Lo stato delle cose tra trascendenza, immanenza ed esistenza

Considerazioni

Lo stato delle cose tra trascendenza, immanenza ed esistenza

Calcolo delle probabilità

 

Le “probabilità” misurano le evenienze in ordine di esito numerale e quantitativo; rivelano il prevalere di una parte maggioritaria e, di conseguenza, una seconda minoritaria; è un semplice aspetto matematico che divide gli accadimenti osservabili in due o piú livelli, a seconda di come si vuol comporre la graduatoria, e permette quindi di far previsioni sui flussi dei medesimi, espressi in percentuali. Si ritiene di grande utilità ai fini statistici.

 

Le “possibilità” sono invece l’elemento cardine delle pro­spettive. Riguardano l’avverarsi di un’idea, di un pro­gramma, di un progetto. Non esprimono in cifre “quante volte” una cosa sarà fattibile; ci dicono se quel che è ancora in embrione si avvererà, se avrà il potere di verificarsi concretamente, oppure no, non viene considerata la realizzazione parziale: un’idea, un’azione, o è possibile in toto o non lo è. L’eventualità di una riuscita parziale non viene rilevata, in quanto incompleta: è un’“altra cosa” rispetto a quella di attuare.

 

A differenza delle probabilità, che per antonomasia, contengono accanto al lato positivo anche quello negativo, sempre espresso per quantità, il mondo del possibile si presenta già da sé come un’affermazione solipsistica, un indirizzo univoco che non patisce smentita; altrimenti il possibile diventerebbe un impossibile e non rientrerebbe nei dati dai quali eravamo partiti.

 

Valendo solo la qualità, non si ammette quindi nell’idea/concetto del possibile anche quello del contrario: sarebbe come dire che, oltre ad una cosa che c’è, potrebbe esistere anche un’altra perfettamente identica che non c’è; non conta la quantità esprimibile in numeri, sempre vigente nel campo delle probabilità, ma si dà atto che qualcosa di virtuale abbia a raggiungere consistenza e durata sensibili.

 

Mi chiedo: “ Ho un abito adatto per andare al matrimonio del mio amico?” e confronto questo dubbio con quest’altra domanda: “Quali vestiti conservare ancora e quali eliminare perché vecchi e fuori moda?”.

 

Nel primo caso mi pongo di fronte ad una possibilità; nel secondo, cerco una classificazione secondo i dettami del particolare. O lavoro mentalmente con l’essenza di un’idea/concetto, oppure ne analizzo i contenuti, ossia le “rappresentazioni” che li sostanziano e li distinguono, creando la pluralità, ma sempre all’interno dell’essenza che li comprende.

 

Cosí, mentre da una parte si cercano i numeri che indicano il flusso degli eventi, e quindi in sostanza si cerca una previsione, nell’altra l’evenienza è assicurata fin dalla premessa; altrimenti non sarebbe una possibilità. Importa solo sapere che c’è, che si verificherà.

 

Esiste infatti una branca della matematica che riguarda il “calcolo delle probabilità” (dalla quale deriva poi la stocastica); mentre non esiste per contro un altrettanto “calcolo delle possibilità”, che, per assurdo, potrebbe ammettere quale unica variante il suo solo contrario; quello del non-possibile, ovvero dell’impossibile; ma sarebbe uno scappar fuori dal tracciato, perché la contraddizione andrebbe a inficiare l’ipotesi che la esclude.

 

Tuttavia c’è qualcosa di piú che viene fuori dall’osservazione dei due campi: e questo riguarda la posizione di chi li sperimenta. Perché lo studio delle probabilità ci vede partecipanti nel senso di esecutori di calcoli; ne siamo i puri e semplici misuratori; non ci vengono richieste altre forme di partecipazione. Mentre studiare le possibilità, vuol dire attivarsi con l’apporto del nostro essere, quasi sempre coinvolto in modo globale, col pensare, sentire e volere, e non soltanto con la funzione mentale piú o meno istruita nella matematica.

