Nelle notti successive all’apertura del mundus, che avveniva il 24 agosto, il pater familias, mentre gli altri consanguinei restavano al sicuro in casa, protetti dalla tutela dei Lari domestici, usciva nell’oscurità e gettava agli spiriti dei manes, i parenti defunti, oppure alle larve di anime inquiete, un pugno di fave cotte per rabbonirli e placare il loro rimpianto per la vita e gli affetti perduti. Il mundus era la fossa ricavata da Romolo presso il Comizio nel Foro, dopo aver terminato l’opera di costruzione dell’Urbe quadrata, con le mura di cinta e la loro consacrazione al Dio Termine. Una volta consacrato, il mundus, nella realtà un ipogeo contenente gli oggetti usati per la fondazione della città, assumeva il valore di soglia, di janua coeli, una porta tra il mondo fisico e quello oltre, fosse questo infero o supero.
Per questo era un passaggio sia di forze ed entità benigne, sia di spiriti avversi, come illustrato anche da Massimo Scaligero nel suo scritto La razza di Roma. Il gesto del pater familias aveva quindi valore di rito esorcistico e propiziatorio allo stesso tempo. Ciò rispondeva alla doppia funzione di dux et sacerdos avuta dal padre nell’ambito familiare. Ogni cittadino, a qualunque ceto appartenesse, era officiante di un’aristocrazia spirituale dell’humanitas romana, fatta di uomini praticanti le grandi virtú del passato.
Gli dèi, in questa visione ideale, ricoprivano il ruolo di vigilanti a che tali pratiche venissero rispettate, non per un proprio tornaconto, ma nella misura in cui esse, se correttamente eseguite, contribuissero al mantenimento dell’ordine civico facilitando al meglio la coesione sociale. Il carattere sacramentale connotava ogni atto pubblico o privato che il Romano compiva, dalla cerimonia solenne coram populi fino al culto discreto di Lari e Penati nell’intimità domestica. Dal semplice pater familias al praetor, l’intento era lo stesso: garantirsi, nel fare, l’ispirazione divina. Dai cittadini comuni, quindi, agli amministratori pubblici, tutti si preoccupavano del favor dei.
Parlando di amministratori pubblici, quelli attuali francesi invece, con uno stupefacente distacco mentale e morale dalle incombenze umanitarie e dalle emergenze terroristiche che toccano anche il loro Paese, disinteresse dovuto forse alle caldane estive, non del mundus si sono dovuti occupare, ma delle mense dei loro enti pubblici. I Romani dell’antichità avrebbero trattato la questione in termini ovviamente civili, con un occhio alla giustizia sociale e scrutando con l’altro i segni di assenso di Cerere e Pomona, dee della produzione agricola e dei frutti commestibili. I cugini d’Oltralpe non si pongono però il problema di rifornire di buon cibo scuole, ospedali, enti pubblici e assistenziali, ospizi e centri sociali: il loro assillo è di portare i menú di queste istituzioni nel solco della grande opera di laicizzazione della Francia. Basta quindi cibo halal, kosher, basta con i giorni di magro, con i ramadan e i digiuni quaresimali. Un solo menú, un solo piatto, senza connotazioni etniche e religiose, salvo un certo laisser faire opportunistico per vegani e vegetariani, che sono di moda anche tra i Soloni della dottrina laicista. Evitando che ogni fede ad oltranza – Calvino insegna – diventi oppressione. Strano che tutto questo parta dal Paese che faceva della Ragione un punto basilare dell’Illuminismo.
