Il pensiero del mondo

Considerazioni

Il pensiero del mondo

logicaOggi gli uomini sono convinti di essere logici e positivi. Quando, in una delle tante varianti sul tema, affermano questo giudizio, ritengono ovviamente di avere la consapevolezza per farlo. Tale consapevolezza viene pensata tuttavia con la medesima modalità con cui pensano se stessi logico-positivi.

Manca un elemento di fondo o riferimento superiore che garantisca e contemporaneamente completi il ragionamento, l’unico che potrebbe forse “consapevolizzare” il grado di consapevolezza impiegato.

Vedono il mondo nel suo aspetto materiale, lo accolgono come materia, ma non si chiedono se vi sia un rapporto tra la materia che percependo incontrano e il pensare, il quale, attraverso la struttura psico­fisica umana, offre loro l’opportunità di vederla nel suo apparire.

Non si chiedono se oltre al proprio, esista anche un pensare del mondo, e cosa questo pensare faccia mentre essi, pensando, si assumono il carico di un mondo senza pensiero.

Eppure sanno che il mondo vive tanto quanto sono viventi loro stessi; ma questo esser vivi assieme all’esistenza di minerali, vegetali e animali, non induce a compiere quel passo intuitivo determinante per aprire gli occhi su una nuova realtà.

Hanno sempre dato per scontato che l’attività pensante sia una caratteristica della specie e con ciò hanno posto un punto fermo ad ogni ulteriore indagine.

Il risultato è che, di fronte ad una alterità che si presenta ora come ignoto, ora come inconscio, un’altra come dogma, o mistero, e una ancora come energia, o materia oscura, non vi è piú nulla che possa suggerire la concezione di un’identità originaria perduta e di un suo eventuale recupero. Le forme dell’alterità sono infinite quanto l’attività pensante chiamata in causa per immaginarle.

Di conseguenza, quel che si dà come fondamento del mondo è in via esclusiva la sconosciuta fondatezza del pensiero capace veramente di pensare ogni cosa, il suo opposto compreso, ma sempre attraverso una coscienza ignara di farlo, d’essere l’esclusiva portatrice del pensare. Nel senso che opportunamente persistendo nella corretta ricerca, nient’altro può esservi in un’ori­gine se non un inizio comune a tutto quel che viene dopo. Come dal pensare, cosí ai pensati.

L’opera dei filosofi, professionisti o atipici, forma un patrimonio immenso in cui riluce la testimonianza di una costante presenza dell’attività del pensiero. Tuttavia anch’essa non viene riconosciuta per quello che realmente vale, in quanto ciascuno, pensatore o seguace, propende per una determinata corrente, o movimento di pensiero, piuttosto che per un altro.

Naturalmente non trova né corrente né movimento, ma solo il suo cadavere riflesso nel determinismo retorico-dialettico. Essendo sfumata la causa, ci si aggrappa agli effetti. Sicché diviene non solo plausibile, ma addirittura logico, che i neoplatonici litighino con i postaristotelici, gli empiristi se la prendano con i razionalisti, e i mistici fronteggino gli agnostici.

Ogni pensato intessuto a grandi linee ideali, collocato con una certa sapienza nelle bacheche del tempo, presentato quale modello archetipico, è buono per sollevare animosità e contumelie da parte di una umanità che si ostina a non vedere il “minimo comune multiplo” e neppure il “massimo comun divisore”, corrente in tutte le filosofie, pur che scopra in sé l’arte di sollevarsi, per un attimo, al di sopra del prodotto filosofato.

Ove non bastassero queste motivazioni, la situazione viene ulteriormente a complicarsi per un fatto facilmente prevedibile, in quanto immancabile conseguenza di una facoltà pensante mai ripercorsa fino al punto in cui essa riveli la sua appartenenza al sovrasensibile.

Premesso che cosí non è per tutti gli uomini e che tra essi ci sono sempre stati dei casi che contraddicono l’andamento generale, si deve anche dire che, nel suo insieme, la compagine di questi non ha finora trovato il modo di mantenere integra la forza ispiratrice; di modo che quanto da ultimo sta succedendo con frequenza allarmante, e che spesso viene scambiato per un’opzione di libertà legata ai singoli, è la predilezione di non decidere affatto, di non scegliere una determinata idea, o strada, o coerenza di vita, se non prendendola a prestito ora da quel pensatore, ora da quella ideologia, ora da altre fonti che all’anima priva di specifico indirizzo, sembrano volta per volta allettanti e proficue.

