
L’Abbazia San Pietro a Perugia
Il Giardino dello Spirito è in pratica un Orto Medievale che sorge sul terreno adiacente l’Abbazia benedettina di San Pietro in Perugia che nel suo nucleo originario sorse alla fine del X secolo sull’area di una necropoli etrusco-romana e su un preesistente tempio paleocristiano, che si vuole sia la primitiva cattedrale perugina. Accanto al monastero, ora sede della Facoltà di Agraria, negli anni tra il 1995 e il 1996, per l’interessamento e la passione del professor Alessandro Menghini, docente di materie botaniche in quella Università, fu ripristinato l’antico Hortus Conclusus dell’Abbazia.
Furono adottati i criteri che guidarono i monaci di un tempo, suddividendo l’Orto in Hortus sanitatis, il comparto delle piante medicinali, Hortus holerorum, destinato alla coltivazione delle piante alimentari, l’Aromatarium dove sono collocate le piante aromatiche, e il Pomarium, che raggruppa le specie fruttifere.
Sono state omesse tutte quelle specie medicinali e alimentari introdotte dalle Americhe a partire dal XVI secolo e quindi estranee alla cultura europea medievale (ad esempio la patata, il pomodoro, il granturco, l’echinacea ed altro).

Dipinto medievale di orto conventuale
L’Orto Medievale sorge su un colle che fu il primo possedimento del monastero benedettino di San Pietro, proprio laddove sorgeva l’antica cattedrale: condensa in sé, anche la configurazione di giardino monastico. Essendo annesso ad un’antica abbazia benedettina risalente all’anno 965 e includendo elementi storici ed architettonici come la vecchia via etrusco-romana, la porta urbica del 1200, i chiostri, i resti delle opere murarie dei benedettini, è sicuramente un’area di rispetto storico.
Ecco che l’Orto medievale diviene Giardino dello Spirito e ci accompagna in un viaggio alla scoperta degli elementi sui quali è fondato e che chiaramente palesa. Lo scopo è molteplice: individuare le spinte culturali sulle quali si fondava il concetto medievale di Natura, scoprire i motivi spirituali che animarono l’uomo del Medioevo e il mondo vegetale a lui circostante.
Nel Medioevo la visione del mondo era espressa in chiave fortemente rappresentativa: la realtà del Creato era il mezzo di espressione della Trascendenza. Ecco allora la ricchezza e la complessità dei simboli dove la concezione di macrocosmo e microcosmo trovava nella fede le sue radici.
Da qui il rapporto dell’uomo medievale con l’arte religiosa dove l’artista attinge al mondo animale e vegetale, in miti che appartenevano non solo al cristianesimo ma pure ad altre religioni.
Questa introduzione servirà a farci comprendere come anche l’Hortus Conclusus, presente nei monasteri, esprimesse motivi simbolici e religiosi in modo però artistico, nulla era lasciato al caso.
L’ingresso al Giardino evocava l’ingresso al Paradiso Terrestre, all’Eden: le piante erano appositamente scelte, le figure, volutamente tracciate in forme circolari, ellittiche, quadrate, triangolari, ottagonali, le misure e i numeri tutt’altro che casuali, il tutto con un significato fortemente simbolico; qui vi era ordine e misura.
Il bosco invece rappresentava il sito delle leggende, dell’uomo primitivo, delle ansie e delle paure, ricoprendo il ruolo, di “selva” dantesca.
Per altri aspetti, e sono quelli preponderanti, la foresta ha il ruolo di Bosco Sacro, di sito anacoretico: è l’Eremo della pace spirituale, dove gli alberi si sacralizzano, si legano a credenze, a miracoli.
Il Giardino medievale, e quello monastico in particolare, nacquero da profonde esigenze culturali e religiose tipiche dell’uomo di quell’epoca. Rispose soprattutto ai quesiti esistenziali dell’Uomo e alla sua relazione con la Natura e con Dio. Ecco perché si arricchí di significati, di riferimenti simbolici, di messaggi reconditi che la Divinità aveva voluto mettergli davanti perché li scoprisse e ne facesse uso, mirando al riscatto della condizione paradisiaca perduta. Quindi un vero e proprio “Giardino dello Spirito”, carico di sacralità, plasmato a lode gloria del Creatore; in contrasto con le forze occulte e gli spiriti maligni, che sotto forma di mostri, serpenti e bestie feroci, frapponevano ostacoli perché l’Uomo, spinto dall’aspirazione a riconquistare lo stato originario di purezza, in essa realizzasse l’Idea del Creatore.
