Torniamo ancora sul tema di “ realtà” e “verità”: si tratta di un sinonimo? A volte i due termini vengono adoperati con pressapochismo preoccupante. Per prassi, la parola realtà indica una cosa o una situazione genericamente extrapersonale, ma gli studiosi, negli approfondimenti culturali e di ricerca filosofico-filologica, non di rado dividono la realtà in “soggettiva “ e “oggettiva”, lasciando poi alla verità l’onore di rimanere da sola sul palcoscenico per esaurimento di contorno terminologico.
Inoltre, la verità è scindibile in soggettiva e oggettiva? Nel Cosí è (se vi pare) di Pirandello, la comparsa finale della “Donna velata a lutto” lascia irrisolto il dramma. Dalla sua bocca escono meste le parole: «…Io sono colei che mi si crede». Il mistero di un dolore umano, disperso nell’interpretabilità degli altri.
Potrà magari non piacere (non tutti amano i pirandellismi) ma non si può negare che l’impostazione di vita della moderna società sia fortemente minata alla base dal non aver cercato onestamente, tenacemente, assiduamente, la soluzione dell’enigma. Di questo particolare enigma.
Occupati, interessati, forse avvinti, in tutt’altre tematiche, abbiamo concesso alla Verità perduta di aleggiare sul mondo, di avvolgere l’intero pianeta nei suoi veli, circondando i nostri sogni fino a soffocarli nell’incubo.
Sarebbe opportuno capire la ragione per cui abbiamo abbandonato la ricerca della verità in sé e per sé, ed abbiamo al suo posto adottato, con sinecura, la parola “realtà” che sicuramente ha maggior risalto sul piano dell’efficacia comunicativa, ma nei momenti in cui conta una soluzione definitiva, mostra, in modo evidente, la fragilità dell’inconsistenza.
A seguito di una conferenza letteraria, in fase di dibattito, un tale, che per l’aspetto mi ricordava un quacchero, forse perché alto, magro, vestito di nero, con barbone fluente, s’alzò e disse: «Ma insomma, si gira e rigira attorno alle cose senza volerle mai concludere con precisione. L’uomo è fatto cosí; è approssimativo; questa è la realtà!».
Al che, garbatamente, il conferenziere replicò: «Perché non dice che questa è la sua realtà?».
E l’altro: «Ma no; è la realtà in sé. È un fatto oggettivo; non ci piove sopra!».
«Scusi – rimbeccò qualcuno del pubblico – ma lei parla per sé o a nome di tutti?».
«Che c’entra questo? ‒ reagí il barbuto indispettito. – Se non volete capire, fatene a meno. Però le cose stanno come ho detto io». Dopodiché il quacchero uscí, tra un brusío di commenti.
Dal che si comprende come la soggettività della realtà, specie se in buona fede, altro non faccia che procurare grattacapi e incomprensioni.
Non che la percezione della realtà “oggettiva” offra appigli molto piú solidi; tutti gli automobilisti si fermano (o almeno sanno di doverlo fare) al semaforo rosso e ripartire quanto si dà il verde. Ma conosco molti quaccheri, o mormoni, magari anche convertiti all’antroposofia, che amano insinuarti il dubbio sul “come” il colore verde o rosso possa giocare nella tua interiorità: si combina bene con il tuo gusto estetico oppure ti provoca una repulsione cromatica insopportabile? Sono felici di sottolineare che a percezioni uguali corrispondono sensazioni diverse. Per concludere poi che l’uomo non conosce la realtà nella quale è immerso. Non può, spiegano, perché non è strutturato per farlo.
Tanto per mettere le cose a posto e agevolare il da fare (in tal senso ogni cosa può essere valido strumento) ho conseguito l’abitudine di chiamare “realtà” (sia interiore che esteriore) tutto ciò di cui posso acquisire consapevolezza attraverso la comprensione ed esperienza sensoria. So già che ogni risultato derivante sarà parziale e provvisorio; ma pur nella sua precaria stabilità mi concede al momento la possibilità di costruire ulteriori ragionamenti. E a me, questa serve.
