Non ancora. Prima o poi qualche brillante quanto disinibito intellettuale alla moda o un politico di rottura ne proporrà uno. Ne hanno indetti nel tempo di ogni tipo e per ogni scopo, mai quello però sull’esistenza di Dio. Sulla materia in questione ci sono stati autodafé, ordalie, giudizi, processi. Mai però un referendum. Chi scrive declina ogni responsabilità per eventuali sfruttamenti dell’idea.
Certo è che dalla Lemuria in poi, da quando cioè un’Entità avversa, discesa (o salita) da un cosmo altro e oltre, svelò alla coppia primigenia certe ebbrezze che solo un’ampia libertà di pensiero può concedere, non abbiamo fatto altro che procurare dispiaceri a Chi ebbe l’idea di renderci a tal punto fruitori di quella libertà, da mettere in discussione, in molte occasioni, la realtà dell’Essere Supremo.
Nei tempi remoti, ciò avvenne sostituendo la divinità con fenomeni naturali o con oggetti che ne adombrassero le facoltà e l’essenza: idoli, feticci antropomorfi o zoomorfi, come il Vitello d’oro. Nulla ancora però che mettesse in opera la speculazione dialettica, la cosiddetta filosofia del dubbio, che consentisse all’uomo primordiale di attribuire razionalità ai suoi ingenui rapporti con la divinità.
A passare dalle parole ai fatti, a fare cioè del dubbio una scienza sistemica, si occuparono i Greci, Steiner dice per assolvere un alto compito nell’evoluzione dell’uomo, sganciandolo dalla subordinazione al mito e ricavarne un individuo capace di elaborare pensieri volti alla praticità materiale. Ciò non poté avvenire, è ovvio, senza il patire della natura fisiologica umana, incline ad eludere ogni metamorfosi. Un perdurante conflitto. Nato secondo gli storici in Grecia, agli albori del sesto secolo a.C. ma con molta probabilità insito nel gene dell’uomo. La leggenda biblica narra infatti della seduzione luciferica operata sulla prima coppia umana, per indurla a gustare il pomo proibito, affrancandosi cosí dal Creatore e “divenendo simile a Lui”. Prosegue poi con la rivolta di Caino, che ricusando il giudizio divino per il suo crimine fratricida, si volge al fai-da-te industrioso, impadronendosi di risorse materiali e sviluppando conoscenze tecniche e scientifiche. Conseguenza dell’umana disobbedienza è la lunga strada che ancora stiamo percorrendo, prima in discesa, verso l’allontanamento dall’Eden, poi la difficile risalita verso la sua riconquista.
I Greci antichi, con piú o meno fervore, con i dubbi e le riserve piú o meno ricorrenti negli esseri pensanti, credevano nei loro dèi, anche quando ne tracciavano, specie a teatro, profili caratteriali che nulla avevano da invidiare agli umani, preda di passioni e debolezze. Ma era un modo bonario, confidenziale, un ‘tu per tu’ che i Greci hanno trasmesso ai nostri meridionali, che con i santi si prendono certe confidenze. Atteggiamento di tipo pagano non gradito alla Chiesa, per cui, anni fa, un papa giunse a sconsigliare il culto di San Gennaro, in quanto figura di second’ordine nel martirologio cristiano: un santo cioè piú di folklore che di valore. I Napoletani non se n’ebbero a male, abituati come sono da millenni ad incassare i colpi bassi della storia. Anche perché, dovettero pensare, i papi passano, San Gennaro resta. Non soltanto perché fa sciogliere il sangue della sua decapitazione il 19 settembre, ma perché, come tutti i santi veri, fa sciogliere i cuori induriti dei guappi e lenisce quelli dei succubi, rattrappiti dalle paure e dalle frustrazioni che colpiscono le anime.
I Greci antichi credevano dunque nei loro dèi, anche perché il rispetto del culto coincideva con il rispetto delle leggi, significava ordine, simmetria, accordo con la comunità. L’asebeia, oltre che reato di empietà, costituiva, quindi, un crimine contro lo Stato.