E quand’anche si proceda in tal modo, la scelta compiuta è sempre soggetta a cambiamenti di fronte, voltafaccia e conversioni a 180°, protratti nel tempo, cosí che se Tizio-laziale incontra Caio-romanista a pranzo, a nessuno dei due viene dato sapere se la medesima passione durerà fino a cena. Ammesso e non concesso che il tifo sportivo abbia in sé uno spicciolo di logica.

Non conoscendo tutto, non sapendo la verità del tutto, e nemmeno potendo mantener fermo quel poco che se n’è ricavato, è inevitabile che gli uomini si scontrino con l’ignoto, ovvero col concetto d’ignoto che hanno involontariamente costruito riempiendolo di quel che ancora non hanno reso oggetto delle scienze e dell’esperienza.

Due sono le posizioni che si possono assumere in questa circostanza, la quale nel tempo si è sclerotizzata, divenendo una vera e propria regola di vita pratica: da una parte c’è il saputo, l’assodato, l’arcinoto; di contro sta l’imponderabile, il mistero, l’alterità non penetrata.

Chi sostenga questa visione in prospettiva bidimensionale vedrà la parte oscura come una forza bloccante, tetragona; avrà l’impressione che essa sia talmente piú forte di lui da irrigidirlo in un sentimento non ben definito ma non per questo meno sopraffattore, di rassegnazione-disperazione.

crocePuò sembrare una confessione inutile quanto tardiva, ma c’è stato un periodo, anche piuttosto lungo, in cui ho vissuto di persona una situazione del genere e proprio riguardo alla figura del Cristo. Venivo schiacciato dalla grandezza di una Croce che mi sovrastava e della quale non avevo la minima intenzione di sopportare il peso, sia pure a semplice livello rappresentativo o immaginativo.

Proprio là dove avrebbe dovuto esserci, per evidenza di cose, un richiamo imperativo alla capacità di scavalcare il proprio limite, e la possibilità di aprire l’anima al simbolo dell’immensità unificatrice e reggitrice dell’universo, proprio in quel punto può avvenire un crack, una crisi, una frattura che, da quel momento in poi, avrà la pretesa di venir percepita come l’inguaribile piaga di Amfortas.

Oppure, ed è bene dirlo come contrappeso liberatorio, è possibile comprendere che l’oscuro ignoto cui si sta di fronte, non è oscuro, né tantomeno ignoto, anche se tale sembra. Capire come questo sia soltanto il modo di apparire d’una demarcazione, del tutto soggettiva e provvisoria, dalla quale l’oceano sterminato della nostra ignoranza, della nostra indigenza, e tuttavia dell’urgente unanime richiamo di accendere la scintilla dimenticata dello Spirito, si proietti in noi tutti sollecitando il compito evolutivo.

Comprensione resa fattibile nella misura in cui sia sostenuta dall’intimo risoluto convinci­mento d’essere in continua crescita, e che pertanto il bicchiere mezzo vuoto (o magari vuoto al 90%) della nostra conoscenza si sta riempiendo goccia a goccia, ininterrottamente, al di là dei limiti imposti dalla natura. Una tale capacità d’osservazione è essa stessa una di queste gocce.

I problemi immediati e concreti nei quali si stanno dibattendo i paesi d’Europa, alla ricerca del modo migliore per fronteggiare il fenomeno migratorio, dai flussi del quale non è escluso il pericolo che si tratti solo di un potenziale esordio, riflettono perfettamente quanto precede. Non potrebbe d’altra parte essere diversamente: la sentenza “a mali estremi, estremi rimedi” è sí inappellabile, ma è anche reversibile. Se sono i mali a venire per primi, i rimedi devono seguire con pari forza.

confineOgni linea di frontiera, o barriera, o limite, sia di filo spinato, sia di muratura o di cavalli di Frisia, separa i respinti dai respingitori. I primi non sanno di patire oggi quel che probabilmente, di stessa o analoga gravità, hanno causato in epoche precedenti; e gli altri, che credono di avere qualcosa da difendere, ignorano che, cosí facendo, stanno provocando una situazione che li vedrà soffrire in futuro per quello stesso male che, al momento, si credono nel giusto infliggere ad altri.

