Giustamente quest’opera si fonda sulla constatazione che la storia della filosofia giapponese ha poco piú che un secolo di vita: che è un dato obiettivo, se al termine filosofia si deve attribuire il significato che esso ha avuto per quel pensiero occidentale che, preparato dai preistorici, ha la sua prima forma rigorosa nel logos aristotelico. Quel pensiero, sino all’idealismo germanico e italico, e la sua storia sono una sola cosa.
Vero è che tutto il pensare umano è sempre un filosofare. Anche colui che nega validità al pensare e lo speculare, filosofa, ma non lo sa. Perciò nella storia della filosofia vi sono filosofi in discordia con il pensiero e con la sua sorgente metafisica: edificatori di strutture filosofiche che fanno appello al pensiero, alla logica, alla dialettica, ma negano dialetticamente la vita spirituale che consente il movimento di pensiero, della logica, della dialettica. In realtà negano il movimento stesso del pensiero, negando chi lo muove.
Anch’essi sono compresi nella storia della filosofia; perché manca la possibilità di una discriminazione, ossia di una identificazione di ciò che avrebbe diritto a chiamarsi filosofia, e di ciò che non lo avrebbe. Tale distinzione è perduta, non è piú possibile. Perciò si deve accettare che anche la filosofia giapponese s’inquadri con il criterio che tutto ciò che è dialetticamente sistemato, o logicamente normativo, sia filosofia. Ossia è filosofia la scienza del concetto, ed ogni ricerca concettuale in tale direzione, riguardo a qualsiasi oggetto, mentre ogni esperienza dell’anima, che trascenda il concetto, pur espressa in concetti, non è filosofia, bensí mistica, o misteriosofia.
In tal senso e giusto dire che la storia della filosofia giapponese data da poco piú di un secolo: ha una data di nascita, 1862. Nel primo ventennio (1862-1885) possiamo scorgervi la presenza di tre correnti principali di pensiero: empirismo, positivismo, evoluzionismo. Notevoli sono due pionieri, Tsuda e Nishi, l’evoluzionismo di Katō Hiroyuki e l’insegnamento della filosofia anche ad opera di docenti occidentali all’Università di Tokyo.
II periodo immediatamente successivo (1886-1900) è caratterizzato dal conservatorismo e dall’idealismo anglo-germanico: è la reazione alla occidentalizzazione del Giappone, il pensiero antico in nuove categorie ad opera di filosofi come Nishimura, Inoue Enryō, Miyake; la vasta illuministica e in pari tempo tradizionalista attività di Inoue Tetsujirō; l’etica e il criticismo di Onishi Hajime, la psicologia sperimentale di Koeberu Sensei, le prime forme di ideologia socialista e marxista.
Segue un periodo dell’individualismo, del pragmatismo e del neo-kantismo (1901-1925). Notevoli lo strumentalismo di Tanaka Ōdō, l’individualismo etico di Abe Jirō, allato all’opera di docenti come Kuwaki Gen’yoku e Tomonaga Sanjūrō.
Verso il secondo decennio del Novecento, ha inizio l’opera determinante di Nishida Kitarō (1870-1945), che forse è il piú grande pensatore del Giappone moderno. Attraverso Nishida infatti entra nell’ambito della cultura giapponese la piú nobile filosofia occidentale, quella che veramente esprime lo sforzo del pensiero umano per riportare alle categorie dello Spirito la vita, l’esperienza sensibile, la natura, la scienza. Si può dire che, come in ogni altro campo, la verità è in lotta contro l’errore anche nella filosofia: il pensiero lotta per la propria realtà, contro ogni contraffazione della forma di tale realtà. La dialettica, tagliata fuori dal movimento intimo del pensiero, è l’errore: lo hegelismo tagliato fuori dallo Hegel, ossia dallo sperimentare interiore di cui il suo filosofare fu veste, è uno dei peggiori guai della filosofia moderna. E questi guai continuano.
Nishida era anzitutto un asceta e perciò un sano pensatore, un uomo libero: capí che quello che di intimo e di indialettico animò la Scienza della Logica e la Fenomenologia dello Spirito di Hegel è la funzione nuova del pensiero logico. Egli immise nel filosofare giapponese il germe del sano pensiero, del pensiero che edifica, che si muove nelle essenze delle cose, operando come una forza di vita nell’anima del pensatore. Capí che occorreva dare modo alla spiritualità giapponese, alla sua mistica, alla sua religiosità, di continuarsi nella nobile forma delle idee elaborate per forza di autocoscienza.
