Senso della filosofia giapponese

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Senso della filosofia giapponese

Giardino ZenLa filosofia giapponese, come indagine speculativa e scienza della determinazione concettuale, ossia come filosofia propriamente detta – perciò non come filosofare mistico od esoterico – ha poco piú che cento anni di vita. In questa sua non lunga storia, essa presenta motivi e correnti, forze ideali e dialettiche, forme teoretiche e positivistiche, esistenzialistiche e fenomenologiche, che riconducono in definitiva al quadro generale della filosofia occidentale. Tuttavia, mentre in Europa, verso la seconda metà dell’Otto­cento, allato alla continuazione si manifestò la reazione filosofica allo hegelismo, si può dire che nella stessa epoca in Giappone il filosofare compieva il passaggio da un àmbito di tradizioni mistiche a una esperienza dei concetti e delle idee, a una visione razionalistica del mondo, a un contatto con le forme della logica occidentale, in cui lo hegelismo era inevitabilmente presente e orientatore.

Il problema di un simile trapasso non è facile a prospettare, trattandosi di una trasformazione di forze interiori, difficilmente comprensibile al pensatore occidentale, che può concepire l’esperienza razionale unicamente come fatto dialettico. Per il pensiero giapponese non si trattava di compiere il passaggio da un’epoca di intellettualismo impegnato nella indagine sperimentale, enciclopedica e illuministica, ad un’epoca di idealismo costellata di tutte le sue immediate contro-versioni filosofiche: si trattava di un processo ben piú sottile: difficilmente spiegabile dal punto di vista della filosofia occidentale. Esso era – come in qualche modo è ancora – un àmbito di forze mistiche, poggianti su tradizioni, riti, costume quotidiano, dottrine ascetiche, ossia un mondo che può rivestire forme razionali, esprimersi concettualmente, a condizione di non divenire oggetto della razionalità: un mondo il cui valore è anzitutto la sovra-razionalità, perciò non patisce sottoporsi a un potere d’indagine esprimente un aspetto inferiore della sua attività, almeno dal punto di vista del suo livello. Ma comportante questa sovra-razionalità in forma non cosciente e perciò esigente il proprio affiorare cosciente, in forma genuina e fedele: fedele allo Spirito.

Certo si è che lo sviluppo della civiltà giapponese conosce la piú imponente grandiosità proprio nel suo tener fermo a determinate forze trascendenti, ereditate di ceppo in ceppo, di famiglia in famiglia, attraverso l’anima e il sangue, i maestri della saggezza e le dottrine: ossia attraverso un modo interiore che tutto si può dire fuorché “storico” nel senso attribuito a tale termine dalla filosofia europea.

I tre elementi che dall’esterno intervengono in tale non-storico sviluppo, confucianesimo, buddhismo, civiltà occidentale, anche quando influiscono sulla vita giuridica e rituale del Giappone, non alterano affatto l’elemento trascendente della tradizione religiosa, che si riflette soprattutto nello spirito eroico-guerriero e nel culto degli avi. Alla vigilia dei nuovi tempi, nell’epoca Tokugawa (1603-1868), il razionalismo di Chu-hsi riportato ad onore come etica sociale e strumento di politica, seguíto dal movimento dei wagakusha riconnettentesi con gli insegnamenti di Chikafusa Kitabatake, esprime non tanto l’apertura del pensiero a nuovi modi di essere, quanto un uso del pensiero da parte di forze tradizionali. Fenomeno in cui può ravvisarsi qualcosa di molto simile a un potere di destino che, operando mediante l’anima del popolo giapponese, tende a non perdere la propria intima forza nell’andare incontro al­l’esperienza della razionalità.

Dei tre eventi che caratterizzano la non-storica vicenda della civiltà nipponica, la penetrazione del­l’influsso cinese e in seguito del buddhismo e il contatto con la cultura occidentale, i primi due sostanzialmente non mutano nella dell’attitudine mistica e della concezione di una vita indipendente dal fluire del tempo.Yamato Dall’epoca di Yamato a quella Heian (VIII-XII secolo), al pe­riodo Kamakura (XII-XIV secolo), sino all’epoca Tokugawa (XVII-XIX secolo), si può dire che, malgrado il diffondersi della cultura tradizionale in una forma la cui razionalità è sem­plicemente veste di contenuti metafisici, il vero inizio di un’esperienza di pensiero dialettico risale all’incirca al 1862, allorché il BanshōShirabe-shō diretto da Nishi Amane inizia una se­rie di studi e lezioni sulla filosofia gre­ca ed europea, e lo stesso Nishi pub­blica una delle prime opere di conte­nuto speculativo, Hyakuichi Shinron.