 

Con questa premessa, desidero giungere ad una conclusione che considero di rilievo: il processo di con­cretizzazione di una possibilità, ci impegna in prima persona, mentre lo studio delle probabilità richiede, come applicazione, la mera constatazione di uno stato di fatto, nel formarsi del quale, la nostra volontà e il nostro sentire non vengono obbligati in modo particolare a scomodarsi per determinarla.

 

Di conseguenza si può affermare che il concetto di probabilità vale nel campo delle misurazioni teoriche, mentre quello della possibilità vive e funziona solo nel campo dell’azione con finalità pratica.

 

Le probabilità appartengono ad un mondo basato su eventi consolidati; conta il già fatto. La possibilità è invece connessa all’azione concreta ma ancora in fieri; ne è il preludio: per essere quel che deve essere, ha però l’obbligo di rivelarsi nella sua realizzazione. Qui la mente umana non solo osserva, calcola e studia, ma prima ancora, la cerca in quanto motivata da una ragione che la sollecita.

 

C’è da precisare poi che ogni concetto si rapporta ad un proprio campo d’azione, che è un campo specifico: tolto da quest’ultimo e trasportato di peso in un campo diverso, il concetto s’invalida, non funziona piú. È un concetto praticamente morto; per l’insegnamento dell’Antroposofia, un concetto morto ha il nome di “rappre­sentazione”.

 

Porto un esempio che mi sono costruito mentre svolgevo le riflessioni di cui sopra: è un esempio di minima portata, divertente, ma non per questo, meno utile.

 

Sappiamo tutti che nella logica discorsiva esiste il seguente inciso storico: “Se Atene piange, Sparta non ride” (si riferisce alla condizione delle due città alla fine della guerra del Peloponneso: Sparta, nonostante la sconfitta di Atene, ne uscí pesantemente indebolita sia dal punto di vista militare che economico). Nel suo insieme questo è un concetto; enfatico, ma pur sempre un concetto. Ora – per gioco innocente, ma non troppo – cambiamo i nomi delle città; pensiamo di fare come nella moltiplicazione: cambiando l’ordine dei fattori – ci hanno garantito – il prodotto non dovrebbe cambiare. Ma qui non siamo nel campo dell’aritmetica.

 

L’essenza di un numero si esaurisce sempre nel suo contenuto: non potrebbe essere diversamente; ma l’essenza di un nome, pur essendo colta indicativamente tramite questo, è piú vasta del contenuto ivi racchiuso.

 

Creiamo quindi un nuovo inciso: “Se Timbuctú piange, Los Angeles non ride”. La frase come costruzione logico-formale vale quanto l’altra, ma il suo senso non funziona piú; diventa una sciocchezza che nessun oratore introdurrebbe in un discorso; a meno che non intenda evidenziare la caduta di un concetto, quando, tolto dal suo campo d’azione effettivo, dove può dire la sua, viene trasportato in un altro, che gli corrisponde solo nelle modalità espositive, e dove non può piú dir niente di quel che il suo senso originario avrebbe voluto dire.

 

Il che mi rimanda a un’indicazione data, tempo fa, da Eduardo De Filippo a dei giovani registi teatrali che gli andavano a lezione: «Cerca la vita e troverai la forma; cerca la forma e troverai la morte».

 

È veramente fondamentale, anche per quanti non abbiano specifiche velleità registico-teatrali, venir a sapere e anche accorgersi che per inveterata abitudine noi tutti viviamo immersi nelle nostre rappresentazioni; le quali non corrispondono alla realtà oggettiva del mondo. Contribuiscono semmai a frammentare la concezione e quindi visione del mondo, in una miriade di realtà soggettive, nelle quali ciascuno agisce e reagisce col convincimento di essere nel vero e di fare la cosa giusta.