La realtà oggettiva mi vien data in buona parte da elementi di percezione fisico-sensibile; quella soggettiva da elementi in prevalenza animici. Ma entrambe devono servirsi del pensiero per divenire intellegibili alla coscienza che li accoglie. Con essi la coscienza costruisce le impalcature con le quali poi consolida il suo essere. Perciò, a buon diritto, posso chiamare queste realtà, con il nome di “stati di coscienza”, e la loro acquisizione una vera e propria assunzione in carico.
L’errore madornale è credere che l’acquisito sia definitivo e che quella notizia, informazione o esperienza, non sia suscettibile di ulteriori perfezionamenti. È un errore che le pigrizie congiunte di mente, anima e corpo, felici di stringersi a coorte per farci dispetto, ci stanno facendo pagare un prezzo enorme, di fronte al quale diventa irrisorio anche il debito pubblico dei paesi sommersi dal (de)merito.
Eppure ogni giorno, a tutte le latitudini, stuoli di esperti, analisti, economisti, geopoliticisti, nonché équipe di faccendieri patentati d’ogni nazione, colore e divisa, studiano, in gruppuscoli appassionatamente suddivisi, il modo di venir a capo dell’impasse globale, cercando il massimo risultato pro domo sua, possibilmente a scapito, se non a danno, della restante concorrenza.
Ecco un esempio calzante di realtà oggettiva e soggettiva. Dico e sostengo di volere il bene per tutti (aspirazione universale) e mi applico con la massima alacrità a perseguire soltanto l’utile mio personale (inspirazione egoica). Ammetto, non sono verace, sono realista (mal che vada, mi dimetterò dall’incarico).
I bravi coloni che milioni d’anni or sono affittarono il pianeta Terra, hanno sempre cercato, attraverso le varie epoche, di ignorare i resoconti di spesa che puntualmente la Proprietà inviava loro, sotto forma di segnali sempre piú evidenti. Anche perché, tra disboscamenti, infiltrazioni, radiazioni molecolari e trivellazioni, di lavori di straordinaria manutenzione ne abbiamo compiuti parecchi e non tutti sono riusciti bene. È logico che la situazione diffusa e generalizzata, di là dalle limitazioni e/o impedimenti di cui narra la leggenda sia costellato il sentiero della virtú, mette una pesante ipoteca sul futuro della terra e sul destino dell’umanità.
Credo che se si vuole porre un immediato riparo, la prima cosa da fare è decidere una volta per sempre di distinguere il concetto di verità da quello di realtà. Su questo argomento sono stati spesi oceani di parole, ma evidentemente non sono bastati perché oggi la situazione è peggiore di quella di ieri, e le previsioni per domani convincono poco. Tutto sta a focalizzare il quid di separazione tra le grandi categorie concettuali ‒ soggettivo-oggettivo; interiore-esteriore; percepito-rappresentato; subíto-partecipato ‒ e constatare che l’elemento separatore e quello unificatore è il medesimo: il pensare.
In un primo tempo, per forza di cose, vale la realtà percepita, ossia lo scenario fisico esterno; siamo nel cosiddetto realismo primitivo, che forma una rudimentale conoscenza materialistica del mondo; la permea, la struttura e persistendo nel tempo, la condiziona.
Arriva la crisi (i grandi passaggi conoscitivi sono sempre preannunciati da una crisi, che è crisi di pensiero prima di qualsiasi altro tipo), e si approda all’isola galleggiante dell’idealismo critico: ora il mondo (anche esterno) è soltanto un modo, del tutto personale, di rappresentarmi le cose. La conoscenza si fa idealistica, trascendentale, metafisica; si abbattono gli idoli, i totem di legno o di pietra e si sostituiscono con la forza ultraterrena delle ideologie, degli idealismi, dei soggettivi astratti ai quali vengono spesso assegnate le medesime prerogative che si attribuivano ai feticci e agli obelischi. Dallo sciamano allo psicanalista il passo è lungo ma spedito.