Per comprendere quello che da allora è avvenuto, occorrerebbe aver chiaro anzitutto quanto effettivamente è avvenuto nel mondo occidentale subito dopo la scomparsa di Hegel. Si immagini che al centro dell’esperienza di Hegel si possa ritrovare un personale fatto intuitivo-mistico, come una capacità di visione per cui egli potesse veramente non soltanto percepire il pensiero come una corrente di vita, ma altresí vederlo come un tessuto intimamente strutturale delle cose e degli enti. Si immagini che egli avesse un’esperienza del reale non semplicemente esterioristica, ma tale che potesse cogliere in esso qualcosa di ancora piú sottile che un mondo di atomi o di energie nucleari, ossia il fondamento “etèrico”, o “vitale”, dei fenomeni, l’elemento sovrasensibile delle forze formatrici, e che tuttavia non potesse esprimere tale sua visione se non in termini concettuali, con il linguaggio della filosofia: si vedrebbe una simile ipotesi funzionare a meraviglia. Essa spiegherebbe il mistero della filosofia di Hegel, la sua ricchezza dialettica, la potenza del suo sforzo di correlazione e unificazione dei valori, ma spiegherebbe altresí perché la sua opera, assunta nel suo mero dialettismo, privo della interna risonanza, possa significare ben altre cose: possa dar luogo a interpretazioni diverse e perciò a correnti tra loro contrastanti.

La realtà è che, anche se non ci si voglia compromettere con un’ipotesi del genere, pure il sistema filosofico di Hegel s’impone talmente per potenza enunciativa e logica, per vastità di sintesi e per profondità metafisica, da far legittimamente pensare a un personale potere di percepire l’elemento sovrasensibile del mondo, che potrebbe dare luogo soltanto a un’obiettivazione artistica, a una produzione poetica, ossia ad una esposizione per via di immagini piú che per via di concetti e categorie. Hegel invece si riconosceva il còmpito di esprimere filosoficamente l’interna rivelazione, che l’antica mistica si preoccupava di accogliere evitando l’intervento della ragione (in sostanza fu questo l’atteggiamento della scolastica: validità delle idee fino a un certo limite, oltre il quale la ragione doveva cedere alla fede). Si potrebbe allora spiegare quello che poi è accaduto: che, rimasto in mano ai filosofi il linguaggio hegeliano, e soltanto questo – salvo rare eccezioni – entro questo linguaggio si è potuto immettere tutto. Lo hegelismo serví a tutti: materialisti e spiritualisti: sinistra, destra e centro. Persino l’anti-hegelismo non si sottrasse a tale linguaggio. La trascendenza si poté riaffacciare sia come Spirito che come materia: persino come anti-metafisica e neo-positivismo.

Immaginate allora che cosa possa essere avvenuto in un àmbito di studiosi di filosofia come quello del Giappone della seconda metà dell’Ottocento. Giapponesi, razza costituzionalmente mistica, recante nel sangue forze metafisiche ed eroiche: esseri la cui mirabile religiosità non ha necessità di trascendenze, perché il trascendente è già qui, nella sfera della volontà, nel sentimento della vita, prima che nel pensiero: è immanente come il respiro o il fluire del sangue. Esseri che non sperimentano il processo interiore che porta alla indagine del mondo fisico, alla scienza e alla tecnica – processo che ha richiesto all’europeo la perdita delle antiche forze mistiche, o la trasformazione di queste in attività razionalistica – e tuttavia cominciano a esserne informati e ne accolgono i risultati, essi rimanendo uomini antichi, quindi prendendo contatto con la scienza e la filosofia mediante semplice movimento interiore piú che per la partecipazione attiva: la quale è ancora minima. L’uomo europeo ha vissuto il processo della scienza: l’estremo-orientale lo ha semplicemente accolto. Ora, chi sperimenta un processo e lo vive, ha anche le forze per sostenerlo, per sopportarne le conseguenze: non cosí chi accoglie le conseguenze senza esser stato autore e sperimentatore del processo: a meno che non mantenga intatte quelle originarie forze interiori che il processo, là dove è sorto, invece ha impegnate e forse ha troppo vincolate a sé e sotto taluni aspetti esaurite.