Quando, a partire dal nono secolo a.C, l’apoikia, la loro migrazione, colonizzò il Sud dell’Italia, le testimonianze lasciate sul territorio, divenuto poi Magna Grecia, sono visibili a Paestum, a Metaponto, a Segesta, a Selinunte e ad Agrigento, con templi che denotano, nell’arcaicità dello scabro stile dorico, un ordine che, come scrive Onofri in Nuovo Rinascimento, è ancora «d’ispirazione collettiva divina, e agiva dall’esterno degli uomini come anima spirituale dinamica, elaboratrice della loro personalità fisica terrestre mediante azioni in sociali. L’Arte moderna è d’ispirazione personale umana, soggettivamente psicologica, estetica, simbolica. Mentre le leggi tecniche dell’arte antichissima erano uguali per tutti gli artisti, erano dei veri e propri canoni di carattere collettivo, che gli artisti accettavano dagli Iniziati senza discuterli, o quasi, e senza portarne in sé la responsabilità cosciente, se non come in una realtà data dagli dèi, la quale sarebbe stata un sacrilegio, ma soprattutto isterilente, soggettivare o mettere in forse».
Insomma, la religione presso gli antichi popoli in generale e in particolare presso i Greci, non era stata ancora toccata all’inizio del primo millennio a.C., dalla tabe della negazione della divinità e delle leggi morali che da essa derivavano, e alle quali anche i dettami delle autorità statali si conformavano.
Non era ancora scoppiata la rivoluzione culturale che Montanelli, nella sua Storia dei Greci, definisce “rivoluzione filosofica”. Il virus dell’ateismo razionale non fu covato in Grecia, ma venne da fuori. Lo portò un sofista di origine semita, Talete, che a Mileto annunciò il suo verbo: Dio non esiste, non c’è stato un creatore all’origine delle cose e del mondo. L’universo ha avuto la sua origine dall’acqua. Il dado dell’evoluzionismo era tratto: non importava ormai piú stabilire Chi avesse dato avvio alla creazione ma cosa ne fosse la spinta meccanica, la determinante causale. La si ravvisò, per meccanismi varianti da teoria a teoria, nel fuoco, nell’aria e infine negli atomi. Questi, unendosi e separandosi, generavano il tutto, secondo Empedocle per moto d’odio o di amore, quell’Amore «che muove il sole e le altre stelle», come poetò piú tardi Dante, il cui iter di pensiero e di maturazione spirituale nel segno del Pantocratore, risulta certo piú complesso di quello empirico intuitivo del filosofo agrigentino. Il fermento agnostico evoluzionista si diffuse a macchia d’olio in tutta la Grecia, ma finí col condensarsi intorno al sesto secolo a.C. in due scuole sofiste, quella di Abdera, in Tracia, e quella di Elea, sulla costa cilentana, a Nord di Palinuro. Vi primeggiarono nella prima Protagora e poi Democrito, nella seconda Parmenide e Zenone. Non dissero tutto sommato nulla di nuovo e di diverso da quanto enunciato da Talete, e ribadito per i secoli successivi dai vari negazionisti dell’origine divina del creato. Il percorso del loro cogitare, pur partendo dalla stessa stazione e percorrendo la medesima tratta ‒ ammettendo cioè che la materia fosse la sola realtà sperimentabile e affidabile per l’essere umano, l’unica fonte ispiratrice delle sue sensazioni e persino dei pensieri che ne derivavano ‒ viaggiavano su treni diversi. Democrito giunse a dire che anche le facoltà cogitanti erano originate e catalizzate da atomi in perenne fermento. La Scuola di Elea, per bocca di Parmenide, ipotizzò che una scaturigine esterna, inconoscibile, agente da una dimensione iperurania, animasse il processo pensante dell’uomo, che non era, come affermava Protagora di Abdera «la sola misura delle cose che sono e che non sono», ma nella realtà un recettore privilegiato di ispirazioni, suggestioni, immaginazioni ben oltre la sorda realtà materica. Platone parlò poi di Mondo delle Idee, Plotino e Giamblico riconobbero alla mente umana, se giustamente sollecitata, la facoltà di accedere a quel mondo e trarne l’essenza del Sé, la capacità sorgiva dell’Io di elaborare il pensiero sciolto dalle panie del già detto, dai vincoli della materia e dei sensi, per volare, libera Fenice, dalle ceneri della materia nel puro cielo del trascendente.