 

Scambiare le rappresentazioni con i concetti e le idee, è come scambiare le probabilità per le possibilità; è un voler esistere senza vivere: lasciar languire l’anima dopo averla staccata dallo Spirito.

 

Uomo in scatola

 

Si apre cosí uno scenario inquietante: la nostra attuale dime­nsione umana potrebbe venir immaginata come iscritta in un cer­chio, appartenente ad una serie di cerchi concentrici piú grandi che lo contengono; in pratica se vogliamo portare l’esempio in 3D, possiamo sostenere che questa nostra dimensione, a cui siamo tutti molto affezionati, si trova rinchiusa in una specie di scatola cinese, nella quale essa è a sua volta contenuta e contenitrice ad un tempo.

 

L’elemento inquietante non sta tanto nel fatto descritto, bensí nel non esserci accorti del formarsi di questa deviazione, di non averla mai colta a livello di vera conoscenza, per cui, man mano che l’anima umana si evolveva, approdavamo ignari e impreparati ad una dimensione che ci richiedeva forze maggiori, e speriamo pure migliori; richiesta accolta però solo in senso figurativo.

 

Il divenire universale, signore di tutti i cambiamenti, operava dall’ignoto, mutando ogni volta la cornice a ciò che doveva mutare, mentre noi ci mantenevamo immobili nei limiti del dipinto.

 

Questa omissione protratta nel tempo crea grossi problemi, dato che ogni conseguimento di traguardo non è mai collettivo; ognuno cresce a modo suo e coi tempi di cui la sua struttura psicofisica abbisogna.

 

Ma il cammino evolutivo non può garantire ad ogni singolo un “passaggio di classe consapevole”, se questo singolo non ha mai coltivato una preparazione, un comportamento e una disponibilità indirizzati a tale meta.

 

Di modo che, in ogni momento, come risultanza , sono presenti al mondo, esseri che hanno potuto sviluppare una coscienza capace di intuire e di accogliere in un certo modo l’approccio a nuove dimensioni conoscitive, altri (la maggioranza, credo) che non le suppongono neppure; e altri ancora (spero, pochi) che si mantengono tenacemente attaccati ad un passato che non esiste piú come fosse una realtà esclusiva e non variabile.

 

Se da una parte sono certo che non siano mai esistiti degli alunni che, pur promossi, abbiano voluto rimanere nella classe superata, sono sicuro, d’altra parte, che ci sono molti adulti, anche anziani, i quali sarebbero disposti a tutto, pur di poter restar “fermi ” nel periodo dei loro anni d’oro.

 

Il che dimostra che senza un’approfondita conoscenza dell’umano evolversi, non esistono nell’arco delle ripetute vite terrene, passaggi di qualità collettivi capaci di preparare e trasformare l’anima per le esistenze future; esistono singoli passaggi di quantità provocati dall’incidenza del tempo e dello spazio sulla corporeità.

 

Il divenire fa parte del processo di natura; il fiorire dell’interiorità è frutto di conquista individuale.

 

Rifiutarsi di lavorare su questo concetto è umanamente ammissibile; lamentarsi della situazione incresciosa in cui ci sembra d’esser stati precipitati, è però la diretta conseguenza di tale rifiuto.

 

Il ragionamento è nitido quanto elementare: eppure sono rari gli uomini che indicherebbero in questo negarsi la causa principale di tutti i mali che diciamo e crediamo voler eliminare dalla faccia della terra e dalle nostre affannate partecipazioni.

 

Per questo, forse avvertendo oscuramente un pericolo, siamo spinti a cercare soluzioni di valenza universale, ma purtroppo le cerchiamo là dove le idee e i concetti sono già decaduti in rappresentazioni, prive di quella forza originaria dello Spirito che, degnamente coltivata dalle anime, potrebbe risorgere e trasformare il mondo: senso unico e fondamentale della reincarnazione.