È questo veramente il caso del pensiero giapponese: l’intatta freschezza della vita interiore c’è, è essa che viene portata incontro al mondo dei concetti e delle idee, incontro alla logica e alla dialettica. L’uomo costituzionalmente mistico conosce infine la filosofia. Può essere per lui un’esperienza positiva se egli viene condotto a riconoscere nel pensiero speculativo il moto stesso del pensiero con cui lo apprende: se l’esperienza filosofica non gli contraddice la realtà del pensiero mediante la quale può averla. Ciò sarebbe potuto avvenire attraverso un saggio e rigoroso hegelismo: quale nemmeno la speculazione occidentale ha potuto conoscere. Si sarebbe potuto vedere l’intima linfa del pensiero di Hegel accolta e avvivata dall’intuito che fiorisce con la potenza della spontaneità dall’anima giapponese. Ossia, si sarebbe veduto animarsi il filosofare di Hegel della luce vitale di cui è emanazione: luce che è stata perduta per la dialettica conseguente allo hegelismo, cosí come consunta ed estinta e addirittura inversa è per il recente filosofare, sopravvivente quale verbosa, cavillosa e fraseologica teoretica presso gli ultimi esauriti ceppi: l’idealismo, l’esistenzialismo, la fenomenologia.

Perciò, dando uno sguardo alla filosofia giapponese, che è storia filosofica di appena un secolo, la nostra attenzione è stata attratta da Nishida, il conoscitore di Hegel che non ha cessato di essere un discepolo Zen, anzi arditamente ha trovato l’identità del “vuoto” del buddhismo mahayanico con il “nulla” del moto della dialettica hegeliana.

Nishida Kitaro

Nishida Kitaro

Di Nishida ci siamo brevemente occupati in queste stesse pagine, proprio perché l’identità del “vuoto” del buddhismo mahayanico con il “nulla” del moto della dialettica hegeliana coincide, in effetti, nel fiorire della pura antica mistica dell’idea come logos, non l’idea astratta, ma l’idea come potenza ideante: ossia abbiamo veduto quello che di meglio dovrebbe scaturire da un sano filosofare. Che dovrebbe essere autentico, nella misura in cui fosse un meditare: un meditare capace di attuare le forze originarie del pensiero, che sono forze dello Spirito. Non poteva non attrarci questo fenomeno positivo e produttivo del pensiero, perché il resto del quadro è la solita vicenda della filosofia, il suo giuoco dialettico piú o meno familiare, comunque riducentesi alle mere posizioni teoriche e teoretiche, dialettiche e terminologiche: a un mondo di parole privo di contenuto vivo, quale è oggi, in definitiva, il mondo della filosofia, in qualunque zona della terra.

Nel primo ventennio della filosofia giapponese (1862-1885) possiamo scorgere la presenza di tre correnti principali di pensiero: ilvecchio empirismo, il positivismo, l’evoluzionismo.

Notevoli sono due pionieri, Tsuda e Nishi, l’evoluzionismo di Katō Hiroyuki e l’insegnamento della filosofia anche ad opera di docenti occidentali all’Università di Tokyo. Seguendo lo schema di Recent Japanese Philosophical Thought 1862-1962 di Gino K. Piovesana, il periodo immediatamente successivo (1886-1900) è caratterizzato dal conservatorismo e dall’idealismo anglo-germanico: è la reazione alla occidentalizzazione del Giappone: il pensiero antico in nuove categorie ad opera di filosofi come Nishimura, Inoue Enryō, Miyake; la vasta illuministica e in pari tempo tradizionalistica attività di Inoue Tetsujirō; l’etica e il criticismo di Onishi Hajime, la psicologia sperimentale di Koeberu Sensei, e le prime forme di pensiero socialista e marxista. Segue il periodo dell’individualismo, del pragmatismo e del neo-Kantismo (1901-1925): notevoli lo strumentalismo di Tanaka Ōdō, l’individualismo etico di Abe Jirō, al lato all’opera di docenti come Kuwaki Gen’yoku e Tomonaga Sanjūrō. Verso il secondo decennio del Novecento, ha inizio l’opera determinante di Nishida Kitarō (1870-1945), per il cui significato rimandiamo ad un articolo precedente (Note sulla filosofia giapponese: Attualità di Nishida, in «Il Giappone», II, 1, 1962 e in M. Scaligero, Zen e Logos, ed. Tilopa, Roma 1980).