Non v’e separazione tra l’ascesi Zen e il puro moto del pensiero occidentale: ma occorre che la razionalità sia afferrata nel suo essenziale movimento, là dove e un potere creatore: ogni volta perduto, o paralizzato, dal dialettico a cui interessa il riflesso teorico delle cose non la loro vita. La storia dello Zen ha al suo interno una continua lotta per la distinzione dell’elemento vivo della meditazione dalla sua imitazione. Questa lotta c’è anche nella filosofia, da quando nacque. Occorre dire che questa battaglia, sulla scena ufficiale della cultura, oggi è stata perduta: il dialettismo, il sistematismo, il logicismo fine a se stesso, hanno preso la rivincita sul pensiero a cui debbono la loro esistenza. II dialettismo, la teoretica astratta, sono riusciti a mettere alla porta il pensiero (nella misura in cui questo sia possibile, in un mondo che, meccanizzando tutto, vuole anche meccanica di parole e di discorsi).
Poiché tutto quanto oggi rigurgita nella filosofia occidentale è presente nella filosofia giapponese, sottolineiamo la corrente di Nishida come quella che non sta fuori dell’anima della cultura del Giappone, ma ne continua, in forma speculativa e logica, la piú dignitosa tradizione, congiungendola con il senso dei nuovi tempi. L’arte del pensiero rimane, malgrado tutto, parte vera dell’uomo: il suo compito non è consacrare un’oggettività opposta all’uomo, ma conoscere come già le sue forze penetrano il mondo per il fatto che esso risulta oggettivo.
Oltre Nishida, si può dire che pensatori sono Tanabe, Takahashi Satomi, Watsuji, Hatano, Mutai Risaku, ma è chiaro che possono considerarsi tali, in quanto hanno quella ricchezza interiore a cui fa appello la storia umana per avere senso e orientamento. Che le idee, i concetti, le categorie, la logica, siano conosciuti dall’Occidentale è un fatto che rientra nell’ordine della conseguenzialità: che essi siano conosciuti e sperimentati nella loro concretezza dall’Orientale è un evento che attua l’incontro tra Oriente ed Occidente, unisce due culture, accorda due epoche. L’intellettuale giapponese che sperimenti la filosofia teoretica, la dialettica e la logica, ha la possibilità di incontrare in sé come atto della coscienza le forze interiori che hanno condotto alla civiltà della tecnica: sono le forze che si sono manifestate nell’indagine del mondo fisico e nei sistemi della scienza. È importante che tali forze, almeno dal filosofo, siano conosciute nel loro momento metafisico, cosí che il mondo orientale non accolga i prodotti della civiltà della macchina, privi della loro controparte interiore: che è dire privi di moralità. Come purtroppo è avvenuto. Ciò che può ritornare contro l’Occidente è l’Oriente tecnicizzato e astrattizzato, senza che il suo modernizzarsi sia in correlazione con un cosciente processo di pensiero: che certamente non è la filosofia, ma ciò di cui un sano filosofare è il segno.
L’Occidente, come portatore del razionalismo e della macchina, avrebbe dovuto trasmettere all’Oriente, prima che una cultura libresca o manualistica, l’arte di usare come forze di autocoscienza, o di coscienza pensante, le forze dell’antica mistica: che sono le stesse. È la ragione per cui i residui di un deteriore misticismo, di uno psichico oscurantismo, hanno avuto il potere di riprendere vita traducendosi nella dialettica astratta, nella teoretica terminologica, incapace di afferrare un minimum di realtà, e tanto meno di stabilire ponti tra Oriente e Occidente. E appunto dicevamo che l’Occidente, avendo sempre accolto dal l’Oriente messaggi stimolatori dello Spirito, avrebbe dovuto restituire ad esso non il precipitato dialettico del suo filosofare, bensí forme vive dell’attività dello Spirito: scambio che è un dialogo interiore, non una importazione di libri o di propagatori di erudizione o di interpreti mostruosamente astratti dei rapporti tra Oriente e Occidente.
Massimo Scaligero
Gino K. Piovesana, Recent Japanese Philosophical Thought 1862-1962. A survey.
Tokyo, Enderle Bookstore, 1963.
Da: “Il Giappone”, Vol. 5 – 1965.
Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO).