Di che dunque è composta la de­marcazione? A questo punto qualcuno può azzardare a trarre una conclusione. Ma a nulla servirà ove derivi dal solo istinto o da altre reazioni emotive.

Gli ineffabili abitatori di questa terra (la quale, in ricordo della poetessa Wislava Szimborska, è “il terzo pianeta del Sole”) pensano; sanno d’avere un pensiero; inoltre coltivano sentimenti e, almeno nelle azioni palesi, manifestano una certa carica di volontà.

A parte il pensare che fin dai suoi primi gradi d’astrattezza dimostra un’inequivocabile tendenza ad andare oltre lo stesso pensatore, sentimenti e volontà sono sempre autoreferenziali. Il sentire fa risuonare in me le voci del mondo, e col volere tento di aggiustare, se non piegare, cose e fatti alle mie opportunità.

Fintanto che l’uomo resta ancorato a queste ultime due funzioni, potrà sicuramente leggere nella natura e nell’universo, le leggi che con cura ha saputo condensare in formule, teorie e princípi; ma altrettanto sicuramente esse gli procureranno solo una panoramica riduttiva, schematica delle realtà in tal modo indagate.

I riscontri ricavati fin qui dalla scienza non spiegano piú di quanto possono spiegare le ricostruzioni di animali preistorici, mettendo insieme le ossa rimaste e aggiungendovi altre opportunamente costruite in plastica corrente, secondo un calcolo che sta a metà tra il probabilismo e l’invenzione.

La parola “materia” in quanto a significato (ma se vi aggiungessimo l’aggettivo “oscura” le cose non cambierebbero di una virgola) è il dinosauro che si vorrebbe ricostruire in laboratorio ed esporre poi in qualche mostra itinerante per la gioia di grandi e piccini. Tutta la vicenda narrata con buona capacità dal film Jurassic Park, si basa su questo mai dismesso desiderio di ricreare la vita, superando spazio e tempo, senza avere neppure l’ombra di conoscenza per i livelli da superare.

Soltanto dal pensiero di Massimo Scaligero ho potuto avere delle indicazioni non convenzionali in merito al fatto che ogni essere umano sta nel mezzo (anzi è il punto di centro) tra un mondo conosciuto e uno tutto ancora da conoscere; questo puntino di mezzo percorre una linea che si chiama evoluzione; ad ogni esperienza di vita ‒ fosse anche quella talmente minima da non conseguire, momentaneamente, alcuna esperienza, o d’esserne addirittura in regresso, rispetto ai bench­mark standardizzati di sedicenti authority ‒ esso compie un’accelerazione sulla direzione di marcia; nel farlo, parte delle conoscenze acquisite vaporizza, nel mentre altre nuove intervengono a mantenere saldo e compatto il nucleo formatosi attorno al punto centrale, o corpo di riferimento.

Sia chiaro che col verbo “vaporizzare” non intendo assolutamente affermare il loro eventuale annientamento; tutto ciò che sembra perduto in fatto di ricordi, sensazioni e voleri, in qualche modo si ricomporrà alle spalle del nostro puntolino che timidamente avanza sulla linea retta e, modificati in modo tale da non poter piú essere riconosciuti dallo sperimentatore, gli capiteranno davanti sotto forma di incontri, accadimenti, che egli, o meglio quel che allora sarà di lui, essendo anch’egli soggetto alle azioni del divenire, prenderà per nuovi ed imprevisti.

Magia SacraNulla infatti vieta ad una linea apparentemente retta rivolta all’infinito di compiere un’incurvatura talmente lenta e inavvertibile che per una coscienza impreparata a farlo, non sarà ravvisabile. Ma in tale caso quel che noi pensavamo come retta, in realtà, è diventato un cerchio.