L’idea della libertà, il principio dell’autocoscienza e l’elemento ascetico postulante l’esperienza del “nulla”, nella visione filosofica di Nishida, rappresentano il punto di congiunzione tra l’antica mistica e la possibilità positiva del pensiero moderno. È singolare che in Giappone, mediante Nishida, si sia attuato un evento del pensiero che, a chi guardi la filosofia occidentale non semplicemente per avvertire lo svolgersi teoretico, ma per afferrare che cosa realmente sia in quanto fatto dello Spirito, si sarebbe dovuto verificare in Europa come conquista ascetica del pensiero. Tutto lo sforzo della ricerca doveva condurre almeno pochi orientatori europei all’esperienza del “pensiero puro”, o del “pensiero libero dai sensi”, ossia del pensiero capace di penetrare la materia e i fenomeni, in quanto dotato di sovrasensibile autonomia: il pensiero che oggi manca rispetto all’enorme mondo dei fatti fisici, tecnici, economici: ormai impenetrabili al pensiero astratto.

La via attraverso cui tale esperienza si sarebbe dovuta verificare è quella che attraverso Kant, Fichte, Schelling, Hegel e l’idealismo italiano da Vico a Spaventa e a Gentile, si scioglie dai vincoli della metafisica e della vecchia logica, per esprimere il valore sintetico del pensiero. Già Kant, malgrado il suo essersi arrestato alle “sintesi a priori” e alle “categorie” nella ricerca delle fonti prime del conoscere, intuí la possibilità della percezione sovrasensibile. Svolgendo l’“Analitica del sublime” nella sua Critica del giudizio, egli osserva: «Sublime è ciò che per il fatto di poterlo soltanto pensare, attesta un potere dell’anima superiore ad ogni misura dei sensi».

ZenNell’idealismo germanico, come in quello italiano, che ha una sua inconfondibile originalità, l’esigenza del pensiero puro è correlata alla visione di fondo di un “puro essere” in cui va ad estinguersi ogni determinazione di pensiero, sino a che possa presentarsi come un “vuoto” o una “indeterminazione”, in cui il pensare ha la sua scaturigine, essendo il suo essere senza forma, in cui si è viventi soltanto in quanto si pensa non pensando. Non è perciò il pensare ordinario, o astratto, o razionalistico, bensí il pensiero-essenza, o pensiero vivente: il cui svolgimento non può essere un fatto di logica, bensí la fase creativa di forme inattese, la cui legge è la logica dell’essenza. 

Questa ricchezza sorgiva del pensiero non poteva non essere sentita da un discepolo Zen [禅], dotato di capacità di conoscere il concreto pensiero occidentale: il pensiero creante, prima che dialettico: quello a cui si deve tutto ciò che di positivo è nella cultura razionalistica e nella civiltà della tecnica, i cui aspetti negativi oggi sono semplicemente la perdita del contatto con esso, ossia con ciò da cui sono scaturite. Nishida Kitarō ha inteso ciò che andava riportato ad onore di questo nobile filosofare. In realtà, il còmpito di risalire dalle determinazioni concettuali, dai giudizi sintetici e dalle categorie al “pensiero puro”, o pensiero-essenza – che contiene in sé ogni categoria perché contiene ogni sintesi – mentre in sede filosofica è stato riproiettato nel movimento dialettico, dal punto di vista della storia dello spirito, invece, risulta ciò a cui effettivamente tendeva l’interno processo della filosofia. Avendo come pietra di paragone la nozione del “vuoto” data dal Taoismo e dallo Zen, Nishida poteva intendere il valore metafisico a cui veramente tendeva il processo del pensiero occidentale. C’era invero da trovare qualcosa che oggi è divenuto piú difficile identificare.

Si guardi la nozione del “puro essere” di Hegel. Un pensatore italiano, Bertrando Spaventa, si può annoverare tra i pochissimi che ne abbiano afferrato il senso: dopo aver osservato come la ricerca del­l’“essere veramente esistente”, riconoscibile nell’immagine del congressus in Protagora, divenga l’esigenza della “essenza” del conoscere in Trendelanburg, Herbart, Kant, Rosmini, egli cosí si esprime: «Hegel crede di dover andare piú indietro ancora, piú in fondo, al vero originario, a quello che non presuppone niente dietro o sotto di sé e che è presupposto da tutto, e che moto, enti, sintesi, presuppongono: all’assoluto minimum, a quello, tolto il quale, non rimane piú nulla, cade ogni cosa: eccetto – e questa è la necessità del pensare – quello che ha tolto tutto ciò». Chi non riconosce in tale operazione qualcosa di realmente affine alla via verso il “vuoto” del buddhismo mahayanico: verso il “nulla” di Nishida, il conoscitore dello Zen e di Hegel?