La Serie dei saggi sul Buddhismo Zen di D.T. Suzuki è ormai universalmente nota, perché, cominciata a pubblicare in lingua inglese sin dal 1921 sulla rivista Eastern Buddhist, apparve nel suo primo volume nel 1927: e da allora è stata tradotta nelle principali lingue del mondo. Per cui si deve dire che se lo Zen ha cominciato a essere conosciuto nel mondo, ciò si deve soprattutto all’opera di Suzuki: opera che non può essere espositiva senza essere in pari tempo interpretativa. Se ciò e stato un bene dal punto di vista della cultura occidentale per l’ampliamento dell’orizzonte delle nozioni nel campo della storia delle religioni, rimane incerto se sia stato un bene dal punto di vista indialettico dello Zen.
La storia delle religioni è infatti la storia dello Spirito che si può celebrare unicamente come fatto dello Spirito, non come registrazione della fenomenologia della religione, che sarà sempre il fenomeno che parla o non parla a seconda di chi lo contempli e lo interroghi. Non si dà infatti una fenomenologia della religione che già non sia il lavoro spirituale di chi la guarda.
“Fenomenologia dello Zen” può intitolarsi l’opera di Suzuki: infatti, l’essenza della dottrina si ricostruisce da fatti, da aforismi, da dialoghi, da biografie di maestri Zen: ed ogni formulazione tradizionale della dottrina, rispetto alla indialetticità dello Zen, è già opera fenomenologica: si cerca, goethianamente o husserlianamente di giungere all’Urphaenomenon o al “fenomeno puro”. Ma allora il conseguimento dipende da chi cerca. E questa è, per chi cerca, l’utilità del materiale offerto, ossia della esposizione di tutto ciò che costituisce espressione dello Zen, anche se una simile esposizione, come si notava, non può non essere interpretativa, ossia non può non essere, nel nostro caso, l’esposizione di Suzuki. E occorre dire che Suzuki è tra i portavoce dello Zen il piú qualificato, anche se ogni portavoce dello Zen non può evitare di esserne il negatore.
Questo materiale fenomenologico, la cui interpretazione è essa stessa fenomenologia, è utile a chi cerca, ma è in pari tempo materia di confusioni gravi per l’intellettualismo e la vanità spiritualistica dei moderni ricercatori che riguardo al “fenomeno” non si comportino secondo quel puro moto dell’autocoscienza, che riconosce già nel darsi del fenomeno la sua azione, ordinariamente non avvertita.
Per cui vengono fuori ulteriori espositori dello Zen, europei e americani, che pur parlando del “non-mentale” e della “ineffabilità” dello Zen, lo riducono a un mondo di parole: ma non soltanto a un mondo di parole, perché questo serve come veste a una presunzione spiritualistica che ha il compito di deformare lo Zen secondo l’astrattezza di una cultura che, se in qualche modo afferra il mondo sensibile, non ha alcuna capacità di aprirsi al sovrasensibile. Di cui tuttavia parla, e che giudica e sistema: naturalmente con astrazioni od ombre di pensiero, o simulacri di idee, ossia con ciò che del pensiero è morto.
Può il pensiero morto afferrare lo Zen? Kitarō Nishida comprese molto bene questo problema, additando ai moderni ricercatori le vie del “pensiero puro” (quello da noi chiamato “pensiero vivente”) che si affaccia non come una “realtà”, ma come una “possibilità”, nell’idealismo occidentale: non compresa dagli stessi idealisti, che hanno fatto dell’idealismo una professione filosofica o un intellettualismo.
L’arte del “pensiero puro” è la via moderna verso lo Zen, non perché il “pensiero puro” abbia bisogno dello Zen per compiersi, essendo esso già lo Zen; ma lo studio, la preparazione, il metodo interiore, sono già forme del pensiero puro verso la sua attuazione: sono perciò la via allo Zen, anche se non si sappia nulla dello Zen.
Per cui si può dire che un occidentale che ababbia la rara e superiore esperienza del pensiero puro, sa tutto sullo Zen senza nemmeno aver letto un testo Zen, e può riconoscere, avendo innanzi la letteratura Zen, ciò che in essa è vero e ciò che è falso secondo lo spirito Zen. Ma in tal caso, salvo la lodevole esposizione di Suzuki, v’è da opinare che ben poche delle moderne esposizioni dello Zen si salvano.
Massimo Scaligero
D.T. Suzuki, Essays in Zen Buddhism. First Series.
New York, Grove Press Inc., 1961.
Da: “Il Giappone”, Vol. 2 N° 4 – Ottobre-Dicembre 1962.
Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO).
Link agli articoli in originale: “Gino K. Piovesana and Daisetsu Teitarō Suzuki”