 

Non desidero riferirmi in particolare all’Intelligenza Artificiale e ad altri espedienti che in tutte le epoche sono stati tentati; le finte soluzioni incombono sempre, peraltro senza assumere mai colpa alcuna; ogni responsabilità essendo fardello karmico di coloro che le pensano e le impiegano.

 

Eppure, se non ci siamo ancora arrivati (forse perché questa notizia esigerebbe prima di ogni altra cosa un esame di coscienza approfondito e doloroso, da farsi in via privata e coltivato in tutta riservatezza) proba­bilmente siamo vicini ad una svolta importante; stiamo per cogliere un nuovo concetto, o forse un’idea, che potrebbe segnare un progresso nella nostra possibile maturazione.

 

Se l’essere umano è il principale protagonista dell’esistere fisico sensibile sulla terra, è anche logico arrivare al punto in cui diventa intuibile come tutto ciò che è accaduto, che sta accadendo e che accadrà, dipenda esclusivamente da lui, dal modo di condurre la sua vita, nelle grandi e nelle piccole questioni che ne derivano.

 

Questa è una possibilità; non è una probabilità. Non ci importa sapere quanti la pensano in un modo e quanti la pensano in un altro, oppure non pensano affatto; importa lavorare per portare a consistenza un numero di coscienze pensanti tale, affinché si determini un numero critico in grado di dissipare la fitta coltre di nebbia provocata dalla soggettività rappresentativa nella quale ci siamo rinchiusi.

 

Dal punto di vista della prevenzione e della salute pubblica, molto ci si dà da fare contro lo smog, l’inqui­namento atmosferico e in genere per la difesa dell’ambiente; non ci passa per la testa neppure per un istante il pensiero che o viene per prima cosa la tutela delle nostre anime, oppure ogni altra forma derivata è solo un palliativo, se non una delle tante soluzioni di facciata.

 

Di fronte a queste considerazioni, un mio caro amico ha cosí commentato:

 

«Quello che dici è pura utopia. Non puoi convincere su un tema cosí delicato un numero sufficiente di persone pronte a sostenere la tua tesi. Ho molti dubbi in proposito».

 

«Va bene – ho risposto all’amico – allora dimmi tu una cosa: è possibile per un uomo in condizioni normali trasformare un pensiero in una percezione?».

 

«Non capisco; cosa vuoi dire?».

 

«Voglio dire che un elemento intimamente soggettivo come il proprio pensiero può diventare un qualcosa di oggettivo, proprio come una qualsivoglia percezione, e in quanto tale riconoscibile da tutti?».

 

«Non so… non credo… penso di no».

 

Parlare e ascoltare

 

«Ebbene ti sbagli di grosso: noi ci parliamo e ci capiamo; oppure non ci capiamo a seconda se il pensiero dell’altro è in linea coi nostri. Ma il mezzo da noi adoperato per scambiarci il pen­siero, è il suono. Quindi la gola, l’ugola, le corde vocali ecc. tra­sformano il tuo pensiero in un suono; e il suono è una percezione dei sensi; poi il mio apparato uditivo lo riceve, lo decodifica, fa­cendolo ritornare parola e quindi pensiero, dentro di me. È un continuo scambio di elaborati, sensori e mentali, svolto in reci­proca alternanza, tra mente e coscienza e tra coscienza e mente dei due interlocutori. Quindi ciò che prima era dato per impercepibile (pensiero), attraverso il tuo lavorío si articola in parole, ossia si trasforma in suoni (percezioni); a mia volta io ricevo tali suoni in quanto percepibili e li trasformo nuovamente in elementi a te impercepibili (i miei pensieri). Sei d’accordo, oppure secondo te le cose funzionano in modo diverso?». Da allora è passato parecchio tempo, ma attendo sempre una risposta.

