Cosa spinse una creatura della giungla e delle savane come il leopardo, ad arrampicarsi lungo le falde del Kilimangiaro per trovare poi la morte tra le sue nevi?
Cosa spinse un attore di buona caratura come John Travolta, a cacciarsi nei labirinti del Festival di Sanremo per esibirsi poi in un balletto a dir poco minimale (complice una riedizione non scontata del Gatto e della Volpe) che potrebbe pesare quanto una lapide sulla carriera artistica del suddetto divo?
Non lo sapremo mai; per intanto – attingendo senza riserva alle opere di Hemingway – giunga il monito di starcene sempre in campana, perché quando quella si mette a suonare, lo fa anche per noi.
In effetti il ballo del Qua Qua simboleggia in molti modi un livello di coscienza raggiunto dagli esseri umani nell’epoca attuale; naturalmente est modus in rebus; è giusto fare le opportune distinzioni.
Il Qua Qua nasce come siparietto d’intrattenimento per i piú piccini e di per sé rappresenta un qualche cosa d’innocente; può divertire, sul momento, oltre ai bimbi, anche uomini calvi, signore di una certa età, e piú in generale il pubblico dei teledipendenti che accoglie di buon grado tutto quello che l’epulonica mensa di mamma RAI/TV sforna senza soste.
Tuttavia, la nostra forma d’evolverci, consapevole o no che sia, la pretesa di saper attuare una fake-liberty ciascuno a suo modo, ed il cupio dissolvi che ci accompagna nell’avventura della vita, ben nascosto nei recessi meno frequentati dell’interiorità, fa sí che anche il mezzo piú elementare, piú ingenuo e in apparenza affatto pericoloso, diventi deleterio e autolesionistico: una vera e propria arma a doppio taglio.
Non occorrono bombe atomiche o altre diavolerie micidiali (di quelle che, se uno stato le possiede, fa venire il mal di pancia a quelli che ne sono privi, i quali – giustamente – si sentono in dovere di armarsi adeguatamente pure loro); a volte basta un temperino, una freccetta, oppure una penna e un foglio di carta, per creare una leva che, coadiuvata dal vento del destino, si rivela distruttiva e provoca ingenti danni, non di rado irreparabili.
Per fare un esempio, che ci riguarda da vicino, la RAI/TV e gli organi di stampa, nel convincimento di trasmettere un invito serio e lusinghiero a ridurre i consumi di energia elettrica delle famiglie, hanno lanciato lo slogan “M’illumino di meno”. Una scelta a dir poco opinabile, eppure estremamente indicativa. Nemmeno per un secondo hanno sospettato che quel famoso versetto poetico di Ungaretti è un patrimonio di valore artistico inscalfibile; volerlo impiegare in una campagna pubblicitaria, non solo rivela un grado d’insensibilità rozza e irriverente, ma contribuisce a diffondere l’illecito morale, spacciandolo per virtuosismo disinvolto, e finisce per promuovere nel target destinatario la triste abitudine a perdere di vista il livello della coscienza.
Cosa per altro accolta con un certo favore da gran parte della collettività degli “amministrati”.
Gli scolari a volte possono essere paragonati (senza infamia ) a degli asinelli (lo ha fatto pure Collodi), ma i maestri no; le classi dirigenti (dai CEO, ai presidenti, ai monarchi, agli editori e informatori pubblici) non se lo possono permettere; a meno che non abbiano prima smarrito la luce della ragione. È già successo; vorrei sbagliarmi, ma credo che succederà ancora.
Gli ultimi scambi di battute tra il Gran Capo dell’Ovest e quello dell’Est non rientrano nella rubrica “Cortesie per gli Ospiti”. Perfino Amadeus e Fiorello avrebbero saputo esprimersi meglio.
Tutto ciò sta esattamente all’opposto di quanto RAI/TV e Giornali rivendicano da sempre; essere la Bocca della Verità per la pubblica opinione; la quintessenza in fatto d’informativa, divulgazione e cronaca; obiettiva, indipendente e veritiera.
