Patire è un po' guarire

Considerazioni

 

 

Nei mesi estivi di quest’anno, sono stato ricoverato in ospedale per due interventi praticamente consecutivi di protesi alle anche. Si sono svolti bene e non mi hanno dato problemi se non quelli strettamente attinenti al fatto chirurgico e alla successiva riabilitazione.

 

Una degenza piuttosto lunga, al di là delle prove e degli esami di quotidiana routine, una volta accolti i ritmi e i piccoli immancabili inconvenienti cui ci si deve giocoforza adattare, è il posto migliore per riflettere su tante cose: quelle che, nella situazione ordinaria, non si ha mai tempo per riflettere a proprio agio.

 

Quanto segue è per l’appunto una raccolta di queste elucubrazioni: mi scuso fin d’ora se il testo sortito potrà apparire sconnesso e privo di una precisa linea argomentativa. Ma nel rileggerlo mi accorgo d’aver esposto in modo esauriente quanto avevo da dire; il che mi garantisce un piccola impunità assieme all’in­coraggiamento per richiederla.

 

Riflessione di tipo A:

 

Mediante il pensiero di cui siamo genericamente dotati, ritengo non solo possibile concepire l’idea d’un essere eterno, onnipotente, saggio e amorevole, che abbia creato il cielo, la terra, il cosmo e la vita nell’uni­verso, ma trovo in questo pensiero anche una particolare determinazione logica, in piena coerenza con le esigenze piú profonde dell’interiorità umana. Le percezioni che ci provengono da fuori e dentro di noi, e le domande che conseguentemente ci formuliamo, non hanno mai trovato una valida risposta alternativa.

 

Riflessione di tipo B:

 

Avvalendomi della facoltà pensante e impiegando le risorse psico-fisiche di cui ognuno è dotato, sostengo impossibile concepire come vera l’esistenza d’un creatore universale, infinitamente saggio e infinitamente buono. Volerlo fare, per poi crederci e formarne un culto, è soltanto un’esigenza della comodità umana; un opportunismo del tutto superfluo; si manifesta in quanti non siano in grado di darsi una spiegazione plau­sibile, e non si preoccupino di cercarla.

 

 Citazione (di Gustav Meyrink):

 

«Il principio: l’uomo cerca sempre “un principio”. E non s’accorge che alla scoperta di questo, si oppone il convincimento che esso debba venir eternamente cercato».

 

La faccia verde

 

Le affermazioni A e B riguardano due parti distinte e ben divise del­l’umanità; la terza è tratta dal libro di Meyrink La Faccia Verde, e sug­gerisce un’acuta motivazione del come e perché una simile divergenza possa essersi formata e permanga radicata nel tempo.

 

Il convincimento che dallo Spirito Universale provenga all’umano una investitura perenne di amore incredibilmente piú grande d’ogni altra for­ma d’amore fin qui sperimentabile, è uno scoglio molto duro, difficile da superare. L’umano esistere infatti, in prima battuta, non offre molti spunti a favore di una simile supposizione, anzi apparentemente l’avversa.

 

Si tende quindi ad affermare soltanto ciò che, in quanto creato, ha una sua concretezza fisica, e si lascia nell’ombra il fatto che ogni cosa creata testimonia l’ipotesi di un Creatore.

 

Siamo indotti a concludere che l’ipotesi in merito al Divino sia da scar­tare, trattandosi di pura illusione, di suggestione o di fatua speranza; altrimenti, con un’audacia che rasenta l’autolesionismo, si può pensare che allo stato attuale della nostra evoluzione, la capacità percettiva di cogliere lo spirituale nel mondo e nella vita ci è preclusa, per la scomparsa di quella attitudine umana che un tempo fu in grado di svelarcelo.

 

Montagna

 

Non che sia un pensiero sbagliato; ma non risponde al perché. Una cosa è però dire: «Non posso salire concretamente su una montagna immaginaria»; un’altra è dire «Non ho le forze per scalare questa montagna che mi sta davanti».

 

Di conseguenza, per chi non sperimenti o non voglia spe­rimentare appieno una determinata cosa (oggetto o concezio­ne che sia) è normale che la tal cosa venga etichettata come inesistente. Raramente si ammette che il criterio in base al quale voler (o non voler) agire, sorge solo su convincimento della nostra soggettività.

