stato migliore dei loro? Sei riuscito a far perdere la pazienza anche al direttore della scuola, che dopo, forse anche molto dopo, si sarà vergognato d’averti colpito; ma oramai era fatta; non poteva piú tornare indietro…

 

Bambino consolato

La zia consolatrice

 

E tua zia? Ricordi l’agitazione, la premura e l’ansia che il tuo gesto le ha procurato ? Era subito accorsa a prenderti, a consolarti. Ma a te, di tutti costoro implicati nella sceneggiata, cosa poteva im­portare? Niente, tu eri occupato al cento per cento nella roccaforte dell’auto-vittimismo; e neppure negli anni successivi, a quanto capi­sco, hai mai preso in considerazione il fatto che dalla tua futile super­ficialità di allora hanno preso le mosse molte correnti, le quali hanno agito a largo raggio, costringendo gli altri protagonisti a recitare for­zosamente la loro impreparazione, che – devo proprio dirtelo? – era tanto povera quanto la tua».

 

«Ehi, adesso basta! Che credi? Cosa volevi che facessi? Un espo­sto all’autorità giudiziaria? O una segnalazione al Telefono Azzurro? Accidenti, avevo sette anni, ero piccolo!».

 

«Sí, certo! Questo è il punto, caro amico ego. Eri piccolo: ma il guaio è che, pure dopo, nella regia dei ricordi, sei rimasto sempre piccolo. Ti sei impedito di crescere, perché hai permesso che il tuo rimestamento del fatto diventasse nel tempo piú iniquo del fatto stesso; una gratificazione indebita a sostegno della celebrazione sacrificale; nel frattempo il labirinto si chiudeva e tu te ne restavi lí, convinto di essere in credito col tuo destino; come se il destino non avesse di meglio da fare che giocare a poker con le vicende umane, magari anche bluffando».

 

«Ma ti rendi conto di quel che dici? Tu mi stai facendo passare dal ruolo di parte lesa a quello di imputato! Stai ribaltando ogni logica. Questo è davvero troppo!».

 

«Se parli della logica di questo mondo, hai ragione; finché t’insegna che un uomo ha dei diritti solo quando è in grado di difenderli! Ma a chi osserva solo gli effetti, le cause restano sempre estranee».

 

«E allora dillo una buona volta! Non girarci intorno! Dillo che io sono la causa di tutto, che è colpa mia se tutto mi è andato male e se mi si è rivoltato contro! Vuoi che mi penta? Vuoi che mi scusi? Ma con chi dovrei, se ho pagato salato il conto! A chi mi devo rivolgere per avere un minimo di umana comprensione?».

 

«Tu non hai bisogno di umana comprensione; la cosiddetta umana comprensione è solo una panacea per chi pretende di essere amato senza averne merito. Tu hai bisogno piuttosto di imparare a inquadrare le situazioni interiori in un contesto di piú ampio respiro, piú aperto, privo di paraventi e di fondali teatreschi. Hai bisogno di aria di verità, di ossigenare i polmoni asfittici lentamente intossicati a furia di inalare la polvere della parzia­lità, scambiata per completezza esaustiva. Fissarsi sui ritagli non aiuta nessuno a completare il quadro della sua situazione».

 

«Ma è pazzesco! Sono veramente annichilito! Cosí io non ho fatto altro che baloccarmi con la parte inutile dei miei drammi, e contemporaneamente, tu dici, avrei omesso di cogliere l’aspetto eclatante dei medesimi? E ciò varrebbe pure per la storia della “ragazza col cane”? Cosa si può guadagnare sopra un sogno infranto mai realizzato?».

 

«Nulla, e infatti nulla ne hai avuto. Nulla di positivo almeno, sempreché tu non valuti il rimpianto e lo sconforto come doni del cielo, utili all’evoluzione dell’anima. L’hai pur detto chiaramente: hai prima parlato di “un’occasione non colta” e adesso rincari la dose chiedendo cosa si possa “guadagnare da un sogno rima­sto tale”; è sintomatico, non riesci ad andare oltre a quel che vuoi credere perduto!».