Ma, sinceramente parlando, si può pretendere da una umanità oramai tragicamente “quaquaizzata”, di rendersi e sentirsi responsabile delle affermazioni proferite e delle azione intraprese?
Talvolta, magari con un piccolo sforzo, diventa accettabile che la mano destra non sappia quello che fa la sinistra. Se tuttavia partecipo ad un funerale e, nell’intento di lenire l’altrui dolore, mi maschero da pinguino, mi son comportato da buffone da quattro soldi, da stupido pagliaccio inopportuno; ho rovinato l’atmosfera delle esequie, ho esagerato e provocato l’effetto contrario alla motivazione d’avvio. Questo si paga.
Non sottovalutiamo quindi il ballo del Qua Qua, o meglio “dei Quaquà”: potrebbe essere un segnale del karma collettivo (il che riguarderebbe ovviamente l’umanità intera). Pertanto concedersi di ridere o criticare o trovare un sollazzo, in un evento mondano di ordinaria fattura, si rivela una trappola, in quanto la nostra partecipazione, benché occasionale, ma comunque vissuta e valutata col velo dell’en passant, pone il critico sullo stesso piano del criticato, e lo scherno conseguente avvolge di squallore le coscienze d’entrambi.
Se si entra in questa prospettiva davvero poco allettante, si deve ammettere che il popolo dei Quaquà è trasversale: non conosce limiti etnici, geografici e nemmeno culturali. È semplicemente il segno di un grado di caduta. Molto utile per nascondere tutto ciò che, mantenendo alta la visuale, si sarebbe potuto osservare, constatare e comprendere.
I problemi che ci affliggono diventano pertanto non risolvibili, per il fatto che, nel fondo delle nostre stravolte coscienze, non esiste la benché minima energia risolutiva. Non per cattiveria, o per malignità; non per incapacità; non per una sorta d’avversione contro il bene comune, ma per uno stato cronico di confusione, agitata ad arte da reconditi persuasori (leggi pure influencer) i quali si sono prefissi il compito di non farci capire quello che dovremmo e potremmo capire; ma per contro, bloccano i moti dell’intelletto umano sulla metà del loro percorso, rendendoli incompleti se non inutili, di modo che – prendendola pure con un pizzico di superficialità – si diventa certi, certissimi di aver capito, senza invece aver capito nulla.
In effetti l’epoca dei Quaquà riprende integralmente il periodo della Torre di Babele, superandolo tuttavia, in quanto per i Torbabeliani non dovette essere difficile comprendere di non comprendersi, mentre per noi, Postalantici di quinta generazione, una tale verità non si è ancora affacciata là dove avrebbe dovuto affacciarsi. Certo, non perché sia la verità a eclissare.
Per tutto questo, il mondo degli esseri umani continua a risuonare incessantemente di parole, discorsi, opinioni, esternazioni, spiegazioni, concioni, arringhe e strombazzamenti vari, sia orali che scritti, i quali collidono e contrastano tra loro, formando vortici di stridori e dissonanze, come succede quando si rovescia un cassettone pieno di biglie su un pavimento di piastrelle.
Qualcuno ha il coraggio di definire la cosa come “ animato confronto costruttivo”. Costruttivo di che?
In conclusione, e questa è già un’intuizione piuttosto complessa, in molte occasioni sarebbe stato meglio starsene zitti; o per lo meno riflettere molto piú a lungo prima di avventurarsi in sentenze e sproloqui, utili solo ad aumentare la confusione d’idee ancora in stato embrionale e la conseguente tensione che ne deriva.
Perché bisogna mettere in conto pure il fatto che quanti ascoltano o cerchino di seguire i discorsi di uno sproloquitore scelto, giunti ad un certo punto d’incomprensione, vengono afferrati da un istintiva antipatia per il malcapitato e, non potendola trattenere, tentano di interromperlo come possono, di sopraffarlo verbalmente, creando quindi un pandemonio dialettico incondivisibile; anche se, bisogna dirlo, molti dei talk show rappresentati al pubblico sembrano esser stati programmati proprio con questo intento.