Non c’è dunque da stupirsi se il criterio di conduzione degli orti e dei giardini, della campagna e della natura in genere, in quei tempi fosse sacro-animistico. Molte popolazioni pagane passate al Cristianesimo consideravano gli esseri naturali al pari delle divinità (e non è poi questo ciò che ci ha riproposto in chiave scientifico-spirituale Rudolf Steiner parlandoci dei regni di Natura, degli Esseri Elementari e delle Gerarchie che vi operano?).
Nel solo Olimpo greco e romano si contavano numerose divinità preposte a questi ambiti e si celebravano altrettante feste propiziatorie, una di seguito all’altra. Pan era il protettore delle campagne e dei pastori, Pomona sovrintendeva ai giardini e agli alberi da frutto, cosí come a Mutinus erano sacri i campi e le greggi. Demetra-Cerere, la Grande Madre, si identificava con la stessa vis genetrix della natura, in Grecia si celebravano per lei i Misteri Eleusini, mentre a Roma si celebravano dal 12 al 19 aprile le Cereralia. Flora, sposa di Zefiro, era la dea dei fiori e della primavera, in suo onore, dal 28 aprile al 3 maggio, si celebravano le Floralia, e se Maríca era una ninfa della vegetazione, le Meliadi lo erano dei frassini. Pale proteggeva i pastori e le greggi e le Palilie erano feste rurali celebrate il 21 aprile.
C’erano anche divinità preposte a specifici lavori nei campi: Sator alle semine, Saritor alle sarchiature, Vervactor al dissodamento del terreno, Segesta allo sviluppo delle piante, Tutilina difendeva il granaio, mentre Silvanus e Faunus, quest’ultimo anche con il dono della profezia, erano divinità legate all’ambiente dei boschi.
Per finire, un ruolo particolare veniva ricoperto da Vertumno, divinità di orti e giardini ma che presiedeva anche al cambio delle stagioni.
Nel Medioevo le credenze sacro-animistiche sulla Natura persistettero a lungo, anche per l’acquisizione di elementi nord e centro europei. Su questo substrato si inserí il Cristianesimo, non sempre con esiti felici. Il primato dell’uomo sulla Natura, che prendeva giustificazione da certi passi delle Scritture dell’Antico Testamento, la mise in un ruolo subalterno e spesso di sfruttamento, se non addirittura di persecuzione. Si andava perdendo la visione del Sacro nella Natura stessa, veniva posto in atto il primato dell’Uomo sul resto del Creato, in modo tale che si perse l’armonia tra i due e rese lecite le persecuzioni verso chi ancora operava in accordo con la Natura, o con chi semplicemente usava erbe e sostanze prese dal mondo vegetale e animale.
Iniziò cosí la caccia alle streghe e si volle vedere il male e il demonio nei boschi, negli alberi, fino alla distruzione dei Boschi Sacri visti appunto come sede di esseri malvagi.
Solo pochi santi, come ad esempio Francesco d’Assisi, ebbero a cantare lodi alle creature, indicandole degne di rispetto e amore, cosa che fece nel suo Cantico delle Creature.
Alcuni ordini monacali, come i Benedettini e poi i Cistercensi, Certosini ed altri, conservarono il sapere sulle piante e le specie utili alla salute dell’uomo, coltivandole e preparando da queste, nelle farmacie dei conventi, estratti medicinali per la cura dei mali d’allora e questo diede l’avvio all’Hortus Conclusus nelle abbazie di quel tempo. Piante che si santificano, si mitizzano, si umanizzano, si animano come creature della Divinità, come intermediarie tra Cielo e Terra, Giardino come Specchio (Speculum) delle forme create (Species): Regno dell’Uomo che, con i Sensi, la Mente e lo Spirito aspira, attraverso l’interpretazione delle Forme e delle Dimensioni, a riconquistare la primordiale perduta armonia con i Mondi Spirituali e le Gerarchie.