L’esperienza fisica va bene, è giusta, ci ha fornito moltissime indicazioni di vita pratica e anche di sopravvivenza. Ma comporta dei limiti che reclamano venir superati.
L’esperienza dell’idealismo, o della metafisica, è ancora piú importante per il senso delle nostre esistenze: le solleva proiettandole oltre la strettezza della concezione fisico-sensibile. Ma oltrepassata una determinata misura, sconfina nell’irrazionale, nell’iperbolico, nell’impercettibile, salvo complicazioni visionarie o allucinatorie.
Il non vedere come siano composti l’uno e l’altro campo d’indagine, il non voler capire quanto siano complementari, e soprattutto quanto il passaggio dall’uno all’altro sia dipeso in toto ‒ esclusivamente e incontestabilmente – dall’attività pensante umana (a volte anche di un unico uomo fra tanti) è la cecità presuntuosa e terrifica di quanti si rifiutano di accettare il ruolo del pensare come propulsore del destino e dell’evoluzione.
Piú volte in precedenti articoli mi sono dilungato sulla triangolazione dell’atto conoscitivo e di come i saggi filosofi dell’antica Grecia avevano, fin d’allora, individuato tre gradi, o momenti, grazie ai quali distinguere le realtà fisico-sensibili dai princípi eterni della Verità. L’esperimento passava per le tappe di doxa – aletheia – episteme; grosso modo possiamo accontentarci qui d’associarle alla nota triade di ipotesi – tesi – sintesi. Certamente il senso della triangolazione è molto piú vasto e ricco di sfumature, ma il lato interessante è che, approfondendo, chiarisce e avvicina la meta.
Il fattore cruciale, l’elemento di crisi che ha mandato (e manderà) a gambe all’aria le nostre belle concezioni basate sull’esperienza scientifico-materialistica dell’uomo e dell’universo, consiste proprio nell’unilateralità (non avvertita) di teoretiche che nel tempo sorgono, fanno piazza pulita dei residui precedenti, e inevitabilmente tramontano, anch’esse spazzate via da nuovi repulisti.
Può essere qui evidenziata l’unilateralità, nel senso che l’uomo si confronta con ciò che gli sta dinanzi senza accorgersi che la sua presenza (o coscienza) è essa stessa parte del fenomeno osservato; e che, mancante questa, non vi è garanzia alcuna che il fenomeno ripresenti identiche modalità. Questo vale per le realtà d’ordine soggettivo e oggettivo, e di conseguenza per tutte le scienze e le discipline che ne discendono a cascata.
La Verità invece, per funzionare come verità, ha una particolarissima connotazione: implica, nel suo formarsi, la piena presenza di una coscienza pensante incondizionata (il piú possibile incondizionata). Allora la triangolazione si compie; scatta la sintesi, e l’atto conoscitivo che se ne trae è di qualità nettamente superiore alle intuizioni, anche geniali, che si hanno senza la culminazione del potenziale interiore, ove non ne vengano ravvisati il valore e la funzione.
Si afferma un principio di Verità. Sento già aleggiare nell’aria l’interrogativo: «E tu sostieni che questa sia la Verità Assoluta?».
Mi piacerebbe rispondere usando farina del mio sacco, ma non è cosí; la migliore delle risposte l’ho sentita un giorno, durante un seminario, pronunciata da un uomo che per molti anni ho poi seguito, stupito e ammirato dalla sua preparazione in campo spirituale e filosofico, nonché dalla sua capacità di gestire le diverse convulsioni delle anime quando vengono poste a confronto con l’essenzialità.