Ma tacere è pressoché impossibile; il movimento dei Quaquà non concede armistizi, riposi o relax; il silenzio (sano e benefico per chi non vuol trasformarsi in una trottola vivente) viene bandito a priori.
Anzi! Qualora accadesse, per la regola dei grandi numeri (ogni tanto infatti accade), se il frastuono sospendesse momentaneamente la sua insana, degradante esondazione sul pianeta, ecco che immediatamente una miriade di volonterosi (bassa manovalanza d’introttolati) accende radioline, tv, telefonini, hi-fi, stereo, casse acustiche e altri congegni fracassoni, per sopperire all’orrore di quel silenzio; un pericolosissimo silenzio, il quale sarebbe capace d’indurre l’incauto sostenitore a riflessioni, approfondimenti, esami di coscienza, ponderazioni sostanziali: forse (qui voglio esagerare) pure a un inizio di dialogo con se stesso.
Cosa quest’ultima, oramai decretata negativamente anche da parte di illustri pedagoghi; considerata addirittura diseducativa, se non osé, per i blateratori patentati di politica, di moralismo, di attualità, di cultura, di arte e di filosofia; tralascio l’indirizzo religioso e scientifico perché la speranza (almeno la mia) mi ha chiesto la grazia di poter morire per ultima.
Bene, mi pare di aver fatto fin qui parecchie considerazioni, che hanno evidentemente l’unico scopo di contemplare i disastri in corso (piccoli, medi e grandi) e svelare al mondo il disagio interiore che ne provo. Ma per questa strada non si va da nessuna parte, me ne rendo conto. Pertanto la chiudo qui e ci rifletto sopra. Qualcosa di buono mi verrà in mente. Deve venirmi in mente.
Alcuni giorni dopo
Ho riflettuto, anzi ho fatto qualcosa di piú: ho meditato, il che è molto meglio. Riflettere infatti significa fare da specchio inerte a quel che ci angustia, mentre il meditare è cambiare il punto di osservazione del mondo, portandolo piú in alto, di modo che – non sempre ma quasi – la situazione panoramica amplificata rivela cose prima invisibili.
Nel meditare (in questo specifico meditare) mi è tornato a galla un pensiero di Massimo Scaligero; pensiero col quale egli volle iniziare l’undicesimo paragrafo del capitolo primo del suo libro Dell’Amore Immortale: «Colui che pensa, ama, e chi ama nasce…».
Il che ha letteralmente disintegrato tutta la bella concezione “quaquaistica” che mi ero costruito. Non ne è rimasto in piedi nemmeno un pezzettino. E non poteva andare diversamente, dal momento che costruire sulle negatività (sulle proprie, soggettive, personali soggettività) è la fase piú alterata di quella delusione, sempre in agguato nelle anime moderne, che porta alla disperazione e poi alla depressione, dalla quale in seguito diventa impossibile uscire.
Pare assurdo, ma esiste una forma di ipocondrismo animico che si nutre con le nostre sofferenze; queste sono necessarie, anzi, mi vien da dire essenziali, al risveglio della coscienza, ma prima che accada, vengono deviate dall’obiettivo, portate nella sfera infernale del vittimismo, e colà lavorano senza sosta per farci credere che tutto sia sempre definitivamente perduto; che nulla valga la pena di venir tentato, che sia meglio dunque rassegnarci al destino, perché, piccoli e inermi come siamo, non abbiamo alcuna soluzione vincente per ribaltare la situazione in atto.
Mi accorgo di aver appena descritto un determinato processo: una discesa agli inferi da parte di una coscienza che si sente oramai priva di protezione, abbandonata non solo dallo Spirito, ma anche dalla comune vis logica umana; ecco spuntare il ricordo de Il Processo di Franz J. Kafka, dalle cui pagine, in questo momento, emerge a caratteri cubitali la tragica conclusione: “…come un cane”.