 

Si dà perfino il caso che, nella riflessione di tipo B, esi­stano maggiori possibilità di giungere ad una verità – astratta­mente acquisibile – per soprannaturale, che non nella rifles­sione di tipo A, ove il desiderio di amare, e poter essere ri­amati nel modo piú completo, intenso e duraturo, funge da sottile bramosia, che ci porta a confondere ciò che è con ciò che non è.

 

Il problema dell’umano è invero concentrato qui: convincersi (parlo di un livello di convinzione che lo consenta, dal momento che non tutto ciò che estraiamo dal nostro sé possiede radici solide e fondate) circa l’esistenza – reale e verace – di un’entità superiore, la quale ci ama, ci protegge, vuole ed opera esclusiva­mente per il nostro bene.

 

Quale è ora il passo successivo secondo il buon senso? Intendere prima d’ogni altra cosa il valore della parola “convinzione”. La maggior parte delle persone che ho incontrato, posti di fronte a questo termine, mi hanno fatto capire che, per il loro modo di vedere, la parola convinzione è frutto di una personale elaborazione mistico-sognante; di conseguenza, chi agisce in tale stato potrebbe teoricamente convincersi di tutto, anche degli asini che volano. Ogni convincimento pertanto sembra risultare da una pulsione la cui validità non è oggettivamente verificabile, oppure è un’opinione indotta dall’esterno e accolta come verace, in quanto proveniente da un’autorità riconosciuta.

 

Il secondo ostacolo è dovuto al significato profondo della parola “bene”: cos’è il bene? Tutti crediamo di saperlo: il bene è tutto quello che non è male: tutto ciò che ci piace, che non ci fa penare, che ci è comodo, che procuri allegria, divertimento e magari non implichi particolari responsabilità. Per i bimbi, il bene è venir coccolati dalla mamma; per gli scolari, il bene è esser lodati dal maestro davanti ai compagni di classe; per un giovane, trovare una ragazza che gli corrisponda e appaghi i suoi desideri; per un uomo maturo, conseguire fama, onori e ricchezza (quindi “il potere”, ovvero la supremazia sugli altri); per un anziano, il bene è starsene in buona salute, non avere preoccupazioni, circondarsi di persone simpatiche e amorevoli che lo aiutino, e non chiedersi di continuo “cosa sarà di me”.

 

A questo punto mi pare emerga un particolare importante: fin qui non si è ancora parlato di amore. Perché? Non se ne parla per il motivo che ogni essere umano è in pectore, certo, certissimo, di sapere già, almeno in via teorica, che cosa sia l’amore. Faccio questa affermazione per una ragione che giudico fondamentale per proseguire nella disamina: senza l’amore non ci può essere convinzione che tenga. Parimenti senza l’amore, ogni forma di bene sperimentabile nell’esistenza è talmente fievole e cosí poco significativa, da risultare del tutto inadeguata, se non inutile, al completamento o miglioramento della condizione umana.

 

In chiesa

 

Perciò, alienati in questa omissione, e data la nostra scarsa propensione a comprendere (e ad accogliere) quanto la vita ci offre e ci mette a disposizione, l’esistenza di uno Spirito Universale si riduce ad una semplice supposizione, che passa in seconda linea (se non in terza o quarta). Solitamente ci si ferma su quell’iniziale passo evolutivo, piuttosto miseretto in verità, dal quale è possibile negare ogni forma d’intelligenza non fisica­mente percettibile; oppure limitarsi a credere nell’esistenza di una antica Entità Superiore, la quale, da molto tempo, non intrattiene piú rapporti con la vita dei terrestri e del loro mondo, e alla quale di conseguenza, anche animati della migliore disponibilità, ci si può accostare – alla lontana – mediante riti, preghiere e varie formule cultuali, nella spe­ranza che un briciolo di spiritualità residua, anche infiacchi­ta, funga da collante.