 

Il gatto di Schroedinger

 

Eppure, lo ribadisco, nel leggere e rileggere l’esperimento di Copenaghen, passato alla storia della scienza moderna come l’esperimento del Gatto di Schroedinger, questo ha – secondo mio modesto parere – una forte attinenza col pro­blema, prevalentemente metafisico, dell’eventuale passaggio dalla visione rappresentativa della realtà a quella concettuale o ideale, ove concetti e idee possano venir colti nel vigore della loro essenza. Non ripeterò qui lo svolgersi dell’espe­rimento; su questo c’è sufficiente materia. E tralascerò anche i corollari che da tale prova si fanno derivare: teoria di mondi contigui, universi paralleli, possibilità di una dimensione capace di accogliere la realtà multipla del medesimo fatto, fluttuazioni quantiche e via dicendo (mi taccio anche perché la mia competenza in materia è da scuola elementare). Cerco piuttosto la semplicità in quel che mi si presenta come immediato e nitido, e ci ragiono sopra: mi appare chiaro che se non si va a verificare lo stato del gatto inscatolato (povera bestiola! Chissà perché Schroedinger ha scelto proprio un gatto!) dobbiamo accettare il fatto che vi sia una “possibilità sospesa” in cui il gatto è tanto vivo quanto morto, allo stesso modo in cui, se ci rechiamo ad una cerimonia, ci è possibile immaginare noi stessi nello svolgersi di questa, in determinati modi, e comportamenti, anche molto diversi tra loro.

 

Famoso a questo proposito è il pensiero del regista-attore Nanni Moretti per la sua celebre preoccupazione relativa ad un invito mondano di un certo livello: «Mi si noterà di piú se ci vado, se mi tengo in disparte, o se non ci vado affatto?». Ci provoca un sorriso vedere qualcuno annaspare e valutarsi nelle varie possibilità di esibizione; l’imbarazzo nasce dal fatto che scegliere significa attuare una sola possibilità, abbandonando tutte le altre; mentre le nostre voglie, diciamo pure brame, pretenderebbero poter giocare a piacimento col ventaglio delle occasioni in fieri senza rinunciare ad alcuna.

 

Ma quel che per la realtà del nostro mondo è un impossibile, non lo è quando penetriamo nella dimensione del mondo che la meccanica quantistica ha da poco tempo cominciato a farci intravedere: ovvero il mondo delle particelle subatomiche. In molti casi, il loro comportamento non segue affatto le regole della nostra cultura, del co­dice civile, dei nostri abituali punti di riferimento, e neppure degli angusti, quanto vanesi, protocolli del bon ton.

 

Non possiamo nemmeno obiettare sul fatto che quello delle particelle possa essere un mondo “alieno”; esso si rapporta saldamente a ciò che la nostra scienza sta osservando come intima struttura della materia, e trova conferma nei continui riferimenti di quel dato microcosmo con quello universale. Il che rende lecita l’attinenza.

 

Collasso della Funzione d’Onda

Collasso della Funzione d’Onda

 

Due sono i punti fermi che hanno fatto sobbalzare la comunità scientifica nella prima metà del ‘900: il Principio di Indeterminazione di Heisenberg e il Collasso della Fun­zione d’Onda di Schroedinger (questo secondo non è un principio, ma un’osservazione di notevole spessore e di rilevanti conseguenze).

 

Heisenberg affermò che nello studio del moto delle particelle è impossibile stabilire contemporaneamente la posizione e la velocità; se si osserva una non si coglie l’altra e viceversa. Alla presenza di un osservatore si evidenzia solo uno dei due risultati. Trovo una interes­sante analogia con quanto detto qui circa le rappresentazioni e i con­cetti: se la tua realtà è a livello di rappresentazioni, la luce dei concetti resta inafferrabile; ma se grazie alla concentrazione e alla meditazione riesci a cogliere l’essenza del concetto, allora tutte le rappresentazioni di cui ti eri avvalso per salire di livello non servono piú; possono sparire, perché hanno esaurito il loro compito. Il senso del molteplice vario e indeterminato, del probabile, del rappresentativo, era quello di guidarti all’unità.