Per la verità, Massimo Scaligero non ha detto né scritto nulla del genere, per lo meno non in questo modo o con queste parole; ma puntando (Egli) il dito sul fatto che «la materia è il percepito che non si sa di pensare» e che «l’alterità è soltanto il riflesso del pensiero, pensato come reale di là dal pensiero» ha offerto a me, e spero ad altri, la possibilità di comporre deduzioni simili.

Ho avuto di recente ‒ recente per me, in quanto ora so di sapere una cosa che prima dell’atto di coscienza non sapevo, tanto per restare nel tema ‒ la prova che i contenuti delle due frasi corsive, tratte dal libro Magia Sacra di Scaligero, entrano nella moderna meccanica quantistica, anche se citate tra i paradossi e i giochi di prestigio della stessa; ne sono una componente sperimentale ufficialmente riconosciuta.

In particolare si tratta dell’esperimento che Leonard Mandel svolse presso l’università di Rochester nei primi anni ’90 e sorprese l’intero mondo dei fisici, non solo all’epoca ma anche di seguito fino ai giorni nostri.

I dettagli dell’esperimento sono facilmente reperibili, ma l’aspetto interessante è costituito dall’interrogativo che ne discende, il quale, per chi si occupi anche di Scienza dello Spirito, è di portata colossale, nel senso che fa toccare con mano quel punto in cui la scienza del mondo, genericamente impostata al materialismo o rifugiatasi dietro un agnosticismo prudenziale, è giunta, sponte sua, ad un trampolino che ora si protende sull’enorme mare della metafisica, e annaspando alla ricerca del vecchio equilibrio perduto, si trova costretta, se vuol andare avanti, a tuffarsi proprio nelle onde di quel mare che essa stessa aveva sempre sostenuto non esistere.

Per i motivi suddetti, quel “se vuol andare avanti…” è del tutto pleonastico.

Il caso esperito dal prof. Mandel e dalla sua équipe pone in luce senza tema di smentite un aspetto assurdo (fino allora) della materia: ovvero, le particelle di cui essa si compone possono ricevere e scambiarsi informazioni; sulla base di queste, modificare i propri andamenti, percorsi e traiettorie; nonché in certi casi mutare anche il loro assetto e posizionamento.

Dal che nascono a cascata fiumi di domande:

1. Come fanno le particelle a comunicare tra loro?

2. Dal momento che la comunicazione si svolge sempre in tempo zero, si deve ritenere superato il nodo cruciale della scienza einsteiniana per la quale nulla nell’universo può viaggiare ad una velocità superiore a quella della luce?

3. Le anomalie rilevate nel corso delle particelle potrebbero venir ascritte ad una loro “ipersensibilità”, al fatto che avvertono d’essere oggetto di sperimentazione e quindi “osservate”?

 Bastano questi tre punti per dare un inizio di credibilità scientifica a ciò che, nell’ambito di una cultura semplicemente materialistica del mondo, nessuno avrebbe fin qui concesso, né tanto meno accreditato neppure al prodigio o alla magia.

L’affermazione “il mondo pensa” non sembra dunque destinata alla lettura di romantici esegeti un po’ demodé, che si isolano in circoli ristretti o si consolano in associazioni di lungo corso, con programmi salvifici per l’umanità e si trastullano cullando progetti di una nuova Arca soccorritrice; ma non sia neanche frutto esclusivo di qualche testa balzana di pensatore in erba che, concepita la dimensione in cui due piú due non fa quattro ma sei, voglia imporre al mondo la sua nuova aritmetica.

Il pensiero, o per dir meglio l’attività pensante esercitata dall’umanità presente, è un unicum con quella attività pensante da cui sono derivati i mondi, i soli, le stelle, compreso lo spazio e le restanti componenti siderali in esso racchiuse. O forse nemmeno racchiuse, se nel verbo racchiudere continuiamo a inserire un sospettabile senso limitativo.

AntipodiIl che sta a dimostrare che proprio con le parole lungo i millenni abbiamo costruito e forgiato con certosina pazienza un pensare davanti al quale ogni nostro discorso diventa sorpassato e obsoleto; nel mentre i vari pensati, da esso ingenerati, continuano a segnare il passo senza avere ancora in sé l’intrinseca prontezza per rispondere esaurientemente a semplici questioni, del tipo: “Com’è che quelli degli antipodi non cascano nel vuoto?”; oppure: “Una navicella viaggiante alla velocità della luce potrà accendere i fari?”; e ancora: “La terra gira su di sé, poi gira attorno al sole, e col sole gira attorno ad altre cose anch’esse rotanti; ma tutto questo movimento è un movimento rispetto a chi?”.