 

Sarebbe pertanto opportuno mettersi ad indagare su ciò in cui potrebbe consistere un eventuale amore del Divino rivol­to all’uomo ed alla sua esistenza terrena, al fine essenziale di arrivare a comprendere appieno il significato delle parole “amore e bene”. Poterle capire al di fuori del senso comune­mente fin qui conferito, che, come si può evincere dalle odier­ne situazioni, singole e collettive, non è stato solamente tra­visato, ma vessato, calpestato e tradito.

 

L’autoinganno descritto da Gustav Meyrink dovrebbe quanto meno funzionare da avvertimento. Ma evidentemen­te il vedere la trappola non impedisce all’incauto esploratore di caderci dentro.

 

L’uomo moderno, nel recente passato (soprattutto per quel periodo che va dall’età dell’infanzia a quello dell’adolescenza) non ha generalmente saputo o potuto conseguire un numero di esperienze positive in fatto di dedizione (semplicità del pensare unita a purezza del sentire) tale da acquisire una certa dimestichezza con quel particolare sentimento; ciò non gioca a favore di una ricerca metafisica né tanto meno ontologica. Ci impedisce pure nella comprensione di concetti quali amore e bene che, posseduti senza la dedizione, riman­gono muti e inerti; il loro significato è scarnito quanto basta per venir adoperati nella dialettica corrente, ove lo Spirito manca.

 

La dedizione è prima di tutto un atto di rinuncia momentanea da parte dell’ego al suo potere; una sotto­missione voluta e riconosciuta verso ciò che ego non è; la quale, sia pure per breve tempo, vien percepita come spinta maggiore, piú forte, piú autorevole di qualsiasi altra determinazione psichica: in realtà, è il moto di una coscienza che, divenuta autocoscienza, si dirige all’Io. Infatti, insegna Scaligero, l’autocoscienza non è altro che l’ego in cui ha tanta forza da eliminare se stesso come espressione della natura.

 

All’inizio del proprio avviamento sulla via dello Spirito, non ci sono ammissioni piú feconde di questa; chi, come me, si è ritrovato ad essere quasi interamente “egoicizzato”, ha trovato nella dedizione un immediato urtante fastidio, un’impercettibile presenza di qualche cosa di diverso, di elevato, qualcosa contro cui sarebbe inutile scontrarsi, ma contro cui si è invece costretti ad andare per una distorsione di sé inavvertita e giustifi­cata come naturale. In casi come questo, l’ego, sapendosi battuto, può cedere terreno e, sul momento, sembrare perfino disponibile a ostentare una cortigiana deferenza nei confronti della forza superiore che gli sta davanti. Il suo atteggiamento tuttavia non è valutabile sul piano etico; l’ego è cosí: un oppositore necessario per eviden­ziare colui a cui si oppone.

 

Nelle tensioni derivanti dall’altalenante scontro-incontro tra ego ed Io, caratteristica di tutto l’umano esi­stere, la coscienza si limita dapprima a registrare le fasi in cui la pressione egoica pare prevalere, e considera le altre (nelle quali appare un inizio di quel sentimento di rispetto, che, coltivato in modo sagace, si svilupperà in dedizione) come fasi di transizione negativa da sopportare in attesa di procedere oltre.

 

Il nascere della dedizione verso qualcuno o qualcosa non necessita subito di una partecipazione cosciente: sorge e si sviluppa spesso all’insaputa del soggetto che ancora non è lo sperimentatore. Del resto nella vastità del­l’anima ci sono tendenze connaturate che per lungo tempo si limitano a crescere inavvertite nel silenzio piú to­tale: si può dire che grazie a tale silenzio, crescono in modo corretto. Se lo fanno, si consolidano in autocoscien­za, la quale non ha piú bisogno di sperimentare la dedizione, perché la sua presenza nasce grazie a quel sentimento.

 

Cosí arriva il giorno in cui finalmente ci si accorge della nuova disponibilità accresciuta in noi; ed è il giorno della sorpresa e della responsabilità; perché una disposizione, anche quando sembra nata dal nulla, ha un indirizzo ben preciso. In fondo è sempre una richiesta che il soggetto dovrà saper gestire e interpretare.