 

Il Collasso della Funzione d’Onda riguarda invece un fatto diverso ma estremamente vicino a ciò che il Principio di Heisenberg ha saputo enunciare: finché si osserva il microcosmo di un sistema fisico, nelle nostre teorie possono convivere molte probabilità, anche in contrasto tra loro; nella coscienza dello scienziato si forma la convinzione che tutto il fattibile sia sempre compresente in un unicum adimensionale. Ma – attenzione – la possibilità che una probabilità s’inveri (entri cioè nel mondo dello spazio e del tempo) annienta di colpo ogni altra.

 

Come accade per il concetto quando decade in rappresentazione; come succede al possibile quando perde la sua entità di possibile per farsi probabile.

 

In entrambi i casi la scienza basata sulla quantità e sulla misurazione penetra fino ad un certo punto anche là dove peso e misura non sono mai stati necessari, ma deve sottostare al fatto che quel mondo virtuale, eterno e infinito, esige una marcia in piú prima spalancare le sue porte all’umano conoscere. Il Collasso della Funzione d’Onda si verifica per l’appunto quando un ente, da un livello superiore, va ad inverarsi su uno inferiore; sacrifica se stesso, perde la proprietà, o la virtú della compresenza, per diventare realtà che si consolida in un unico fatto. Per cui la concezione teoricamente abbozzata dei cerchi concentrici, o scatole cinesi, non è allo stato attuale scartabile, e, conseguentemente, pure le riflessioni sui passaggi di qualità nello sviluppo delle coscienze umane e sulla difficoltà sorta dal loro formarsi in spazi e tempi diversi, devono venir presi in considerazione, perché capaci di dare indicazioni sul presente corso evolutivo dell’uomo, nonché sul suo immediato futuro; soprattutto di metterci in guardia circa le nostre eventuali devianze da una corretta prosecuzione del medesimo.

 

L’esperimento di Shroedinger del 1935 mi sembra utile per scoprire l’esistenza di un’anomalia oggi in corso riguardante il processo di maturazione psicofisica dell’uomo; noi, come già stato evidenziato all’inizio di questo scritto, viviamo immersi nelle nostre rappresentazioni, cioè nel cimitero dei concetti, senza rendercene partico­larmente conto. D’altro canto, gli studiosi del macro e del microcosmo ci mostrano come le particelle siano capaci di eseguire salti nelle loro traiettorie, cioè cambiamenti improvvisi delle orbite, e che nell’esecuzione dei medesimi alcune proseguono il loro corso, che adesso si svolge su un piano del tutto nuovo rispetto al prece­dente, altre invece, non resistendo alla variante, scompaiono o si annientano (oppure non sanno dove siano andate a finire, ma non è una cosa bella da ammettersi, N.d.A.). Non tutte quindi riescono a sopravvivere con le loro proprietà intatte, al livello in cui si sono spinte: ma quelle che ci riescono, possono causare colà nuove configurazioni e assembramenti prima neppure ipotizzabili.

 

Stelle e galassie

 

Da quel poco che so sull’astrofisica, non posso far a meno di collegare queste riflessioni svolte sulle particelle, con il mondo dei corpi celesti, con la formazione delle galassie e con la vita delle stelle; e trarne la conclusione che le dimensioni del “laggiú” e del “lassú” presentano al nostro debole indagare una serie di analogie comparative meravigliosamente composite, armoniose, contemplabili in una visione che non impegna il puro intelletto, ma, illuminandola, tende ad esaltarne l’interiorità vivificata.

