Negli anni Sessanta, Massimo Scaligero aveva fatto dattiloscrivere alcuni suoi Appunti sulla Via dei Rosacroce, e ne donava delle copie. Non essendo in un numero sufficiente di pagine per farne un libretto, sono rimasti finora nella loro veste originale, con le correzioni a mano fatte da Massimo, il quale quindi ha riveduto lo scritto. Crediamo opportuno, a distanza di tanto tempo, far conoscere questo illuminante testo a chi non ha avuto finora occasione di leggerlo. Dopo il primo capitolo del mese scorso, proseguiamo con il secondo.
II
Allorché si “percepisce” come i pensieri abbiano forza propria, per mezzo della quale essi pensano se stessi in noi, si verifica un accordo del sentimento e della volontà (il pensiero si isola da essi, essi lasciano libero il pensare e ne vengono alleviati). Il sentire, si potrebbe dire, diviene sempre piú attivo e la volontà si lascia temperare di piú dal sentimento. Sentimento e volontà cominciano ad essere in armonia piú di quello che prima non fossero sul piano fisico. Allora non si può piú concepire un impulso volitivo senza sviluppare con esso un sentimento. Molto di quello che facciamo desta amarezza o sollievo: come se un giudice dall’interno giudicasse.
Occorre coltivare un senso che permetta di riconoscere la differenza fra il sentire egoistico, che tende verso il godimento, e il sentire non egoistico, rivelantesi come un dovere interiore spirituale (che è il sentire rivolto all’altro, al mondo, che sente per ciò che è, non per ciò che interessa personalmente).
Sempre piú si realizza che sentimento e volontà sorgono da noi stessi, mentre il pensiero si manifesta in noi: si comincia a percepire l’egoità soltanto nel sentimento e nella volontà, mentre i doni della saggezza (dopo la liberazione del pensare e il suo silenzio) dai quali ci si sente pervasi, si sentono come quel che ci unisce al mondo intero. Si comincia poi a sperimentare questa interiore attività di sentimento e di volontà, contessuta di interiore simpatia, o antipatia. Si comincia a dirci: «Se tu compi questa o quell’altra azione, è vergogna, perché tu possiedi una determinata saggezza». Di un’altra azione si potrà sentire: «È bene che tu la compia, perché sei aperto a questa determinata saggezza». Nel sentire comincia naturalmente a sorgere un controllo di sé. Un sentimento di amarezza ci assale quando si sente sorgere in noi una volontà che ci spinge verso qualche azione non giustificabile di fronte alla saggezza di cui ora siamo partecipi in quanto abbiamo potuto aprire un varco ad essa nell’anima. Analogo processo si verifica per il pensiero. Di fronte ad un pensiero di cui si può sapere di averlo formato secondo l’impersonale saggezza, si sviluppa un senso di gratitudine per la fonte da cui scaturisce. L’inverso è che ci si rimprovera e ci si vergogna per un pensiero che contraddica tale saggezza.
Questo controllo in realtà non è un fatto razionale, non proviene da critica intellettuale, ma sorge come moto immediato del sentire in quanto il sentire sia sempre meglio educato. Colui che è soltanto intelligente o logico, colui che critica, non può arrivare a questa possibilità, che sorge nel sentimento. Si percepisce il proprio Sé collegato con questo sentire. In taluni momenti, è come se si sentisse la saggezza (dopo il superamento del pensare e l’armonizzarsi del sentire con il volere) venirci incontro dall’alto, scorrerci dentro davanti nella testa e poi riempirci dall’alto fino al basso. D’altra parte si sente come nel nostro corpo scorra incontro ad essa un senso di “vergogna”: ci si identifica con questo sentimento e ci si volge a ciò che vi è di saggezza come a qualcosa che vien data da fuori di noi.
Occorre pertanto non dimenticare come questa piú alta o profonda vita del sentire sia preparata da una interiore e ritmica vita del pensiero. Nel sentire il pensare ritrova i germi della sua forza.