L’Hortus conclusus dell’Abbazia di San Pietro
Quando si metteva in opera l’Hortus Conclus nei conventi del Medioevo, si portava ad espressione il Paradiso Terrestre: le forme, le misure, gli aspetti simbolici rappresentavano lo stato originario idealizzato e desiderato. L’Hortus vero e proprio, inteso come appezzamento di terreno dove si coltivano le piante alimentari, salutari ed aromatiche, sintetizza il concetto di “ager”, cioè di terreno coltivato, esemplifica il dominio sulla Natura dell’Uomo, il quale ha acquisito la capacità di usare in modo razionale le piante, attraverso la loro conoscenza e le applicazioni che ne sono derivate.
Si usavano nelle colture forme e spazi quali il cerchio, il quadrato, l’ottagono e costanti numeriche come il due, il tre, il dodici, cosí pure “divina proporzione”, cosí chiamata solo piú tardi, nel 1509, dal matematico francescano Luca Pacioli.

Parte dedicata alle erbe aromatiche
Negli Orti conventuali erano pure presenti la spirale, il labirinto e la svastica, si tenevano in gran conto i Segni Zodiacali, e vi era la presenza di alberi quali il fico, il melo e l’olivo, che venivano investiti di una sacralità che rimandava all’Albero della Luce, all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male e all’Albero della Rivelazione. In abbazie del Nord Europa si continuò per lungo tempo a considerare il frassino come Albero Cosmico, Albero della Vita, funzione che nel Centro Sud europeo era svolta dalla Quercia. Retaggi questi di culti precristiani che perdurarono e furono estirpati spesso solo con la forza.

La Fonte
Un posto preminente negli Hortus dei conventi lo aveva la fonte, la sorgente, l’acqua, non in quanto elemento primario di vita biologica, ma come simbolo di rinascita spirituale, come sostanza fondamentale per il rito di purificazione. La fontana divenne sinonimo di sorgente, simbolo e spesso opera d’arte che andava ad abbellire il Nuovo Eden.
Passiamo ora al Bosco monastico che ebbe significato simbolico di “Bosco Sacro”, evoluzione del Lucus romano. Quest’ultimo si distingueva per peculiari caratteri di naturalità, salubrità, felice posizione, freschezza e mitezza del clima e per la sua fisionomia, ma era innanzitutto la presenza del Numen che faceva dei Boschi Sacri degli antichi una sorta di tempio a cielo aperto. L’attribuzione di poteri sacrali taumaturgici al bosco risale ancor prima di Roma, basti ricordare i siti oracolari dell’antica Grecia, o gli Asclepiadei, veri santuari terapeutici strettamente connessi al bosco, ma la cultura dell’Albero Sacro e il concetto della sua sacralità appartenne a tantissime altre civiltà e culture del passato, una per tutte quella dei Celti, con i loro sacerdoti, i Druidi.
Se pure nella civiltà e nella cultura del Medioevo il bosco era sovente visto come luogo di ombre, di pericoli e di presenze malvagie, vi fu chi, come Bernardo da Chiaravalle, ne ebbe una concezione molto spirituale. Egli in una sua Lettera cosí si esprimeva: «Nei boschi troverai qualcosa di molto piú grande che nei libri. Gli alberi e le pietre ti insegneranno quel che non apprenderai mai dai Maestri. Ogni mia cognizione della Scrittura l’ho appresa nelle radure e nei boschi; i faggi e le querce sono sempre stati i miei migliori maestri della Parola di Dio».
L’albero ebbe una importanza fondamentale nella cultura e nella spiritualità dei monasteri, se ne piantavano di diverse specie, e ognuna stava a rappresentare anche un simbolo, oltre all’uso che se ne faceva del legname, dei suoi frutti o delle sue essenze. Ad esempio, le palme simboleggiavano la Perfezione delle Menti Superiori, simbolo di Vittoria, di Fecondità. In Egitto le palme erano demandate alla conoscenza del tempo e degli astri; nel Salmo 91 cosí si legge: «Il giusto fiorirà come la palma».