 

Devozione

Devozione

 

È opportuno distinguere la dedizione dalla devozione. Nella Scienza dello Spirito si parla quasi esclusiva­mente di devozione; e in effetto la devozione suona come il termine piú aulico dei due; ma un distinguo si rende qui opportuno: la dedizione può agire da moto preparatorio alla devozione, quest’ultima è evidentemente legata al sacro, al divino, comunque al metafisico, mentre la dedizione rappresenta un evento interiore piú generico, rivolto pure a cose che non richiamano immediatamente la spiritualità. È noto ad esempio che vi possono essere donne e uomini dediti al lavoro, o alla famiglia, o agli studi, oppure propensi verso determinati hobby, o all’esercizio di sport e altre attività che di norma non si annoverano tra quelle principali, tanto meno tra quelle capaci di favorire la crescita in senso evolutivo. Coloro invece per cui vale la devozione, sono spontaneamente portati ad una elevatezza che non subisce piú il fascino del mondo e della sua parvente realtà. Hanno già superato il limite (o sono sul punto di farlo) e si sentono guidati da un principio superiore che agisce in loro. La dedizione sta alla devozione un po’ come la scuola dell’obbligo sta agli studi successivi, anche se per giungere a questi, i tempi della preparazione possono essere accorciati grazie a buona volontà e perseveranza.

 

Abbiamo cosí allineato una serie di concetti ben noti, che per la loro gran­dezza non sono ancora stati conosciuti né esperiti fino al nocciolo della loro es­senza: convinzione, bene, amore, dedizione e devozione: nel normale uso dia­lettico sono flatus vocis, astrazioni prive di un originario moto preciso in quanto  vincolate alla soggettività. 

                             

Se per un momento ritorniamo alla citazione di Meyrink, scopriamo come la medesima funzione pensante che ha condotto ad una verità soprannaturale il popolo dei credenti, diventi un caposaldo inscalfibile per i miscredenti; mistero umano pieno di sofferto realismo. Viene da chiedersi: “Lo stesso pensiero col quale ho architettato teorie e teoremi, mi consente anche la facoltà di demolirli fino al punto di vergognarmi di averli elaborati: com’è possibile che mi venga concessa una simile libertà? Se la contraddizione risulta evidente, allora significa che il pensiero di cui mi avvalgo è infido, instabile; non solo non risponde alle esigenze conoscitive ma mi porta addirittura lontano dalla verità”. Tale domanda è importante, perché segna il momento in cui l’anima entra nel fulcro della sua crisi, dalla quale – in base alle caratteristiche e alla composizione raggiunte – può guarire oppure rimanere ammalata per sempre. Il sintomo deve venir alla luce.

 

Nella palestra, in cui assieme ai miei compagni di degenza ho affrontato i lunghi giorni della riabilitazione, qualcuno ha posto un cartello bello grande, con la scritta: “Poco ti patissi, poco ti guarissi”.

 

Ma se l’anima ha perduto la fiducia nel pensiero, ogni riflessione troverà sempre un’ altra pronta a sostenere l’opposto, e nel patire verrà colto solo il capolinea, mai il ponte. Velocemente o lentamente, a seconda delle forze richiamate dalla crisi, ci si accorge che nella nostra educazione e nella nostra cultura abbiamo dato spazio in modo prevalente a ragionamenti di tipo disgiuntivo, piuttosto che a quelli di tipo unitivo. Cosí come ogni separazione è un male, è intuibile che ogni ricongiunzione è un bene; ma il saperlo non basta; è appena una metà dell’atto conoscitivo: per attuarsi, il ricongiungimento richiede l’applicazione completa del protocollo.

 

La crisi insegna che abbiamo fin qui mosso la forza del pensare seguendo passivamente una contrapposi­zione basale, sulla falsariga di un conflitto privo di inizio e di fine: conflitto tra “ego” e “Io”; presupposto per uno scontro perenne tra il “me stesso “, che credo di essere, e il “resto del mondo” , di cui ho solo il parvente.

 

La crisi scoperchia lacune giganti, nonché l’ignoranza pretestuosa, ingenua ed arrogante ad un tempo che le ha generate; scopre che invece di cominciare pazientemente a colmarle, ce le siamo nascoste, celate agli altri come a noi stessi; le abbiamo allevate, protette, giustificate, forse anche amate, perché ritenute frutti abnormi di una fittile personalità, beatasi nella credenza di convivere con la menzogna e la codardia che a mal pena la ricopre.