Wissenkraft del LogikIn effetto tutta la Wissenschaft der Logik di Hegel si può assumere in un’unica idea: che il pensare sorgivo, il pensare ancora non determinato in concetti, o pensiero puro, presuppone il “vuoto”. Non è la logica il punto di arrivo di Hegel, come si è generalmente creduto, ma ciò che essa pre­suppone. Si ricordi, ad esempio, il tema dell’essere come “immediato indeterminato”: «Essere, puro essere, senza alcun’altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza, esso è simile soltanto a se stesso ed anche non dissimile di fronte ad altro: non ha alcuna diversità né dentro di sé né all’esterno. Con qualche determinazione o contenuto, che in esso fosse diverso, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l’essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura indeterminazione e il puro vuoto».

Identica è l’indeterminazione del nulla: «Nulla, il puro nulla. È semplice somiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto: indistinzione in se stesso».

Cosí che può giungere all’affermazione che mostra un’im­pressionante identità con le dottrine orientali del vuoto: «Il nulla è cosí la stessa indeterminazione, o meglio, assenza di determinazione, e però in generale lo stesso che il puro essere».

Il quadro della giovane filosofia giapponese acquisisce senso presso la significativa figura di Nishida: soprattutto la filosofia della religione di Hatano Seiichi, il sistema etico di Watsuji Tetsurō e la logica delle specie di Tanabe Hajime, quali forme costruttive, cui si affiancano il culturalismo e lo hegelismo, il materialismo storico di Kawakami, il marxismo antropologico di Miki e, come piú recenti espressioni, l’esistenzialismo della Scuola di Kyōto, la filosofia analitica, il neo-positivismo, il notevole “Terzo Umanesimo” di Mutai Risaku.

Oltre Nishida, si può dire che pensatori veri sono Tanabe, Takahashi Satomi, Watsuji, Hatano, Mutai Risaku, ma è chiaro che possono considerarsi tali, in quanto hanno quella ricchezza interiore a cui fa appello la storia umana per avere senso e orientamento. Che le idee, i concetti, le categorie, la logica, siano conosciuti dall’Occidentale è un fatto che rientra nell’ordine della conseguenzialità: che essi siano conosciuti e sperimentati nella loro concretezza dall’Orientale è un evento che attua l’incontro tra Oriente ed Occidente, unisce due culture, accorda due epoche. L’intellettuale giapponese che sperimenti la filosofia teoretica, la dialettica e la logica, ha la possibilità di incontrare in sé come atto della coscienza le forze interiori che hanno condotto alla civiltà della tecnica: sono le forze che si sono manifestate nella indagine del mondo fisico e nei sistemi della scienza. È importante che tali forze, almeno dal filosofo, siano conosciute nel loro momento metafisico, cosí che il mondo orientale non accolga i prodotti della civiltà della macchina, privi della loro controparte interiore: che è dire privi di moralità. Come purtroppo è avvenuto. Ciò che può ritornare contro l’Occidente è l’Oriente tecnicizzato e astrattizzato, senza che il suo modernizzarsi sia in correlazione con un cosciente processo di pensiero: che certamente non è la filosofia, ma ciò di cui un sano filosofare è il segno.

L’Occidente, come portatore del razionalismo e della macchina, avrebbe dovuto trasmettere al­l’Oriente prima che una cultura libresca o manualistica, l’arte di usare come forze di autocoscienza, o di coscienza pensante, le forze dell’antica mistica: che sono le stesse. È la ragione per cui i residui di un deteriore misticismo, di uno psichico oscurantismo, hanno avuto il potere di riprendere vita traducendosi nella dialettica astratta, nella teoretica terminologica, incapace di afferrare un minimum di realtà, e tanto meno di stabilire ponti tra Oriente e Occidente.Ponte Zen E appunto di­cevamo che l’Occidente, avendo sem­pre accolto dall’Oriente messaggi stimolatori dello Spirito, avrebbe dovuto restituire ad esso non il precipitato dialettico del suo filosofare, bensí forme vive dell’attività dello Spirito: scambio che è un dialogo interiore, non una im­portazione di libri o di propagatori di erudizione o di interpreti mostruosamente astratti dei rapporti tra Oriente e Occidente.