In uno degli episodi della saga di padre Brown, Chesterton afferma che la follia non colpisce l’uomo quando perde la ragione, ma quando perde tutto fuorché la ragione. Pascal, filosofo, teologo e matematico, inventore della Pascalina, la prima calcolatrice meccanica, nei suoi Pensieri rincarava la dose rivelando che il cuore aveva le sue ragioni che la ragione ignorava. Il guaio fu che i Francesi diedero una maiuscola alla Ragione, ne fecero una dea, le tributarono un culto e illuminarono il mondo con i sinistri bagliori del razionalismo ateo insito nei suoi geni. Questo per l’ufficialità documentale; nella sostanza, prima con Cartesio, poi con Voltaire e compagni, gli Illuministi pensarono e scrissero per demolire quanto di cristiano era nelle istituzioni e nel costume dei popoli, soprattutto europei. Cristo fu la sola vittima allora, e lo è adesso, quando l’accanimento delle rivolte nelle aree calde del mondo opera strane selezioni tra le religioni presenti, colpendo chiese e comunità cristiane. Si ipotizza per la loro forte rappresentatività sul territorio. Resta il dubbio che il discrimine agisca nella traccia e nel segno dell’Illuminismo allergico al Vangelo. Patria di Giovanna d’Arco, di Teresa di Lisieux, di Bernadette, di Vincenzo de’ Paoli, di Francesco di Sales, del Curato d’Ars e di Maître Philippe, la Francia non riesce a liberarsi della tabe agnostica, anche in questo caso all’apparenza con pulsioni laiche, nella realtà per decristianizzare quel che resta del messaggio dell’Uomo di Galilea nei simboli, nel costume, nelle segnature culturali e sociali. E la Ragione, rinvigorita dagli integratori mediatici, si lancia oggi in una nuova, anzi antica, crociata contro i segni e i simboli che testimoniano degli afflati teistici tuttora vivi nel popolo francese, benché risulti evidente che la Francia è solo l’incubatoio per un rinnovato assalto al Cristo.
Mai, lo afferma la storia, i Romani fecero guerre di religione, distruggendo intere civiltà e nazioni col pretesto di condurle alla vera e unica fede, alla venerazione coatta di una divinità esclusiva. Ebbero, i Romani, nelle loro conquiste, molte delle umane cupidigie e crudeltà, mai imposero i loro culti. La Provincia di Giudea mantenne a Gerusalemme il suo Tempio, con i suoi sacerdoti e i suoi rituali. E Gesú venne giudicato e condannato da Pilato su richiesta e con il beneplacito finale del Sinedrio, autorità ebraica. Gli Egizi mantennero deità e culti, cosí Frigi e Persiani. Non di rado, con il rito dell’evocatio, i Romani, conquistando una città, si annettevano le divinità locali, facendole entrare a pieno titolo nel loro pantheon. Cosí avvenne con Iside, Osiride, Cibele, Attis, Helios, Mitra. Realismo trascendente, o forse magico. O era il particolare favore che gli dèi accordavano ad anime dotate di grande carisma.
A Marco Vipsanio Agrippa il carisma non mancava di certo. Lo aveva dimostrato, unito a una magistrale e geniale trovata strategica, sbaragliando la mastodontica flotta di Antonio e Cleopatra ad Azio, impacciata per il peso dei navigli. Alle trireme pesanti, Agrippa aveva sostituito agili scialuppe d’abbordaggio, essendo gli occupanti delle stesse manovratori e truppe d’assalto al contempo. Secoli dopo, gli inglesi annientarono l’Invincibile Armada spagnola: ricordando Agrippa a Azio, Francis Drake, corsaro e poi grande ammiraglio della flotta di sua maestà la Regina Vergine, mise in mare navi leggere di armamento e veloci alla manovra, avendo cosí facilmente ragione dei pesanti galeoni muniti di cannoni di grosso calibro e carichi di uomini con armature campali. Con l’espediente della leggerezza e della rapidità di manovra delle navi, Drake regalò a Elisabetta I l’Inghilterra, come secoli prima Marco Agrippa aveva regalato l’Egitto di Cleopatra ad Augusto. Questi, da grande sovrano qual era per gene o per karma, legava la sua fortuna politica alla qualità dei suoi collaboratori: Mecenate, per la parte intellettuale e amministrativa, uno “spin doctor” ante litteram, curante l’immagine politico-culturale del regime, e Marco Agrippa incaricato di quella estetico-monumentale e funzionale dell’Impero, in particolare dell’urbanistica. Ma poiché in ogni romano sonnecchiava uno stratega, all’occorrenza, lasciati calcoli e squadra per costruire un palazzo o un ponte, ecco l’architetto impugnare lo scettro del comando, e farsi comandante di una flotta o di legioni per una battaglia.
Agrippa aveva inoltre l’auctoritas, che non va intesa nel senso letterale che oggi diamo a questo termine: un’autorità venuta dalla casta, dal titolo accademico, dal ruolo sociale e imprenditoriale, quando non arraffata con i giochi della finanza e della politica, o peggio del malaffare. L’autorità di cui godeva Marco Agrippa derivava da quello che Calvino, teocrate fondamentalista, in regime di predestinazione, definiva favor dei, e che Napoleone, ateo utilitarista, attribuiva alla fortuna genetica. Quando gli raccomandavano un giovane ufficiale da inserire nei quadri di comando dell’Armée, il Còrso ascoltava impaziente l’elenco dei meriti didattici e tattici del soggetto e alla fine chiedeva ai postulanti: «Ma è anche fortunato?».