Il dolore di dover biasimare può presentarsi come un segno di evoluzione esoterica. Quanto piú si sente piacere nel dover biasimare e nel trovare che il mondo è ridicolo, tanto meno si è maturi. Occorre suscitare gradualmente un sentimento che sviluppi in noi sempre piú una vita che ci permetta di contemplare sciocchezze ed errori non con occhio canzonatorio, ma con un occhio bagnato di lacrime (un altro però asciutto).
Essenziale è l’immagine dell’Io spirituale che contraddice la sua natura (in realtà, la sua natura-Logos viene contraddetta) nel divenire io umano, che aderisce alla natura e la sperimenta “finita”. Come se a un albero poderoso che va crescendo in splendore e nutrisce in sé rigogliosi animali (ricordare gli animali sacri e lo Zodiaco), che soltanto da questo albero possono aver nutrimento, venisse praticato in un determinato punto un foro, cosí che da questo punto in poi si dissecchi, si raggrinzisca e con lui muoiano quegli esseri che da lui hanno nutrimento; cosí appare il corpo fisico umano all’occhio spirituale.
E l’uomo sa che da quando l’albero era vivo e gli animali anche (era il Paradiso), Lucifero spinse l’uomo (l’Io) entro la vita del suo corpo originario, che perciò appassí. Spinto entro la struttura di luce del suo originario essere arboreo-animale (eterico astrale), l’Io perdette il proprio àmbito, uscí dal regno della forma originaria, ottenendo fuori della forma delle aperture, che sono i sensi fisici. Cosí dal piccolo spazio del corpo raggrinzito, l’uomo cominciò a percepire soltanto ciò che è fuori, e questa estroversione verso il mondo sensibile diviene la misura del suo rivolgersi alla propria interiorità. L’interno, un tempo, era il vero spazio: era l’Eden. L’uomo ne è stato cacciato: è stato espulso dalla sua interiorità, è stato espulso dalla vastità e dalla beatitudine.
Allorché il discepolo gradualmente riesce a rendere libero il suo corpo animico, a renderlo indipendente dal fisico e dall’eterico, è bene che si armi soprattutto contro le influenze degli altri corpi astrali. Quando l’astrale comincia a liberarsi, non essendo piú difeso dall’involucro eterico-fisico, diviene attaccabile da tutto ciò che a quel livello può ricondurlo alla sua sede inferiore: altre forze astrali possono sopraffarlo. (La inconsapevolezza di ciò è quella che paralizza Parsifal al primo suo incontro con il Graal: il suo astrale è libero, ma senza difesa, rispetto alle altre forze astrali. Gli manca la forza tutelatrice dell’anima cosciente: la compassione).
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Hanno diritto di agire nel super-mondo soltanto quelle individualità che rinunziano ad esercitare sugli altri qualsiasi influenza personale, e perciò recano agli altri la benefica vita dello Spirito. L’ideale del Rosacroce è non voler arrivare a nulla a cui abbia interesse la sua personalità contingente; egli elimina tutte le decisioni e le azioni che dipendano dalla sua simpatia o dalla sua antipatia. Ciò che per un Rosacroce vi è di piú indifferente è in verità il proprio insegnamento. Tale insegnamento ha importanza proprio in quanto egli non vi attacca alcun interesse personale, ma tiene ad esso solo in quanto possa essere di aiuto ad altre anime. Nessun Rosacroce vorrà mai imporre ad alcuno il proprio insegnamento: neppure alla propria epoca, se egli sa che esso non può giovare a tale epoca (Rudolf Steiner, in sostanza ha dato ciò che rispondeva alle esigenze dell’epoca e inoltre ciò che determinati gruppi o determinati discepoli erano in grado di chiedergli).
Per la superiore educazione dell’astrale, il discepolo non si lascia attrarre da ciò che tende ad attaccarsi a lui: per amore non vincola a sé alcuno: il suo amore agisce in forma interiore e reale verso gli altri. Instaura cosí una libertà ignota (Cristo) che opera come autentico amore. Nella sua educazione l’astrale trova la propria giustificazione soltanto quando i suoi interessi egoici non hanno natura personale – quella che finisce con l’incalzare con moltiplicata forza – quando egli è capace di abbracciare, come fossero propri, gli interessi generali della umanità e del mondo.