 

A questo punto possibilità e probabilità assumono un significato diver­so; la possibilità ci solleva da terra e come un tappeto magico ci porta verso “ un mondo migliore” piú giusto e piú vero. La probabilità resta invece per quanti, non ancora saliti su quel tappeto, si mettono magari in lista d’attesa per poterlo fare in seguito: ma nel frattempo non s’accontentano di guardare solamente da lontano, esprimendo cosí, non chiaramente consapevoli, il segreto desiderio di accostare un livello superiore di chiarezza. Perciò voler verificare lo stato di salute del gatto di Schroedinger comporta la decisione di compiere un passo avanti, senza se e senza ma. A passo compiuto, si entra nell’ambito di quella luce del possibile che, osservata da uno dei piani multilevel del probabile, aveva dato adito solo a discussioni infinite, estenuanti teorie, spesso strampalate e contraddittorie, a sarabande dialettiche, contrasti cavillosi e conflitti fratricidi.

 

Intuire e immaginare una nuova dimensione; voler sviluppare in essa concetti e idee valide solo per la dimen­sione vecchia; concentrarsi sulle probabilità che dalla superiore escano rivelazioni sbalorditive da potersi usare nell’immediata realtà inferiore; sono le due facce di un unico errore: quello di una coscienza sviluppata sulle probabilità e sulle rappresentazioni, la quale tuttavia pretende di far valere le regole fin qui funzionanti anche là dove invece vigono le leggi del possibile, le quali, una volta attuate, si rivelano luce e vita di concetti e di idee.

 

Il che ci riporta al nostro felino di Copenaghen e all’insegnamento che se ne può trarre: se non fai quel passo e non vai oltre a ciò che è la tua dimensione abituale, ogni speculare di là del limite è inutile e dannoso.

 

Alcuni credono che una visione deformata del reale sia sempre meglio di niente; questo è vero, ma non lo è, quando l’oltrepassare un limite della conoscenza resta ancora un fatto incompiuto nella formazione del pen­siero; un fatto immaginato e supposto non può essere un fatto, quando la rappresentazione è presa per idea/con­cetto: quando ciò che è morto è scambiato per vivente.

 

Ci si potrebbe chiedere se esiste un criterio per ottenere la certezza di essere entrati in contatto con la forza di un’idea vera e propria, e non con la suggestione di un semplice rappresentare: si tratta però di un campo strettamente personale in cui ogni transito, o tentativo di passaggio, assume forme estremamente differenziate da soggetto a soggetto. Un punto in comune tuttavia c’è: l’anima in grado di accogliere la luce e il calore dell’idea prova un senso di benessere che non deriva da stimoli nervosi o pulsioni sentimentali; dimentica di sé, trova le forme operative pratiche, per crescerla e svilupparla nel circostante terreno dell’umano esistere. Tutto ciò che vive nella dimensione dello Spirito fornisce all’uomo un senso di beatitudine e di sicurezza che, normalmente, e in modo dispersivo se non ambiguo, cerchiamo nelle indefinibili parvenze del probabile e nei meandri delle rappresentazioni.

 

Linea retta

 

Nell’affermare quel postulato geometrico che dice: “La linea piú breve fra due punti è la linea retta”, se ne ricava un’esperienza di modesto valore: la co­scienza non reagisce, non esulta per l’informazione; non la sente fondamento di un principio importante, da cui far derivare mille altre conoscenze; l’accoglie con un certo distacco e la mette tra quelle che entrano nel bagaglio del sapere ordinario, col titolo: “se dicono cosí, sarà cosí”. Ben diverso è lo stato di coscienza quando al postulato suindicato aggiungiamo: “fra due punti di uno stesso piano”. Qui l’evidenza si completa; ci fa capire che prima mancava qualche cosa; ed era una cosa importante, senza la quale il concetto non veniva raggiunto; rimaneva soltanto la sua ombra, o la sua rappresentazione; una immagine riflessa che, come tutte le rappresentazioni, col tempo tende a sbiadire e finire tra le novità acquisite senza conquista e senza merito.