Che Agrippa godesse di una particolare auctoritas dovette capirlo Mecenate, che essendo un lucumone etrusco sapeva di arti magiche e leggeva le aure dei giovani talenti, poeti, scrittori e filosofi, accolti acerbi nel suo circolo, intellettuale all’apparenza ma nell’essenza un vero e proprio vivaio di futuri gestori della societas che Augusto si proponeva di realizzare, riportando in auge, aggiornati ai tempi e alle anime, gli antichi valori della civiltà protoitalica, di cui Roma doveva tornare ad essere degna erede.
Agrippa era, con assoluta evidenza, quello che a Napoli considerano a buon titolo un assistito, uno cioè che, essendo nelle grazie del mondo oltre, sia quello dei santi che dei defunti, riceve un’assistenza che va dal monito morale al consiglio professionale e sentimentale, fino alla rivelazione di combinazioni numeriche un tempo utili per il gioco del lotto, nel vecchio sistema di rara semplicità, soggetto soltanto all’alea della Fortuna, oggi complicato dall’utilizzo di sofisticati computer. Brillante per gene, ricco di famiglia, erudito per studi e frequentazioni sociali ‒ amico prima di Augusto, poi suo genero avendone sposato, con non poche esitazioni, la figlia Giulia ‒ Agrippa poteva permettersi di coltivare due passioni: l’acqua e la pietra, concretizzate nell’edilizia e nelle risorse idriche, per cui Roma e le città dell’Impero godettero di splendidi edifici pubblici, e di piscine e fontane grazie agli acquedotti. A Nîmes, in Gallia, Agrippa ne costruí uno, esemplare per soluzioni ingegneristiche e architettoniche, ancora adesso visibili nella vertigine degli archi a tutto sesto che corredano lo scenario della città francese. A Roma volle costruire un complesso termale proprio nel cuore della città, nei pressi del Campo Marzio. Il luogo era stato scelto, in obbedienza al modo romano di intendere la realtà del mondo in termini pratici e magici, per la comoda ubicazione, al centro della vita pubblica di Roma, e inoltre, motivo non secondario, perché da uno stagno presente nell’area, il Palus Caprae, un acquitrino formato dalla confluenza di due rigagnoli, l’Acqua Sallustiana e l’Amnis Petronia, si era involato in cielo Romolo, divinizzato, scortato dallo stesso dio Marte. Luogo sacro, dunque, carico di implicazioni misteriche. E poiché, già prima che il Cristianesimo facesse la sua comparsa a Roma, miriadi di altri culti, specie orientali ed egizi, movimentavano la vita religiosa dell’Urbe, Marco Agrippa pensò bene di ingraziarsi il genius loci, testimone e nume tutelare di un cosí grande evento, erigendo un tempio dedicato a tutte le religioni e a tutte le divinità. Nel 25 a.C. venne quindi inaugurato il Pantheon, tempio di tutti gli dèi, di tutte le religioni passate, presenti e future. Mossa non solo diplomatica ma rispondente all’atavico sentimento romano di onorare con il culto le varie divinità, a qualunque fede appartenessero, perché, sicuramente dotate di poteri sovrannaturali, avrebbero elargito grazie se degnamente celebrate.