A questo punto come un contrappeso all’egoismo del corpo astrale, quanto piú le forze egoistiche si agitano nell’astrale divenuto libero, tanto piú si sente sorgere un senso di solitudine, di glaciale isolamento. Si sperimenta anche in un piano inferiore ciò. Questo isolamento glaciale ha il còmpito di guarire della tentazione di lasciar prendere il sopravvento all’egoismo; e si sarà veramente preparati se, a questo punto, si potrà sentire contemporaneamente tanto l’impulso ad essere tutto per mezzo di sé e per sé, quanto l’avvicinarsi del glaciale isolamento. Questo diviene uno stimolo ad accendersi della presenza del Cristo. L’Io si riempie del suo eterno essere.
L’impulso della “guerra di ciascuno contro tutti” ancora non si desta nell’anima, perché il corpo fisico e l’eterico sono stati preparati in modo che questo desiderio è attutito, non lo si vede, in quanto non si può vedere il proprio corpo astrale. Qui un simile impulso già vi è in germe: il discepolo lo sperimenta come gelo ed orrore, che chiede essere risolto in pura conoscenza ed amore. Gli istinti distruttivi smorzati si traducono in conoscenza.
Un’anima umana durante la sua evoluzione, se non sviluppa una saggia coscienza di sé, può essere capace di ciò che è l’opposto delle piú alte qualità di abnegazione. L’ispirazione di Caino, prima della seconda perdita dell’Eden, risuona dall’alto pressappoco in questi termini: «Per esserti tu unito con le potenze benefiche dell’altra entità (Abele), tu ti riverserai con queste verso il basso. Io farò di te il custode dell’altro essere». La risposta della parte dell’essere che rappresenta Caino è invariabilmente: «Non voglio».
Eccone il senso. Si supponga che il discepolo sia passato dinanzi al Guardiano, e abbia celebrato la sua unione con la immaginazione del Paradiso. Egli sperimenterà se stesso in un corpo astrale che si apre verso l’alto, che vuol fluire verso l’alto, e vedrà l’altro come un “Io” il cui corpo astrale invece spiega le sue forze verso il basso. Sorge allora questa coscienza: «Tu vali meno di questo altro essere: ciò che vale in lui è la sua possibilità di aprire il suo astrale verso il basso: cosí si può riversare in giú le sue forze dall’alto». Si ha a questo punto l’impressione di aver abbandonato il mondo fisico.
Le forze che dal corpo astrale dell’altro essere scorrono verso il basso, fluiscono nel mondo fisico e vi agiscono come forze benefiche: si ha l’impressione che esso faccia scendere come una pioggia benefica spirituale ciò che gli viene dalla sua natura spirituale. Mentre noi stessi non possiamo dirigere il nostro astrale verso il basso, l’essere astrale dell’altro vuole in effetto andare verso il basso. Si sente che il nostro valore è minore, perché non sappiamo dirigere l’astrale verso il basso. Allora si giunge alla decisione spirituale di portare il nostro isolamento verso questo secondo Essere, di unirci a Lui, cosí che il nostro gelo si scaldi al calore di Lui. Si ha allora per un momento l’impressione che la coscienza stia per spegnersi: ci sembra di aver compiuto una specie di uccisione o combustione del nostro essere interiore.
Nell’auto-coscienza, che già si sentiva come spenta, irrompe allora qualcosa che ora soltanto si impara a conoscere: la forza dell’Ispirazione. È la conversazione tipica con un essere che si impara solo ora a conoscere, perché esso ci dà la sua ispirazione. Pressappoco egli dice: «Poiché tu hai trovato la via verso l’altro e ti sei unito alla sua pioggia di sacrificio, ti è permesso ritornare alla Terra con lui, in lui, e io nomino te a suo custode sulla Terra». Abbael è l’essere angelico dell’anima contrapposto all’amore della coppia originaria nella fase prevaricante dell’Adameva: è il mistero dell’anima.