Signore degli Alberi era considerato il cedro del Libano, di cui era fatto il Tempio di Salomone e l’altare, e di cipresso era ricoperto il pavimento. Nel cipresso si identificava l’Albero della Vita Spirituale, era legato già dagli Etruschi poi i Greci e Romani al culto dei defunti, ma era pure l’Albero dell’Immortalità.
Nel leccio si identificava l’Albero della Croce, come narra una leggenda medievale che racconta che solo il leccio si fece abbattere per fornire il legno alla croce del Cristo: tutti gli altri alberi resistettero ai colpi delle asce, non volendo prestarsi al sacrificio di Gesú. Ma la leggenda ha un finale in chiave positiva: se il leccio non si fosse lasciato abbattere non ci sarebbe stata la Croce e quindi la Redenzione; che poi il legno fosse il leccio, nodoso e contorto e mal lavorabile, possiamo sollevare dubbi.
E l’olivo, che nella storia dell’uomo da millenni dona il suo prezioso olio, frutto della terra, alimento e farmaco, l’olio con cui venivano unti i Re, e il Cristo, l’Unto, è considerato Archetipo per eccellenza.
Tante altre essenze erano legate alla sacralità e ci è impossibile qui riportarle tutte, solo per citarne alcune: il biancospino e la leggenda di Giuseppe d’Arimatea che piantò il suo bastone a Glastonbury e su cui crebbe la pianta dell’agrifoglio che simbolicamente scacciava le tenebre del Solstizio d’Inverno ed era quindi legato al periodo del Natale. L’abete, presente piú nel Nord d’Europa, è simbolo della vita nel piú crudo gelo dell’inverno con il suo portamento dal verde splendente: da lui originò la tradizione dell’Albero di Natale. Boschi d’abete, nei pressi dei monasteri, furono poi usati come legname da carpenteria per le grandi opere che i monaci seppero realizzare in campo architettonico.
L’alloro, albero che simboleggia la Gloria, lo Spirito, la Sapienza, il Trionfo, albero in origine sacro ad Apollo, nel mito famoso di Dafne. Il bosso che era usato per la facilità a cui si prestava per farne siepi, alcuni alberi centenari di questa specie erano “locus anachoresis”, cioè luogo di meditazione, sito eremitico, luogo fisico dove l’asceta medievale viveva, isolato e protetto dal mondo circostante. La quercia, il noce e il nocciolo, l’acero, l’olmo, il gelso, il tiglio e il salice, quest’ultimo provvidenziale per farne cesti, panieri e gerle che hanno accompagnato per secoli la vita rurale. Di rami del salice erano intrecciate le ceste in cui furono deposti Mosè e Romolo e Remo per poi affidarli alle acque, valore sacrale quindi.
Un cenno a sé merita la vite, per il frutto e la bevanda del vino da cui si ricava, non poteva certo mancare nei monasteri, a ricordo dell’Ultima Cena dove il Cristo spezzò il pane e offrí il vino per la Nuova Alleanza.
Infine i tanti alberi da frutta, melo, pero, fico, susino e albicocco e gli agrumi, dove il clima ne permetteva la crescita.
Le abbazie e i conventi del tempo coltivavano nei loro giardini e orti non solo specie alimentari, ma molto importanti erano le essenze che venivano usate a scopo medicinale. Non si sfamava soltanto chi era povero, ma sorsero apposite strutture assistenziali, gli “hospitia”, dove si ricercavano nuove soluzioni terapeutiche che alleviassero i mali con la fabbricazione di nuovi farmaci, molti dei quali originavano da sostanze vegetali.
Nella Regola di San Benedetto cosí si legge: «Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est», bisogna avere cura degli infermi prima e sopra ogni cosa. Negli Hospitia dei monasteri le cure ai bisognosi si affiancarono all’ospitalità dei pellegrini, specialmente nei monasteri situati sulle grandi vie di comunicazione e in prossimità di mete di pellegrinaggio famose.