E fu una fede incrollabile nel potere delle divinità che portò Marco Agrippa in zona Collatina alla ricerca dell’acqua leggera, priva cioè di calcio, per alimentare l’acquedotto che avrebbe dovuto rifornire le terme in Campo Marzio: un’acqua priva di calcio non avrebbe intasato le tubazioni, incrostandole come avveniva di norma. Rabdomanti e milites vennero inviati a battere la campagna con sonde e bacchette oscillanti. Agrippa era della partita. Solerte, comandava il drappello, suggeriva i movimenti sul terreno, indicava i punti da sondare. Nulla, la sorgente non si trovava e faceva un gran caldo. Mentre la compagnia su suo ordine si concedeva una sosta all’ombra di un boschetto, Agrippa si spinse da solo verso una piccola radura erbosa, come ispirato da una forza irresistibile. Ed ecco che dal bosco retrostante il pianoro gli venne incontro una giovane donna, poco piú che un’adolescente. Esile e delicata, gli sorrideva. Gli tese la mano senza parlare. Marco la seguí, incapace di opporsi all’invito, preda di un incantesimo. Si inoltrarono nel bosco per un breve tratto. Fino ad un gruppo di pietre affastellate tra l’erba in rigoglio. La fanciulla gli indicò le pietre. Qualcosa scintillò tra di esse, iridando, sciabordando: una polla gorgogliava dal terreno, si espandeva in vene d’argento vivo tra i sassi, formava diramazioni cristalline, debordava cercando vie di scorrimento. Marco si staccò dal contatto, corse verso la fonte, vi immerse la mano, bevve. Mai un’acqua era stata cosí fresca e pura. Si rialzò per ringraziare la fanciulla, di cui si accorgeva di non aver chiesto neppure il nome. Ma l’esile figura si era dileguata nell’intrico di cespugli e rami. Evanescente, leggera, come leggera e delicata al gusto era l’acqua di quella sorgente. Vergine, ecco l’epiteto che gli venne in mente per definire la leggerezza e la purezza di quel dono naturale e della elusiva creatura. Chiamò i compagni e con le pietre formarono una vasca di raccolta, da cui partí la condotta a sifone, poi vennero gli archi a grandi campate che solcarono la campagna per venti chilometri, portando a Roma l’“Acqua Vergine”: via Collatina, Portonaccio, via Tiburtina, l’Aniene, Pietralata, via Nomentana, via Salaria, il Pincio, fino alla torre terminale dell’acquedotto, a ridosso delle Terme e del Pantheon. Nessuno mise in dubbio la natura miracolosa dell’episodio. Anzi si ebbe, grazie ad esso, la conferma che Marco Agrippa fosse favorito e dagli dèi. E certamente la fanciulla che lo aveva condotto alla scoperta della fonte prodigiosa altro non poteva essere che una ninfa. Come Egeria, che aveva intrattenuto con il re Numa rapporti tanto intimi da farle desiderare di essere umana, e che aveva dato al secondo re di Roma tutte le conoscenze magiche e misteriche, facendone un grande Iniziato e un operatore di portenti. Per i Romani gli incontri con fate e ninfe, elfi e satiri erano eventi possibili in natura, come lo erano quelli meno fortunati con demoni e geni ostili. Quando la cortina dell’ultraterreno si apriva, le anime sensibili vedevano gli esseri elementari benèfici; quelle preda di insane pulsioni trovavano gli orrorifici.
Nel tempo attuale l’essere umano, karmicamente calato nel materialismo da cui dovrà per volontà propria risollevarsi, ha sovvertito il suo rapporto con i mondi sovrannaturali. angelici, inferi e del mondo di mezzo della dimensione eterica. Quanto a quella astrale, chi vi si avventura sceglie percorsi ignoti, dai mille imprevisti di estasi e trabocchetti. E il Ramo d’Oro che preserva dalle insidie è raro viatico.
Lo aveva capito Seneca, un intellettuale, un filosofo stoico, uno spirito libero che godeva di una facoltà di pensiero sciolta dai lacci della convenzione e del pregiudizio. Un’anima già toccata per suo conto dal Logos che Paolo andava predicando alle genti. Seneca lo aveva incontrato, si erano scambiati idee e propositi di avviare le anime verso la rivelazione del divino celato nella profondità dell’essere caduco per renderlo immortale nella Luce del Verbo. «La divinità ti sta vicina – scriveva Seneca a Lucilio – è con te, è dentro di te. …In noi dimora uno Spirito divino. …Egli dà consigli nobili ed elevati: in ciascun uomo virtuoso qual dio abiti non si sa, certo abita un dio».
Questo Dio è lo Spirito del Mondo, che l’uomo illuminato non dalla Ragione ma dal pensiero libero dai sensi deve necessariamente scoprire e fare suo, come dice Steiner nella sua autobiografia: «Lo Spirito umano, che sperimenta se stesso nella propria interiorità, incontra lo Spirito del mondo che per l’uomo non è nascosto dietro il mondo sensibile, ma vive e opera in esso. …L’essenza della natura data nella visione sensibile è lo Spirito …in realtà la natura è spirituale». Noi poveri viandanti del divenire angelico portiamo in ogni nostra fibra, in ogni palpito dell’anima e della mente, questa contaminazione divina. Un peso che dovrebbe essere dolce e lieve, ma che a molti pesa, risulta amaro. L’antico peccato d’orgoglio è duro ad estinguersi, ci tormenta. Ma se accettiamo di prendere la mano che Dio ci tende, gesto di perdono e di amore, il Padre ci colmerà dei suoi favori. E troveremo l’acqua del pozzo di Samaria che non disseta soltanto per il momento in cui la beviamo ma per tutta l’eternità.
Ovidio Tufelli