Il poterci unire a Lui quando siamo arrivati giú, e poter essere il suo custode, ci fa comprendere il rapporto in cui, come veste dell’uomo terrestre, il corpo eterico-fisico sta con ciò che lo pervade quale forza superiore dell’Io e dell’astrale. Nasce nel corpo fisico come una realtà, una specie di forza che lo rende capace, in certo modo, di separarsi dall’essere animico: tuttavia, resta unito, non cede, perché nell’epoca attuale l’esercizio occulto non deve andare tanto oltre da danneggiare il corpo: v’è in effetto una forza della formazione occulta, che conduce sino alla possibilità che l’eterico e il fisico coltivino forze interiori distruttive. L’incontro con il Guardiano non è verificabile senza la possibilità di avvertire il pericolo di inoculare forze distruttive nell’eterico-fisico. Il rimedio è coltivare devozione, amore per gli altri, interesse per il mondo. Inoltre praticare i noti cinque esercizi.
Dallo sperimentare interiore soltanto si comprende il rapporto degli involucri esteriori con l’essere spirituale dell’uomo, quando si sente l’entità esteriore come custode di quella interiore.
Si protende lo sguardo di là dal Guardiano fin giú nel mondo fisico. L’uomo guarda giú nel mondo fisico e vede l’immagine di se stesso come uomo. Egli osserva in sé il corpo astrale, ma questo, che si palesa ora come una immagine riflessa, è diretto verso il basso, non vuole sviluppare le forze per affluire al mondo spirituale: rimane aderente al fisico, non si eleva. Il discepolo vede anche l’immagine riflessa dell’altro essere, il cui corpo astrale fluisce verso l’alto: ha il senso che questo scorra entro il mondo spirituale. Si dice: «Tu stai di nuovo laggiú; al posto dell’altro essere sta un uomo davvero differente laggiú: è un uomo migliore di te, il suo astrale tende verso l’alto, sale come il fumo: il tuo corpo astrale tende in basso verso la Terra».
L’uomo acquisisce un senso dell’Io che vive in lui, mentre guarda quaggiú e riceve la terribile impressione: «In te spunta una tremenda risoluzione: uccidere l’altro che senti migliore di te». L’uomo sa che questa decisione non proviene completamente dall’Io, perché esso è lassú. È un altro essere che parla quaggiú in lui, ma questo istiga alla risoluzione di uccidere l’altro. Egli sente di nuovo la voce, che prima ha dato l’ispirazione, ma ora come una tremenda voce: «Dov’è tuo fratello?» e da questo Io si sprigiona la voce opposta a quella di prima. Prima l’ispirazione era: «Per esserti unito con le potenze benefiche dell’altro, tu ti riverserai con queste all’ingiú e farò di te il custode dell’Altro». Ora da questo essere che l’uomo riconosce come se stesso si sprigionano queste parole: «Non voglio essere il custode di mio fratello». Da prima la decisione di uccidere l’altro, poi la protesta contro la voce che era ispiratrice. «Dal momento che hai voluto unire il tuo gelo a quel calore, ti nomino custode dell’Altro». «Non voglio essere il custode!», è la protesta.
Quando si è avuta questa esperienza immaginativa, si sa che, invertite, le qualità piú nobili del mondo spirituale possono divenire le piú malefiche nel mondo fisico. Il discepolo deve essere preparato a un simile pericolo: che istinti molto bassi si manifestino in lui come segno della sua spiritualità che chiede di essere svincolata dall’essere sensibile. Nel fondo dell’anima, per l’inversione della piú nobile volontà di sacrificio, può nascere il desiderio di uccidere il proprio fratello. Si sperimenta gradatamente come questo uomo terrestre, cosí come è situato sulla Terra, sia il rovescio di ciò che era in origine. La conoscenza antica si è dovuta smorzare, cosí come gli istinti e le forze inferiori, perché l’orrore originario in cui domina Ahrimane diminuisse e venisse indebolita la sua forza. L’insieme di queste forze si è dovuto attutire perché esse dominassero sull’uomo soltanto in modo che con i suoi concetti e le sue idee egli potesse trasferirsi negli altri esseri. Quando si cerca di far penetrare un concetto in un altro essere, quando si cerca di immergere una rappresentazione nell’essere di un’altra persona, tale rappresentazione è l’arma – ora spuntata – con cui Caino trafisse Abele. E che questa arma sia stata smussata rese possibile che ciò che ad un tratto è stato cambiato nel proprio contrapposto, si trasformasse in evoluzione. Cosí l’uomo in lenta evoluzione, lungo un processo crescente di conoscenza, può evolvere ciò che egli non ha potuto esplicare nel mondo fisico perché in questo è divenuto istinto di distruzione, e lo evolve a poco a poco, prima nella conoscenza “oggettiva” – che è l’attuale – poi nella conoscenza “immaginativa”, che già penetra nell’essere dell’altro, nella conoscenza “ispirativa” che penetra ancor piú profondamente, nella “intuitiva” che penetra sino alla identità con l’altro (in cui la cainità è estinta).