Questi dialettici filosofanti non risparmiano nulla: né Tao, né Zen, né Buddha, né atman. Ultimamente abbiamo visto uno di questi ossessi di terminologia filosofica, nella sua presunzione di fare un ponte di parole tra Oriente e Occidente, esaminare la figura di Shri Aurobindo, assumendolo come filosofo e separando da lui ciò che egli realmente è, ossia un asceta riunente in sé la figura dello yogi e del sannyasi, la cui dottrina non potrà mai cadere sotto l’esame critico di un filosofo che non sia abbastanza filosofo da capire che non può giudicarla sulla base dialettico-critica, ma soltanto ove possegga – sia pure solo intuitivamente – l’esperienza interiore di cui essa è veste. Equivoco tragico o grottesco, per cui, per esempio, la dialettica di Shankara diviene valida come una filosofia teoretica e viene confuso un qualsiasi monismo dialettico con l’unità trascendente di forze non conosciute nemmeno nella concretezza della loro pluralità.

Con vuoti nomi, con autentiche chiacchiere filosofiche, terminologicamente esatte – e questo è il grave – si pretende stabilire correlazioni tra Oriente e Occidente, in realtà mai esistite, ma tali che, dialetticamente operanti, guastano veramente la possibilità della comprensione tra i due mondi.

La filosofia comparata può divenire un’arte della paralisi della intesa tra gli esseri pensanti dei diversi popoli e dei diversi continenti. Tra le culture vengono posti sbarramenti dialettici e la presunta fraternità diviene un fatto in definitiva propagandistico: mentre còmpito della filosofia dovrebbe essere affratellare le genti, sollecitando anzitutto il rispetto reciproco delle tradizioni e delle forze viventi dello Spirito, sulla base della penetrazione di ciò che veramente rende grande e indispensabile al concerto della civiltà un determinato popolo. Perché ciascun pensiero ha qualcosa da dire, ciascuna mistica ha il suo valore inconfondibile, ciascuna dottrina ha qualcosa di singolare da insegnare al filosofo: che ancora conosca la dignità del filosofare: che sia onesto. Richiesta di cui si può riconoscere l’ingenuità, ma a cui non per questo si deve rinunciare.

I pensatori giapponesi sui quali abbiamo richiamato l’attenzione non sono ripetitori della filosofia occidentale (Nishida è terribilmente autonomo, cosí come il filosofo del terzo Umanesimo Mutai Risaku, o l’etico Watsuji Tetsurō): sono i portatori dell’esperienza concettuale nel loro popolo. Esperienza che si compie mediante forme della filosofia, senza identificarsi con alcuna di esse in particolare. La dialettica non ha nulla a vedere con un processo che si svolge là dove si formano le forze di destino di un popolo: dove possono essere operanti soltanto quelle idee che hanno avuto il potere di trasformarsi in ideali viventi, ossia in forze creatrici. Perché – secondo il monito di un Maestro occidentale – le idee che non si trasformano in forze creatrici, divengono un veleno dell’anima. Ma è questo veleno delle parole prive di movimento di pensiero, che circola oggi nel mondo: i concetti morti, le idee esanimi, che non sono piú capaci di penetrare i fenomeni, di afferrare il processo economico o il processo sociale, o il mondo della tecnica, o la natura.

Entrata al tempio Eiheiji della scuola Zen Sōtō  fondato da Dōgen nel 1244 presso Echizen

Entrata al tempio Eiheiji della scuola Zen Sōtō
fondato da Dōgen nel 1244 presso Echizen

Se il pensiero vivente è quello che, abbia o non abbia forma filosofica, ha il potere di operare positivamente nel destino di un popolo, occorre dire che esso si pone come l’ideale di una educazione del pensiero secondo la sua originaria vita. Tutto lo sforzo del pensare umano, anche quando sembra impegnato in un progresso meramente esteriore, in realtà tende a una superiore esperienza di sé, ossia alla sua autonomia di contro agli oggetti a cui esso conferisce valore. Questa linfa viva del pensiero è un alimento che non viene dalla mera razionalità, ma da zone luminose dell’anima in cui affiorano le originarie forze della evoluzione dell’uomo. In tal senso possiamo dire che la filosofia giapponese, là dove può realizzare la trasformazione delle idee in ideali viventi e perciò in forze di moralità, in sostanza attinge alle virtú profonde del­l’anima del popolo: fa sorgere come luce di pensiero ciò che questa reca come antica virtú mistica, ritrova in geometrie di concetti l’originaria ricchezza interiore, sino a ieri fiorita nelle forme mirabili dello Zen.

 

Massimo Scaligero


Tratto dalla rivista «Giappone» anno III, 1963