La verità non può essere assoluta; se lo fosse, vorrebbe dire che da qualche parte ce n’è un’altra relativa; sarebbe una contradictio in terminis. La verità ha due caratteristiche fondamentali: è universale, ossia riconoscibile da tutti, ed è integratrice, nel senso che non si pone il compito di debellare conoscenze e convincimenti pregressi; portata nel mondo, si pone in mezzo a questi, che per intrinseco difetto non possono far altro che decadere alla sua comparsa.
Se i responsabili di Culti & Culture avessero illustrato a dovere questo semplice assioma e tutti noi l’avessimo assimilato fin dagli anni della pubblica istruzione, forse il mondo oggi non sarebbe quel che l’abbiamo fatto diventare. Siamo invece rimasti ancorati ad una sorta di realismo, che ovviamente non può essere né primitivo né tanto meno ingenuo, come nel tempo che fu, e contestualmente idolatriamo forme metafisiche che ci raccontano l’assenza assoluta di una qualsivoglia divinità, mantenendo inalterate le caratteristiche del divino applicate a caso, materia e ateismo: ovvero, potenza, indeperibilità e invincibilità. Caratteristiche che di certo sono state create da anime colme della propria incoscienza. La moderna idolatria, infatti, nasce, su disposizione umana, da basi extraumane; da profondità subconscie contro le quali l’uomo avrebbe dovuto reagire, combattere, e nella misura del possibile, trasformare. Ove avesse avuto prima la capacità di comprendere quel che stavano compiendo in lui.
Persino l’ingenuo realista, nella sua schematica elementarità, poteva evitare di cadere nel tranello di scambiare per astuzia e finezza di pensiero le seduzioni del dualismo e della rappresentatività. Ancora oggi, dopo quasi cinque secoli, si discute, in ambienti sempre piú rarefatti, sul fenomeno della “soggettivizzazione”, che sembra un parolone difficile, ma in fondo lascia trasparire il dramma inequivocabile di un Io la cui forza spirituale stenta a farsi strada nelle coscienze oscurate dalla materia.
Questo moderno amletismo discende per via diretta dal torto del realista e dall’illusione dell’idealista; il primo per aver ceduto alle lusinghe dell’altro, e il secondo per aver clamorosamente barato con se stesso, pur di acciuffare una momentanea supremazia intellettuale.
Tutto ciò accadde, e accade per la mancanza di un pensare in sé riconoscente la propria funzione vitale: la spinta propulsiva alla conoscenza, senza la quale non sarebbero mai sorti realisti, idealisti, né i loro deformi nipoti, debolisti e destrutturativisti.
Il pensiero dell’uomo, se egli lo lascia fluire nelle correnti che gli appartengono, potrà anche non essere del tutto libero, ma certo indica di continuo la via per diventarlo, ogni giorno di piú.
La realtà sanamente interpretata dai sensi non si arresta sul limite di un mondo fisico-sensibile avente pretesa, non solo infondata ma anche stupida, che null’altro vi sia oltre le Colonne d’Ercole. La realtà parla incessantemente del mondo supernaturale e sovrasensibile che ne è l’essenza metafisica, cosí come la Verità è l’essenza delle varie realtà, o realismi, che nei nostri itinerari mentali, di volta in volta, scopriamo e sistemiamo nella speranza di ulteriori progressi.
Al riguardo possiamo fare un semplice esperimento: come in un film, vediamo la medesima scena in due versioni successive. Protagonisti del fatto siamo noi; ci vediamo quindi procedere in un sentiero nel bosco e arrivare ad una vasta radura; in questo spiazzo da una parte sono accatastate con un certo ordine molte assi di legno di varie misure; nella parte opposta osserviamo file e file di mattoni grezzi sovrapposti con cura fino a formare una montagnola. Ai suoi piedi ci sono sacchi di cemento, picconi, badili e altri attrezzi. Nel mezzo, la radura è spianata da uno scavo piú o meno rettangolare piuttosto grande, e all’intorno, lungo i bordi, sono disposti a intervalli regolari dei paletti collegati tra loro da nastri colorati di bianco e rosso.