Si comprende cosí gradualmente cos’è effettivamente l’Io. Il corpo astrale, considerato nella sua natura piú intima, è il grande Egoista: l’Io è piú che il grande egoista, esso non vuole soltanto sé, ma sé anche nell’altro, vuole anche passare dentro all’altro. La conoscenza, come viene conseguita sulla Terra, è questa brama smorzata di penetrare nell’altro (man mano che si spiritualizza perde il carattere cainico) (e, per converso, la “decainizzazione” della conoscenza significa la sua ascesa). Si tratta di un’ascesa dell’egoismo oltre se stesso.
Dal momento in cui, procedendo nell’esperienza interiore, l’Io continua ad avere per noi maggior valore che gli altri, nasce l’errore: è posto il germe della magia nera, quando non si accompagni lo sviluppo interiore con l’apprezzare gli interessi degli altri piú dei propri.
L’uomo non esperimenta veramente il suo corpo astrale: ciò che egli esperimenta è l’astrale, quale viene riflesso dall’eterico. E l’Io non è il vero Io, ma ciò che di esso si riflette nel fisico. Perciò se egli sviluppa l’astrale e l’Io prima di aver conseguito un’attività interiore – pensiero libero dai sensi – indipendente dall’eterico-fisico, si sviluppano in lui istinti distruttivi: può diventare duro, può nascere in lui l’istinto a nuocere, a ignorare gli altri.
La forza dell’egoismo deve essere estesa agli altri, ossia agli interessi generali del mondo. L’ideale deve essere quello di poterci immergere nell’altro, proponendoci di non cercare in lui noi stessi con i nostri interessi, bensí di trovare che l’altro Essere è piú importante di quello che noi stessi siamo. Esso è il vero Io, cercato oltre l’Io riflesso; tale la chiave della via R+C. Il nostro vero Io è quello dell’altro.
Deve avvenire che i nostri propri affetti, i nostri istinti, desideri, velleità, passioni, non possano piú scaldarci o darci motivo di vita, ma che, familiarizzandoci con il corpo astrale, ci si familiarizzi con il gelido isolamento e con questo stimolo ci si apra a un calore piú vero, cioè all’interesse caldo che scorre dagli altri e che vuol riunirsi alle forze benefiche che emanano dall’altro Essere. Non si può salire in alto se non si vuol guardare in basso questo duale quadro di Caino e Abele (se stessi e il rappresentante dell’Io superiore), ma anche l’intermediario fra sé e le Gerarchie. Ciò che si può chiamare l’errore di Lucifero consiste soltanto nel fatto che qualcosa che era adatto per l’uomo sulla Luna, e cioè il compenetrarsi di egoità, è stato da lui inserito sulla Terra. Sul piano terrestre, o sensibile, l’ego è il responsabile dell’egoismo.
La forza dell’ego deve essere realizzata fuori del sensibile, perché operi positivamente. Nel sensibile l’ego opera sempre distruttivamente. Perciò il discepolo segue la via del “pensiero libero dai sensi”.