Ma io non sono un cane e tanto meno Josef. K., perciò mi concedo la previsione di un futuro piú roseo. E poi ho il motivo di aver incontrato la Scienza dello Spirito, cosa questa di vitale importanza.
Infatti c’è una regola non scritta che vorrebbe far procedere l’anima nell’esistenza fisico-sensibile allo stesso modo con il quale fa procedere il corpo: invecchiandolo e indebolendolo.
Ebbene, anche se l’iter del corpo è necessario e doveroso, nulla vieta che l’anima prosegua invece la sua intima vita, rinverdendosi e fortificandosi proprio in virtú di tutte le vicissitudini che ha incontrato e che incontra nella sua avventura terrestre; spesso quelle piú negative e funeste rappresentano la possibilità migliore di autoriscattarsi e di uscirne capace di un senso di giudizio piú coerente di prima.
A questo punto risulta perfetta la definizione del corso della vita data da Gustav Meyrink ne La faccia Verde: «La vita è un processo di guarigione piú o meno doloroso a seconda di quanto l’anima sia ammalata nella conoscenza di sé». Difficile trovare una diagnosi piú precisa e concentrata.
Questo mi riporta al pensiero che Scaligero ha saputo infondere in ogni riga e in ogni pagina dell’Amore Immortale, pensiero che oso sintetizzare cosí: se hai vissuto senza imparare ad amare indistintamente tutti gli esseri del creato, allora dovrai cercare ancora la vita terrena, per poter conseguire tale conoscenza e trasformarla in azione. Questo Amore, di cui c’insegna Massimo Scaligero, è una novità; non è quello che abbiamo appreso o percepito dai nostri genitori, non ci è stato offerto dalle ordinarie esperienze acquisite, incontrate nella vita ora con l’acutezza della mente, ora con lo slancio cuore, a volte con entrambi, ma poi, sempre rimpastate in una visione egoica trituratrice dei fatti e delle vicende. Apporti di amori temporanei, passeggeri, incompleti; che alludono a qualche cosa d’altro che manca, ma si continua a frugare nel livello in cui il convincimento baricentrico e riduttivo che la ricerca d’amore sembri il gioco piú bello dell’età adulta e costringa a credere che distribuzione di quello sia sottoposta ai capricci di una sorte cieca.
Per cui, chi è fortunato si vanta di aver avuto, e chi non lo è, si rattrista anche di quel poco che ha.
Ma allora l’Amore immortale non esiste? No, infatti, non esiste; per il semplice motivo che non ha alcun obbligo di esistere; non è in funzione di cose terrene, della specie umana o della riproduzione dei corpi. Quindi, in tal senso, non ha da esistere: “è”, in quanto sia umanamente conquistabile al livello dell’“essere”. Punto e basta.
È una proprietà dell’anima conscia di portare in sé la luce dello Spirito Creatore, ma tale proprietà deve prima venir intuita, pensata, ricordata, quindi riconosciuta e poi voluta come atto; sapendo già prima che in ogni punto di tale richiamo l’azione può spezzarsi, subire le devianti della parte di lei succube al sensibile.
Le frasi di Massimo Scaligero non sono da parafrasare mediante dialettica discorsiva; tale regola vale anche per me. Ma nel tentativo di riprodurre la trasparente chiarezza delle Sue parole, ho cercato di rispondermi a due domande: cosa significa “colui che pensa ama?”. Che s’intende per “chi ama nasce?”
Non avrei dovuto faticare molto se fossi stato in grado di collegare in modo corretto concetti a concetti; ma la velocità del mio intelletto, specie per quel che riguarda i temi non banali, è pari a quella di un bovino che tira l’aratro.
Le risposte desiderate erano evidenti e forse proprio per questo non le vedevo. Comunque sia, c’erano; ci sono sempre, stampate bene in evidenza subito dopo l’enunciato del citato paragrafo undici.