Ora, nel primo filmato (dopo aver ispezionato con cura la zona) vi sentite dire: «Ma guarda un po’! Chi diavolo può aver fatto tutto questo? Hanno buttato legni di qua, mattoni di là, hanno aperto una fossa, che oltretutto è anche pericolosa. E poi questi attrezzi che possono essere ancora utili come arnesi da lavoro, abbandonati cosí. Che disordine! Che menti tarate! Non bastava portare tutto alla discarica? Bisognava anche rovinare la natura. Ah, ma tornato a casa io compilo una bella lettera per il Comune e denuncio questi atti di vandalismo!».
Nel secondo caso, invece, le affermazioni sono diverse: «Oh! Qui qualcuno si sta costruendo una casa! È strano, perché non vedo cartelli indicanti i lavori e le licenze delle autorità. Ma forse se ne sono dimenticati! Infatti mi pare che nell’insieme i materiali e gli scavi siano iniziati da poco; forse i proprietari prima tirano su la casa e magari dopo pagano la sanzione per aver costruito abusivamente. Non è la prima volta che succede».
Certamente nessuno desidera immedesimarsi nel primo dei due ragionatori; sarebbe uno sconforto e non vorremmo mai che qualcuno ci sentisse fare deduzioni di quel genere.
Eppure per quel che riguarda il pensare e l’elemento della conoscenza che esso ci offre, ci siamo comportati non spesso, ma spessissimo, proprio come quel tipo, diciamo deficitario per non infierire, il quale, senza riuscire a fare la benché minima sintesi, si limita a guardare supinamente le cose, nella totale incapacità di sommare i significati, che, pur senza parole, i dati di fatto esprimono, se chi li guarda avverte in sé la presenza di una coscienza pensante.
Questo deficit del pensare accusa in primis i filosofi, o pensatori di mestiere, quanto meno quelli, dall’Illuminismo in poi, che hanno navigato dal realismo primitivo a quello metafisico, a quello trascendentale, e poi, non paghi, si sono rimangiati tutto, sostenendo la brillante idea che “Il mondo è (solo) una mia rappresentazione”, che la percezione, di conseguenza, non esiste, e che tutto, compreso il Signore Iddio, è solo una questione di mera soggettività.
Persino “io” non posso essere sicuro d’essere un io, perché, sapendolo, dovrei attribuire al metafisico lo stesso potere probatorio che ho concesso al suo opposto; e perciò verrei a creare una specie di cogito ergo (non) sum post litteram, inficiato alla base dall’urgenza di trovare la definizione di me stesso, senza tuttavia doverla subire, in quanto l’io che affermo di essere mi basta per quel che ho quotidianamente da sbrigare. Ad ogni buon conto porto sempre con me il codice fiscale. Giusto?
Mi ricordo la battuta sui miti della vecchia Unione Sovietica, nella quale si sosteneva che un loro scienziato, il genio stratosferico Popov, avesse inventato tutto, ma proprio tutto, dalla ruota allo Sputnik, passando per il tostapane, l’automobile, la televisione e la lavatrice. E poi, alla domanda: «Chi ha inventato Popov?» con la stessa sicurezza e serietà rispondevano in coro: «Noi!». Il lato piú grave della vicenda è che la risposta «Noi!» veniva esclamata a voce alta e con un certo orgoglio.
Molti dei nostri maestri pensatori non hanno saputo far meglio degli autori di Popov; abbiamo dedicato loro lapidi e monumenti, intestato vie e piazze, e i loro pensieri vengono studiati nei santuari dell’istruzione e della cultura quali testi indispensabili per la formazione intellettuale delle nuove generazioni.