 

Il mondo attende dall’uomo un nuovo tipo di coraggio: trovare nel pensiero l’elemento unificatore, l’ele­mento associativo, che lo riunisca a quanto è andato perduto. Come prova irrefutabile, ora campeggiano le conseguenze catastrofiche della incapacità di farlo. Nell’uomo prevale la dissociazione nell’agire, nel sentire e nel pensare, e questo non è il prodotto di tempi moderni o della loro empietà, ma di una deviazione antichissima che, percorsa per millenni su un piano, riconosciutamente spirituale, avrebbe dovuto condurre l’umano all’espe­rienza della libertà: ad essere un uomo libero in un mondo che attraverso la fantasmagorica trappola di suoni, luci e colori, gli avrebbe fatto prima o poi capire quel che necessitava da lui, che è il motivo essenziale della sua comparsa sulla scena.

 

La notte porta consiglio, e le notti ospedaliere portano anche determinazioni pratiche; ho cosí pensato che se il pensiero ha smarrito la sua capacità associativa, nulla mi vietava di recuperarla mediante la volontà del ri­cordo. Per cui mi sono proposto di comporre, quasi per passatempo, un elenco di frasi, congetture, opinioni e citazioni, lette qua e là, senza alcun ordine se non quello di far emergere, attraverso esse, un elemento integra­tivo in comune che ne possa garantire la coerenza e l’attinenza.

 

Per indicare con esattezza tale elemento. il vocabolo corrente sarebbe qui “la connessione”, ma, senza ecce­dere in spiegazioni, è un termine che cerco accuratamente di evitare.

 

Arrampicarsi

 

Pensieri-sintesi che mi sono serviti per scrivere questo articolo e chiodi da roccia su cui ho cercato di arrampicarmi:

– sia fatta la Tua volontà come in cielo cosí in terra;

– per essere nel giusto non basta aver ragione; bisogna che qualcuno si carichi il torto;

– la natura del pensare è la dedizione che è sempre offerta di sé; l’offerta di sé si chiama sacrificio;

– la forza della quantità vale solo nel regno del molteplice;

– la lontananza fino ad un certo punto serve a vedere meglio; oltre, è confusione indistinta;

– …venne nella Sua casa, ma i Suoi non Lo accolsero, ma a coloro che Lo accolsero a coloro che credettero nel Suo nome, Egli dette il potere di riconoscersi come Figli di Dio;

– la devozione è moto di uno Spirito inferiore verso uno superiore;

– la moralità aiuta l’ascesi, il moralismo la ostacola;

– finché si intravedono luci e tenebre, bene e male, amore e odio, e non si va oltre, si è in una fase di ristagno in cui necessita combattere e soffrire; ma si combatte e si soffre per andare oltre;

– per essere vera, la sintesi abbraccia gli opposti;

– il sentire e il volere sorgono dalla stessa fonte da cui sorge il pensare; si manifestano in aree divise, hanno funzioni diverse, ma il loro coordinamento, se accade, è l’armonia interiore;

– la verità è oggettiva e integratrice; la realtà può essere a volte relativa, a volte soggettiva ma sempre scarsa­mente inclusiva;

– il Principio di Indeterminazione di Heisenberg, punto di partenza dell’odierna meccanica quantistica, denuncia il contrasto di due insiemi che, per l’attuale livello della percettibilità umana, risultano inconciliabili tra loro: da una parte i fatti (quel che in realtà è accaduto) e dall’altra le probabilità che essi si verifichino sul piano con­creto; se si studiano i primi, i secondi non esistono; se ci si occupa dei secondi, i primi hanno cessato d’essere;

– in altre parole, l’uomo, sottoposto alle leggi dello spazio e del tempo (1), vorrebbe contemporaneamente sapere ciò che sta oltre lo spazio e il tempo (2), il che è un legittimo desiderio di conoscenza, ma…

– … non si accorge che alla scoperta di (2) si oppone il convincimento di dover perennemente sottostare alla legge di (1).

 

Sia questo  un vero Natale: si accenda come luce di pensiero e riscaldi  i cuori intirizziti come calore animico. 

 

Buone Feste a tutti!

 

 

Angelo Lombroni