 

Questo è un tratto caratteristico del nostro attuale modo di apprendere; escludere cioè dall’atto conoscitivo il valore spirituale che lo accompagna. La debolezza del pensare non concede di piú e pertanto quel che fuoriesce dalla testa dell’uomo moderno ha poco a vedere con la sua possibilità evolutiva. Diventa un infido gioco basato sulle probabilità, che lo porta a diventare un accanito scommettitore alla lotteria delle sconfitte. In tal senso, alzando il livello di questa disamina, va colto l’insegnamento di Massimo Scaligero, col quale il Maestro ha voluto iniziare il suo Trattato del Pensiero Vivente: «L’Io, che l’uomo dice di essere, non può essere l’Io, se non nel pensiero vivente». Quando incontrai questo inciso per la prima volta, venni colpito dalla prima parte, di cui afferrai solo il monito, volutamente provocatorio, e non comprendendo la seconda: «se non nel pensiero vivente», rimasi scioccato e, devo dirlo, un po’ contrito.

 

Come potevo accettare, da un pensatore che m’era stato descritto come un’autentica Guida Spirituale, il fatto che io non fossi quell’io che credevo di essere? Dovevo – ora lo so – imparare, e digerire, prima di tutto il processo di attuazione in me dell’atto conoscitivo; distinguere in esso la percezione dalla rappresentazione, e questa poi, dal concetto e dall’idea cui riferisce; capire quindi la posizione della mia coscienza durante l’attraversamento di questi gradini; intuire che mi stavo arrampicando su una scala interminabile, ad ogni piolo della quale corrispondeva un livello di realtà diverso e piú significativo. E che la cosa non avrebbe mai avuto un termine, perché ogni scontato raggiungimento era il trampolino di lancio per un ulteriore moto verso l’alto.

 

Per cui, fortificato da questa esperienza, e osservando quel che ogni giorno sta accadendo nel mondo, concludo riportando alcune riflessioni che ripeto spesso dentro di me, come fossero parti di un’unica preghiera: «La nostra anima avverte in modo confuso ma incessante la necessità di completamento; la volontà a per­seguirlo si disperde in direzioni contrastanti: molti ostacoli si frappongono portandola ad errori di eccesso e di difetto. Scrutare nel mondo delle particelle avvalendosi di strumentazioni particolari, non ci garantirà il vero di ciò che in tal modo sarà riprodotto; e altrettanto vale nello studio della vita del cosmo. Per conoscere bisogna in­dagare, e possiamo indagare soltanto con i mezzi che sono di volta in volta a disposizione; inventarne altri, pur complessi e sofisticati, comporta il medesimo rischio di uno specchio costruito apposta per rispecchiare i riflessi di un altro specchio, senza tener in debito conto che le superfici riflettenti hanno capacità di rifrazione diverse.

 

Ritenendo di avvicinarci al cuore della materia, ce ne stiamo in realtà allontanando; le storielle che si creano sopra mitici mondi di meraviglie, ancora da scoprire, non possono dare piú di un conforto temporaneo; come i videogiochi che adoperiamo per ingannare il nervosismo di una difficile attesa.

 

Verso il bersaglio

 

Non diverrà possibile, ma sarà tuttavia probabile, giungere anche al punto in cui ci si affiderà al tirassegno delle approssimazioni; chi avvicinerà di piú il centro teorico del bersaglio (obiettivo creduto prefissato dal destino) risulterà vincitore; ma quel centro continuerà a sfuggirci, a restare ignoto, perché l’unico modo per coglierlo sarebbe stato quello di incontrarlo col concorso e col sacri­ficio di tutta l’interiorità umana, resasi disponibile e coralmente organizzata. Conoscerlo prima di tutto col pensiero e nel pensiero; non certo col presupporre una sua qualunque presenza in un ipotetico “altrove”, da approdare e piantarvi sopra, con un disinvolto “hop-là”, una delle tante bandierine di questa terra.

 

 

Angelo Lombroni