Abbiamo creduto in tutto ciò che il pensare ci spadellava davanti, filtrato e impastocchiato da una o piú menti (alcune non bene allineate, altre decisamente devastate) che davano poi luogo a modelli di status cogitandi, o movimenti di pensiero, e attraverso mille sfumature si riversavano sull’umanità, alimentandone passioni, motivandone brame, comunque sospingendola verso gradi differenziati di follia collettiva.
Neppure per un attimo abbiamo voluto credere al pensare in sé, ma solo alle sue applicazioni su questa cosa, su quella determinata finalità, su quell’altro scopo, e via dicendo; abbiamo usato il pensare per polemizzare con Tizio su Caio e contro Sempronio, per confutare Quizilopoti, attaccare Potiquizilo, e giustificare la santa alleanza con Lozipotiqui; barbaramente dimentichi e irriconoscenti dell’attività primaria, senza la quale non ci sarebbe stato nulla di pensato, o di pensabile; nulla da quilipotizzare.
I legni restano legni, i mattoni, chissà come e perché, rimangono lí ingombranti e ottusi come sempre, e gli scavi di fondamenta sono una vergognosa deturpazione paesaggistica.
L’idea di una casetta da costruire nella radura? Un progetto? Un pensare che sottenda, coordinandole, le cose ivi giacenti, riportandole ad unità? Niente! Zero assoluto! Neanche l’ombra di un intuito che metta a posto i pezzi sparsi del puzzle.
Preferiamo fingere di credere in forme di pensiero piú vaporose, instabili e mutevoli come i governi che ci sforziamo di votare, tanto per sgranchire i nostri diritti civili, cosí come si tiene acceso il motore di una vecchia auto usata, perché non si scarichi la batteria.
Pochi passi evangelici sono piú noti del «Cercherete la verità e la verità vi farà liberi». Eppure, a studiare la storia e le evoluzioni del pensiero umano, sembrerebbe proprio di no.
A noi la verità non piace; ci fanno piú comodo le realtà contingenti, transitorie. Anzi, pare addirittura che ci si dia un gran daffare per incrementare le contingenze e le transitorietà, di modo che – dopo – ci si possa a buon diritto sfogare: «Lo sapevo! L’avevo sempre detto che cosí non poteva andare avanti! Io l’avevo già capito prima!» (secondo me si tratta sempre di quel tale che denuncia alle autorità (ma in forma anonima, eh, che ci potrebbero essere delle implicazioni!) le opere di costruzione scambiate per scempio ambientale. Ma lo aspetto al varco del referendum sulle trivellazioni, sarà interessante vedere cosa farà!).
La realtà non può darci piú di quello che ha, ma può nascondere in sé qualcosa che ha e che inizialmente noi non siamo in grado di percepire.
In antico, nei casi di siccità protratta, gli scopritori di falde acquifere le cercavano, alle prime luci del sole, buttandosi a terra e aspettando il momento in cui di contro all’insorgente luminosità del giorno, tra le zolle e la terra arsa, si levasse tenue, appena appena visibile, un filino d’umidità svelatore dell’acqua sotterranea. Se si fossero limitati a percepire esclusivamente l’apparente, senza ulteriori spinte all’indagine, sarebbero morti di sete.
Chi cerca la via della Verità, trova il pensare che vive al di sopra d’ogni pensato pensabile pensando. Lo trova, e trovatolo si esercita volitivamente a ritrovarlo fintanto che riesce a percepirlo come fosse un dato percettivo.
Quel che gli può giungere dopo, nelle varie forme di idea, concetto o intuizione, non rientra nelle mie possibilità descrittive, ma assieme ad altri amici (amici veri, non solo reali) colgo l’insegnamento di chi è stato in grado di lasciarci una indicazione senza uguali: «Ciò che è stato ideato allora si riaccende, germina di ulteriori forme, continua ad essere sostanza del divenire umano» (Massimo Scaligero, Dell’Amore Immortale, Fine Prefazione).
Angelo Lombroni