“Colui che pensa ama”. Perché? Perché tutta la nostra storia racconta che siamo stati creati da un Pensiero Amante e da un Amore Pensante: quello che ha creato l’universo, i mondi, il sole, la luna e le altre stelle. Pensiero e Amore sono in verità un unicum indivisibile, ma per effetto della caducità e del ciclo delle ripetute vite terrene, l’uomo accoglie dapprima tale Identità come separata, divisa in due parti, che egli riceve disgiunte, una con la mente e l’altra con il cuore.
Dovrà realizzare la ricongiunzione: è il suo compito, che lui stesso – ancora disincarnato, ha voluto e accolto, onde poter capire e contemplare l’Unità di cui è figlio, nella pienezza della sua libera decisione.
Avvenuto che fosse (è un riconoscimento, anzi, è il riconoscimento essenziale) ogni dubbio, ogni domanda, ogni ricerca, si placano. Il Pensiero è la via che porta all’Amore e l’anelito all’Amore è il sostegno che porta il Pensiero a quella precisa mèta.
Chi è colui che – amando – nasce?
Si potrebbe rispondere: tutti. Ogni creatura umana è nata da un atto d’amore, non importa se elevato, nobile, delicato, oppure rozzo, violento o animalesco. In sé l’atto d’amore ha sempre la purezza della natura; il degrado di anime sopraffatte dalla brama non ne cambia l’intima struttura.
Chi sa accogliere nella propria esperienza, con la stessa determinazione con la quale realizza la percezione dei sensi, l’identità assoluta tra Pensiero e Amore, ri-nasce di là da ogni limite spazio-temporale, di là da ogni forza contingente, oltre l’imposizione delle necessità fisico-sensibili. Annienta i limiti entro i quali aveva conseguito e maturato la possibilità del “passaggio”.
Poi che egli ha deciso “di realizzare l’Uomo di cui per ora ha soltanto la forma fisica”. Sa che la vita gli è stata affidata per questo, e che qualsiasi altro traguardo, progetto, sogno o ideale attuabile sulla terra, certamente dovranno venir percorsi fino in fondo senza deviazioni e senza cadere nell’inganno di crederli primari, non confondendo i mezzi col fine ultimo.
I miei nonni paterni erano contadini, nati e vissuti nella parte piú meridionale dell’Umbria, quasi ai confini col Lazio. D’estate, ancora ragazzino, passavo le vacanze scolastiche da loro e mi piaceva molto quel vivere alla campagnola, circondato da tenerezza ed affetto spontanei e semplici.
In quelle occasioni, ebbi modo di osservare da vicino lo sbocciare dei fiori, la crescita delle albicocche e delle susine sugli alberi, il maturarsi delle viti, il condurre le caprette al pascolo e “rigovernare “ ogni giorno le gabbie dei polli e dei conigli.
Mi affascinava in particolare poter vedere da vicino lo schiudersi di una covata: il pulcino deve saper rompere il guscio entro il tempo stabilito dalla natura: se non lo fa, ci muore dentro.
Oggi comprendo che pure noi uomini siamo racchiusi in un guscio invisibile, molto piú sofisticato di quello di un uovo. Siamo ancora in fieri. Possiamo, potremmo uscire dall’involucro che ci ha mantenuto a lungo in sé come un secondo grembo materno; ma adesso l’ulteriore passaggio lo dobbiamo affrontare con le nostre sole forze.
E questo è il punto cruciale della svolta evolutiva.
Ci si può perdere nei pensieri, ci si può perdere negli amori, ma chi realizza la sintesi di Amore-Pensiero, trova se stesso.
I miei nonni e zii umbri non avevano idea che la nascita di un pulcino potesse apparire come un evento miracoloso. Per loro era un fatto di natura, all’ordine del giorno. Non avevano motivi per ricamare sulla vita e sulla morte. Accettavano gli aspetti dei due eventi-limite e si comportavano secondo le esigenze formali del tempo e le regole della tradizione locale. In tal senso il loro rispetto era inappuntabile. Tuttavia, quand’anche l’avessero voluto, non avrebbero trovato la forza per contrapporvisi.