Naturalmente abbiamo la possibilità di attingere ad un sapere che riesce a portarci fuori dal labirinto del nonsenso, ma con enorme fatica, e comunque non fa parte della comune dotazione con la quale sia monarchi che mendicanti regolano le loro esistenze. La linea di cambiamento delle date, la precessione degli equinozi, la cadenza bisestile nel com­puto dei quadrienni e la deriva dei continenti sono solo alcuni esempi che servono a capire come gran parte delle nostre terrestri sicurezze sia vincolata a mere ipotesi prese per princípi oggettivi.

Non vi è nulla di piú falso e mendace di un principio definito oggettivo se il pensiero che l’ha coniato non si è reso conto d’averlo fatto per la benevola concessione di un potere pensante onnipresente e onnipotente, infinitamente piú grande di quanto possa immaginarsi di essere, e di cui tuttavia è indiscutibilmente figlio; spesso irriconoscente, a volte degenere, ma sempre figlio. Il movimento per cui s’intuisce e si pensa non vive piú nel dopo-intuito e nel dopo-pensato; essi devono escludere da sé l’oggetto per il quale il pensiero è sorto e l’attività conseguente si è messa – subitamente ma automaticamente ‒ in moto. Adesso l’escluso, restando fuori del processo attivo, si presenta come ingombro imbarazzante ed enigmatico, cui si appioppa il nome generico di “realtà esterna”; una molteplicità caleidoscopica di immagini priva di riferimento all’attimo vissuto del pen­siero che l’ha in qualche modo scaricata da sé, ma nella totale inconsapevolezza d’esserne l’autore.

Il pensiero del mondo di fronte al nostro attuale grado di conoscenza si frantuma in un mondo di pensieri, che possono affermarsi e smentirsi all’infinito, avendo smarrito ciò che a monte di tutto avrebbe dovuto operare quale capacità umana di portarsi al livello del pensiero vivente; la cui conquista richiede lo sforzo e la fedeltà all’impresa di risalire il normale corso del pensiero fino alla sua essenza. Non riuscendoci, o quanto meno non nella misura in cui l’intera umanità possa venirne beneficiata, filosofia e scienza ci hanno resi superstiti di un naufragio spirituale, offrendoci la panacea di una terraferma tanto solida e concreta per la provvisorietà dei corpi, quanto mortifera e letale per la vita e il cammino delle anime.

Abbiamo fatto cenno ai nostri sentire e volere. Che cosa sono? Da dove vengono? L’ipotesi che siano stadi funzionali di una corporeità attraversata dal sistema dei nervi e condotta dall’ap­parato cerebrale dopo una full immersion nei meandri della psiche, non dice nulla a nessuno, anche se, con eroica ostinazione, continua a venir ribadita, sia pure in salse diverse.

L’idea che l’attività pensante (o energia primaria) dell’universo possa averci compenetrato attivando la scatola ricevente del cervello, contemporaneamente risuonando nell’interiorità come fiorire di sentimenti, presentandosi, ipso facto, in una mobilità animalesca convertitasi in disposizione umana all’azione, quale potere di volontà, continua a sembrare ai piú estremamente vaga se non tirata per i capelli.

Nel primo capitolo dell’Eneide, al verso 462, cosí scrive Virgilio: «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt», ovvero “Sono le lacrime delle cose, e le cose mortali toccano la mente”.

Capisco bene che a un poeta, specie un classico di quel calibro, ma anche molto piú comunemente a un qualsiasi artista ispirato, si concedono licenze che non si concederebbero ad altri; ma se lavoriamo sull’ispirazione sottesa dalle parole, e su quanto esse abbiano presa sulla nostra compartecipazione di lettori, allora forse se ne ricava un quid che comincia a fornire lineamenti utili a una visione panspermistica del pensare.

