Ci siamo illusi che democrazia
fosse la manna per la bassa forza:
dare il potere al popolo, ecco tutto.
Portando l’alto in basso e viceversa
si livellava il mondo in equità,
e chi aveva talento per natura
desse le dritte a chi ne difettava,
cosí il forzuto sostenesse il debole
e tutti insieme spingere in accordo
il macchinario della civiltà.
E c’è stato qualcuno che, convinto
della schietta bontà di tale formula,
ha pagato la scelta con la vita
o perdendoci il senno e il portafoglio.
La colpa è di Platone, che sognava
la Repubblica in mano a un pensatore
che fosse illuminato al punto giusto
per tradurre in realtà i suoi ideali
di uguaglianza, giustizia e libertà.
Ma il pensiero è una trappola, uno specchio
che riflette veline maliziose
se al posto del filosofo subentrano
i Due Compari con i loro accoliti.
Accade allora che un principio astratto
fissi il modello di democrazia:
un subdolo castello in cui recludere
i sognatori di ogni tempo e luogo,
mantenuti al calduccio degli ignari,
mentre fuori, nel franco territorio
agiscono i briganti e i grassatori,
gli usurai, i piazzisti e i borsaioli,
che vestendo l’arbitrio di efficienza
gestiscono la cassa e la credenza.
Ma quando il meccanismo rischia il tilt
e mostra le sue intime magagne
ecco allora imbonire i castellani
onirici e distratti con le urne:
referendum, suffragi, plebisciti,
sondaggi, votazioni a maggioranza.
Ma è solo un espediente, manco astuto.
Si permette al paziente confinato
nella lunga degenza di cambiare
la posizione del suo lato destro
con il sinistro e cosí via, alternando
speranze e delusioni. Tanto basta
a palleggiare il male e non guarirlo.
Ma quando verrà il Regno illuminato
dalla vera sapienza, dall’amore
del prossimo, non conteranno i codici,
gli statuti, i decaloghi, le norme
e i referendum. Si saprà dal cuore
di ogni uomo o legge il suo valore.
Il cronista