I desideri (non quelli che provengono dalla vita interiore, che sono luciferici), ciò che attira dal di fuori, ciò che attira verso esseri e cose, di guisa che per interesse personale si segue tale attrazione, tutto ciò dunque che seduce dall’esteriore al godimento, gli uomini imparano a conoscerlo come impressione di Arimane. Si impara altresí a riconoscere come impressione arimanica tutto ciò che incute paura dal di fuori. Due poli corrispettivi sono godimento e paura.
Ciò che i materialisti negano, ossia la presenza immanente dello spirito dovunque essi vedono materia, produce la paura: e quando i materialisti sentono che la paura si avvicina dai substrati della loro anima, dall’astrale, allora essi si stordiscono, escogitano nuove teorie materialistiche.
Solo quando si giunge a vedere o a concepire Arimane, ci si può difendere da esso: allora si vede che egli ci sta spiando dalle seduzioni del piacere, dalle impressioni della paura. Ovunque l’uomo sogna vi sia materia, epperò forma esteriore, in realtà fa sorgere Arimane. E il piú grande inganno è la teoria materialistica della fisica, cioè degli atomi materiali, perché questi in realtà non sono che le forze di Arimane. La paura andrà sempre piú assediando l’uomo, o il gelido egoismo o il degradante piacere, finché egli non riconosca se stesso come un Io indipendente e nella indipendenza di tutti gli altri Io. Con la comparsa del Cristo in corpo fisico è stato provveduto perché l’uomo potesse fortificarsi, accogliendo l’impulso Cristo, contro la necessaria influenza esercitata da Arimane.
Nella purificazione di Caino e nel suo ricongiungersi per amore con Abele, v’è il segreto della calma e della sicurezza, del sicuro riposo: nell’essere umano l’astrale inferiore deve poter effondersi tranquillo nella sede peculiare della volontà fluente verso il mondo esteriore.
L’io dell’uomo, quanto piú evolve, tanto piú tende ad effondersi. Qualsiasi entità si intenda conoscere richiede che in essa si immerga la nostra coscienza dell’Io. Questo è l’impulso sano dell’Io a ‘uscire’ e a diffondersi, a trasferirsi nell’altro, e a far vivere oltre, in quell’essere, ciò che prima ha vissuto soltanto in sé (nel sé). Questa tendenza ad allontanare da sé la propria coscienza (riflessa, che dà lo stato di veglia), si palesa in un gradino piú basso nel sonno. In effetto l’astrale e l’Io offrono all’Iniziato l’immagine di un sole circondato dai suoi pianeti che si moltiplica e si diffonde verso altre entità. L’uomo per mezzo di ciò che dalle riproduzioni del suo Io gli viene riflesso di queste altre entità riconosce la loro natura.
Nella loro forma esteriore, gli animali, come esseri singoli, le piante meno di essi e ancor meno i minerali, sono immaginazioni di Arimane.
Venendo coscientemente dominate e smorzate le impressioni esteriori dei sensi, viene a trasformarsi quell’anima cosciente che appunto si forma per mezzo di esse. L’anima cosciente viene purificata, affinata, tratta verso il suo interno: può invertire il suo movimento: si trasforma in coscienza immaginativa: che è la sua vera formazione. Tale formazione è contraddetta dall’accentuazione del senso dell’io contingente nella civiltà moderna, persino nel campo del pensiero, in cui di solito si tiene ad avere il proprio pensiero, il proprio punto di vista: mentre i pensieri non ci appartengono e l’anima cosciente appartiene a quell’Io che tende ad effondersi nell’Infinito e che ovunque si riconosce nell’altro.
Chi coltiva i cinque esercizi e le precedenti immaginazioni coopera con le Gerarchie. E chi sappia abbracciare questa idea in tutta la sua grandezza, con dedizione, sente che presso ad ogni pericolo, lotta, terrore, egli è collegato con la trasformazione del Cosmo e muove incontro alla beatitudine del mondo spirituale. L’Iniziato è forte del pensiero che rimuove ogni terrore, del pensiero che è entusiasmo e coraggio: il pensiero della cooperazione con gli Dei. E pensare ciò è già tale cooperazione.
Massimo Scaligero (2. continua)