Ma per chi ha vissuto chiedendosi sempre i perché di ogni cosa esperita (quindi trovandosi ristretto in spazi fisici e mentali da risolvere volta per volta) è giocoforza abbandonare la possibilità tutta campestre, se non bucolica, di sentirsi adagiato in un cordiale abbraccio della natura e nel duro ma profittevole interagire con la stessa.
Cogliere gli aspetti dell’umana complessità nell’illimitatezza del loro assieme, può sconvolgere quanto basta a perderci nei meandri delle teorie e farci aggrappare ora a un sostegno ideologico, ora a un legame promettente spunti d’amore.
Né l’uno né l’altro dureranno, ma concorrono a riempire la sacca dell’esperienza, anche se questa non finisce di essere colmata mai.
Sull’eventuale capacità dell’anima di ritrovare se stessa nella ricongiunzione tra Pensiero e Amore sono già state dette moltissime cose, alcune anche di notevole levatura, degna del tema.
Ma noi, in questo periodo dell’anno in cui abbiamo appena vissuto la festa della Pasqua, non abbiamo bisogno di una speciale letteratura per capire che il Passaggio determinante della Vita dentro la Morte è il Messaggio che proviene dal Golgotha.
Meditare questo Passaggio significa molte cose: non sta a me indicarle né avrebbe senso farlo, perché le Guide Spirituali che tanto hanno dato alla Scienza dello Spirito, sono costantemente in atto e incessantemente ispirano le anime di quanti non esitano aprirsi alla loro dedizione.
Voglio solo mettere qui in evidenza un elemento (non so quanto importante, ma certamente utile): tutti i giganteschi problemi che gli uomini di quest’ epoca sono chiamati a risolvere (conflitti, migranti, epidemie, climatologia, parità sociale, religiosità, istruzione, giustizia per tutti, difesa dei piú deboli, per nominare alcuni dei principali, oltre a psichismi e fobie annessi e connessi) diventano di colpo privi di ogni senso logico; annientano se stessi di fronte ad un’anima umana in grado di unificare le correnti della testa con quelle del cuore; scopre che, sotto sotto, i problemi, i contrasti, le dissonanze, erano stati originati dalla perversa intenzione di far accartocciare l’uomo su se stesso; di renderlo avvizzito come una foglia secca.
Strapparlo dal percorso che, unico, porta al significato profondo del Grande Passaggio; impedirgli di ricostruire nel cuore e nella mente l’evento del Golgotha; privarlo dei frutti che ne derivano nell’esercizio quotidiano e corretto dell’adempimento evolutivo: è la trappola che l’Inferno ha predisposto con grande cura; non soltanto avvalendosi di prescelti ad hoc, dei ciambellani della politica internazionale, dei tycon dei poteri forti, dei guitti di palcoscenico, ma in primo luogo della collaborazione inavvertita della nuova corrente quaquaistica, oramai di moda, la quale, quantitativamente parlando, comincia a produrre un numero di followeristi, di cui, le Forze operanti contro l’umano, non possono trascurare l’utilissimo impiego.
Davanti a questo strazio, a questo gioco empio e crudele, che gli uomini del tempo perseguono seguendo i pifferi magici della Banalità Trionfante, del Superficialismo Spinto, e dell’Illecito Offerto in Via Promozionale, voglio ripetere in me stesso le parole del Cristo Gesú, proferite dall’alto della Sua croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno!».
Speriamo che la Pasqua dell’anno 2024 abbia segnato davvero il Passaggio per tutti noi; passaggio che per ora potrebbe anche limitarsi nel considerare con miglior avvedutezza e onesto senso di obiettività la situazione in cui ci siamo lasciati immergere.
Sarebbe un buon inizio per non affondare del tutto nel mare dei Quaquà.
Angelo Lombroni