Perché la Creazione è un’eterna azione fecondatrice nello spazio e nel tempo, agente da fuori del tempo e dello spazio; le due dimensioni possono sembrare adiacenti e asimmetriche per una infinità di ragioni, ma questo non toglie che nella creazione in atto sul pianeta Terra, appositamente chiamata “evoluzione”, si perfezioni un essere in via di sviluppo; tra tutti i possibili sviluppi, o inviluppi, egli può scegliere, attraverso il lavorío lento e gravoso delle vite terrene, di lastricarsi la strada fino a rendere se stesso, il mondo, ovvero la sua realtà di uomo, pari al livello dal quale è sceso per la decantazione e la bonifica; ovvero trasformare uno stato di necessità (con il minimo di residuo spirituale, oltre a tutto, inizialmente non consapevole) in uno stato di libertà, in cui pensare-sentire-volere tornano all’originaria unione, ma ora con l’apporto di una coscienza individualizzata, fiorita proprio nella perdita dell’elemento spirituale e nell’isolamento del singolo ivi recluso.

Le cose del mondo hanno un loro pianto, e ciò che in esse ci appare come deperibile e caduco, non può che toccare la nostra mente, il nostro cuore, la nostra anima di uomini. I sentimenti, la volontà sono nostri fino al punto in cui i sensi della percezione ce lo garantiscono; al di là, essi appartengono alla forza per cui e da cui è sorto il mondo, la natura, l’habitat dell’uomo; probabilmente l’intero creato. Voler frapporre un limite tra le due zone, basandosi solamente sul fatto che “io sento la prima (zona) come roba mia”, è una pretesa scientifica, che fa sorridere per l’ingenuità puerile e possessiva con cui viene avanzata e, non raramente, riversata in formule.

Eppure anche in questo abbozzo conoscitivo, l’anima e la corporeità sanno incontrarsi con l’anima e il corpo del mondo; perché anche il mondo – dice Virgilio – è composto da questi organi: le cose (del mondo) piangono (lacrime); se ci sono le lacrime, c’è una fisicità, e se c’è un pianto, c’è una commozione, un centro del sentire: un’anima.

È un conoscere ancora imperfetto, legato alla soggettività umana: il reduce Enea, assieme all’amico Acate, è giunto a Cartagine; nel Tempio di Era, in attesa d’incontrare Didone, vede le pareti istoriate con i tragici fatti di Troia; i ricordi lo sommergono; non può trattenere il pianto. La natura, o mondo, piange con lui, e come lui, osservando i fatti della storia dell’uomo iscritti nel suo tessuto planetario, ne sente le ferite mai rimarginate. Osservando, ricorda quanto gli uomini hanno fatto a se stessi e a lui: cose terribili e inimmaginabili in tutte le epoche. Esprime questo suo stato di angosciata deflorazione in una deperibilità dolente, in un desiderio di morte, che metta fine all’interminabile strazio.

La sensibilità del mondo e la sensibilità dell’uomo s’incontrano sempre: ed è la percezione, ove volere e sentire dei due si toccano (tangunt). Poi, con l’apporto del pensiero, verrà la rappresentazione; ma non è sufficiente perché il mondo sia veramente conosciuto nel suo essere pensiero dello Spirito prima ancora che una “massa planetaria formato geoide”.

Dovrà avvenire da parte nostra un passo ulteriore, estremamente importante per noi e per la terra, se vorremo portare a compimento positivo le varianti di un’identità perduta. Il pensiero elaborato con la mente, con la cerebralità, ossia plasmato dalla materia che vorrebbe farlo suo, immerso nel fluidificare stordente e aberrante d’una psiche ancora acerba, non può incontrare se stesso nel mondo. Non è in grado di farlo; deve per forza incontrare il mondo come altro da sé; e questo altro da sé è l’incantesimo della materia.

Non vede la materia risolversi in una forza pensante pari grado a quella di cui si serve di regola per cogliere quel che la realtà gli offre. La coglie, ma a patto che resti bloccata nella fissità della morte. Che pertanto, come conseguenza, diventa la sua morte; l’impossibilità di fiorire nel­l’inesauribile forza di vita, rispetto alla quale anime e corpi possono soltanto risorgere dalla loro catalessi, per destarsi alla luce della Verità da cui hanno avuto inizio.

 

Angelo Lombroni