L’Hortus sanitatis si identificava con la porzione di terreno, presente in tutti i monasteri, nella quale venivano coltivate le piante medicinali sotto la direzione del “monacus infirmarius” o “monacus medicus”. Costui era un esperto di terapia che aveva l’incarico di curare i malati, fossero gli stessi monaci o i pellegrini in transito, e questa figura non poteva prescindere dalla conoscenza delle piante medicinali, materia prima di fondamentale importanza per la preparazione dei rimedi dell’epoca.
Ogni monastero coltivava poi tutte le specie compatibili con le condizioni ambientali del sito, le altre, ugualmente necessarie, venivano acquistate.
Nacquero nel tempo i primi Orti Botanici, all’interno anche delle Università, come a Pisa e a Padova, e i primi Herbaria, gli erbari, dove venivano raccolte, disegnate e descritte le varie specie botaniche ad uso medico e didattico, ma qui siamo già al Mattioli, al Castore Durante, al Blasius.
Poi Linneo, nel ’700, inizierà il grande lavoro di classificazione delle specie botaniche, e non solo. Famoso un suo enunciato: «Nomina si nescis, perit et cognitio rerum», se non conosci i nomi, muore anche la conoscenza delle cose. Ormai se ne conoscevano i nomi, ma era in gran parte andata persa la conoscenza spirituale delle piante, quest’ultima andava spesso di pari passo con le credenze magiche e il potere occulto che ad ogni specie era attribuito. Personaggi della levatura di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino si interessarono attivamente ai loro poteri.
Sappiamo quanto il Dottor Steiner abbia detto e scritto al proposito, rinnovando in chiave scientifico-spirituale l’argomento botanico e fitoterapico, cosí come non si può non accennare a Wilhelm Pelikan con la sua grande opera in tre volumi Le Piante Medicinali, scritta anche con indicazioni date direttamente da Rudolf Steiner, dove ogni specie botanica è vista nuovamente sotto l’aspetto del rapporto che questa ha con i corpi sottili dell’uomo, ed infine l’opera di Edward Bach, che con i suoi 38 Fiori ha aperto nuove frontiere ad una terapia basata sulla sinergia tra l’uomo e la pianta.
L’abbazia di San Pietro a Perugia, oltre ad avere un Hospitium al suo interno, possedeva un ospedale nel priorato di Santa Maria di Fonte, a Sant’Andrea d’Agliano, e un ospizio intitolato a San Gualtiero, presso il castello di Casalina, dove i monaci già gestivano il ricovero di San Lazzaro.
Ai monaci Benedettini e alle diverse diramazioni dell’Ordine si deve riconoscere il merito di aver intrapreso tra i primi tutto ciò di cui sopra si è scritto, un cenno doveroso va pur fatto alla Scuola Medica Salernitana che ebbe il suo apogeo nel XII-XIII secolo, e fu punto di incontro tra la cultura classica, mantenutasi nei monasteri, e la scienza araba (che a sua volta era permeata delle antiche culture medio-orientali, ad esempio la persiana). La medicina araba influenzò molto l’Europa e in Spagna raggiunse una delle piú alte forme d’espressione, alcuni nomi famosi sono Averroè, Avicenna, Al-Razi e Albucassis. La classicità venne tutto sommato rafforzata e i concetti di Ippocrate e Aristotele, che gli arabi avevano tradotto, e quelli di Discoride e Galeno, vennero esaltati e presi a fondamento della terapia.
La Scuola Salernitana deve la sua fortuna, tra l’altro, all’enunciazione di criteri generali che, sebbene in latino, erano espressi in forma semplice, facili da ricordare. Alcuni aforismi esprimenti precetti medici sono rimasti famosi, come il seguente che chiude il proemio del “Flos Medicinae”:
Si tibi deficiunt Medici, Medici tibi fiant
heac tria: mens laeta, requies, moderata diaeta.
Se ti mancano i medici, medici ti siano
queste tre cose: l’animo lieto, il riposo e la dieta moderata.
Qui termina il nostro percorso di visita al Giardino dello Spirito, un grazie al professor Alessandro Menghini che ci fu vicino a Perugia nella visita quel giorno di tanti anni fa, ed infine ispiratore e guida per me di questo scritto.
Davide Testa