La vita stride quando nasce, vibra
in un fermento di pulsioni e sangue,
l’anima esulta, finalmente libera
dall’esuvia ninfale, si divincola
fuori dal vischio che l’opprime, e vola
di ramo in ramo, tocca i suoi registri
elaborando partiture armoniche
arpeggiate su antenne, rostri e tendini,
messaggio d’aria, espresso in un singulto
sincopato, preghiera a dèi minori.
La vuota cartilagine si assimila
al tronco dove dimorò, diventa
essa stessa corteccia, scoria muta.
Il canto è aspro, cadenzato, insiste
nel suo mantra ossessivo, vaniloquio
fatto di un solo tono, un solo verso,
vagito della nuda creatura
che reclama di esistere tessendo
con effimere note il suo destino.
Quanto dura l’estate. Poi si estingue,
l’armonia di cui visse, raro incenso
che brucia e si dissolve. Ma rimane
la sua cadenza ritmica, l’assolo
del suo essere mito transeunte,
fragile e tuttavia rito sonoro,
rispondenza di astrali scaturigini.
La vita coi suoi palpiti ci è ignota,
nasce da un seme, si concreta, tende
a farsi eternità, diventa sillaba,
canto disteso o atono mistero,
aurea magía, forma che asseconda
sintonie dei precordi col pensiero.
Fulvio Di Lieto