 

«Va bene! Allora dimmelo tu, che sei tanto piú bravo di me, a spiegarmi cosa ho perduto, cosa ho trascurato nella mia farneticazione esistenziale! Cosa mi rimane di quella donna? Di quel momento cosí intenso e cosí fuggevole?».

 

Dante e Beatrice

Ary Scheffer «Dante e Beatrice

 

«Ti rimane nel profondo dell’anima l’esperienza dell’amore sublime, dell’amore puro, incontaminato; ti rimane la possibilità di coltivare, grazie alla devozione, quel momento vissuto, di farlo diventare eterno dentro di te! È il passaggio, capisci? È quel passaggio! È il salto di livello tra la sterilità del mondo percettivo-rappre­sentativo a quello luminoso e vivente di concetti e delle idee! È la Verità Rivelata di Beatrice per Dante; è il compimento del cerchio androginico in cui l’anima spez­zata a metà va alla ricerca dell’altra sua parte; ma non può compiere l’unificazione subordinandosi all’imposizione dello spazio e del tempo; deve avere il coraggio di trovarla oltre, laddove nulla possa contaminare il ricongiungimento. Altro che occa­sione non colta! Altro che sogno infranto! Ma dove ti credevi di essere? In un foto­romanzo rosa? Ti vale questa ragione? Sei in grado di apprezzarla?».

 

«Ma questo che mi dici, sí, certo, lo capisco, posso capire. Ma non è cosí che funziona, non mi pare… Se fosse cosí davvero, se l’amore incompiuto fosse vero, allora. la specie umana si estinguerebbe».

 

«Sbagliato! L’amore è sempre compiuto. Solo la materialità del terrestre esige la prova fisico-sensibile; la pretende per trasformarla in un qualcosa di suo».

 

«Allora ogni uomo dovrebbe amare in eterno solo ciò che è inafferrabile e irraggiungibile?».

 

«Per ora no. Un tale problema appartiene ad un possibile futuro quando nulla sarà inafferrabile e irraggiun­gibile; non è certamente attuale, se non a livello conoscitivo. Quel che ha valore qui, in questa epoca del­l’anima cosciente, e nel nostro specifico caso, è che per conseguire una verità dello Spirito, l’anima deve sa­pergli prima offrire una parte di sé; e se lo fa con rimpianti e recriminazioni, rovina tutta l’esperienza ridu­cendola a zero. Ricorda: “ogni moto d’amore sboccia nel terreno della morte e deve trarre dal buio profondo del terrestre la sua luce”. A volte anche con fatica, con stento, con dolore. Ma è sempre meglio che non re­stare lí col lumicino in mano che si spegne poco a poco».

 

«Quindi la legge spirituale consiste nel fatto che devo prima perdere tutto per poi capire un giorno che forse non ho perso nulla?».

 

«Amico ego, amico mio: pensaci su: non c’è dunque cosa nel tuo mondo interiore per cui valga veramente la pena di perdere tutto quello che il mondo esteriore è capace di offrirti?».

 

«Non so, non saprei. Adesso mi hai frastornato, mi sento confuso».

 

«Va bene, è giusto che ti senta cosí. Ma puoi sempre venire con me; usciamo dal sentiero delle chiacchiere, abbiamo già parlato anche troppo. Ora andiamo nel mondo, perché è da qui che si dipartono le vie, e tu sai che, fra tante, potremo trovare quella che conduce a ciò che forse sarà».

 

«Ma come si fa? Non conosco queste strade. Tu forse sí, magari tu conosci una via».

 

«No, tranquillo, sarebbe impossibile: ogni volta è diversa. Ma non ti preoccupare. Da questo momento in poi, la cercheremo insieme».

 

 

Angelo Lombroni