Le idee, se volte in ideali, rappresentano lo strumento di elezione del fare creativo, come avverte Steiner in Iniziazione: «Ogni idea che non diventa per te un ideale, uccide una forza della tua anima; ogni idea invece che diventa un ideale, crea in te forze vitali». Idealismo e materialismo lottano perciò dalla notte dei tempi, segnando il destino della civiltà umana.
La meccanizzazione è stata in assoluto uno degli strumenti piú efficaci di cui si è servito il materialismo. Via l’aratro per il trattore, il telaio a mano per quello meccanico, il cavallo animale per il cavallo motore, la diligenza per la locomotiva ferroviaria. Il treno irruppe nello scenario della civiltà umana, risparmiando dallo sfruttamento l’animale aggiogato alla stanga, ma creando turbe psichiche nelle anime consapevoli del conflitto mai risolto tra le forze ideali e quelle materiali, queste connotate di una certa valenza infera. La cadenza metallica degli stantuffi, lo sgrigliolío delle ruote sui binari, il fuoco, il vapore, il fumo del carbone combusto, adombravano il segno di umori tellurici.
Il treno venne addirittura demonizzato, e non per mano di talenti qualunque. Un poeta avviato a conquistare il Nobel di lí a qualche anno, Giosuè Carducci, cosí immaginò nel suo “Inno a Satana”, in Levia Gravia del settembre 1863, lo sferragliare del mostro sbuffante che aveva iniziato a percorrere le contrade italiane violandone, secondo la drammatica visione del poeta, la pace bucolica e la classica armonia: «Un bello e orribile / mostro si sferra, / corre gli oceani, / corre la terra: / corrusco e fumido / come i vulcani, / i monti supera, / divora i piani, / sorvola i baratri; / poi si nasconde / per antri incogniti / per vie profonde, /ed esce; e indomito / di lido in lido /come di turbine / manda il suo grido. / Come di turbine / l’alito spande: /ei passa, o popoli, / Satana il grande».
Nonostante le jatture e gli scongiuri, e a dispetto delle invettive di un vate anarchico, il treno si impose come mezzo privilegiato di trasporto, e cosí fu anche per l’Orient Express. Con alterne fortune: il servizio nella sua configurazione originale operò fino al 19 maggio 1977, quando da Parigi partí l’ultimo convoglio diretto a Istanbul.
Poi il treno ha passato all’automobile il testimone di veicolo satanico, conservando per la sua reputazione di mezzo di trasporto infernale solo alcune tratte, come la Roma-Lido, la Roma-Viterbo, la Roma-Pescara, la Circumvesuviana di Napoli, la Torino-Savona, la Milano-Como, la Pisa-Firenze, e per finire la Bari-Barletta, dove il 12 luglio scorso lo scontro frontale tra due convogli di pendolari tra Andria e Corato ha provocato 23 morti e 50 feriti gravi. Ma piú grave ancora è stata la certezza che la vita di chi viaggia su ferro corre gli stessi incerti di chi scala la Nord dell’Eiger in solitaria a gennaio.
Non basterebbe oggi neppure il vate di Pianto Antico per descrivere quello che passano i dannati del pendolarismo sulle linee summenzionate e su altre di piú prestigiosa frequentazione, che l’incuria, la distrazione e l’accidia possono rendere al caso altrettanto pericolose. Il Carducci potrebbe semmai descrivere l’ingorgo, uno dei tanti ma tra i piú suggestivi, che si verifica, a scadenze inesorabili, sul cosiddetto Passante di Mestre, al punto che sono state confezionate delle T-shirt che attestano il “c’ero anch’io”, con un logo e la data dell’evento, quale trofeo da safari a quattro ruote.
Naturalmente questi e altri incerti del viaggiare non hanno scoraggiato neppure in questa estate che volge al termine i forzati delle vacanze. Tolte le esigue schiere che hanno scelto l’aereo, e quelle un po’ piú numerose che hanno preso uno di quei treni da vuoto pneumatico che sfrecciano sussiegosi per il nostro territorio, in punti ancora solcato da trazzere con carretti e somari, la maggioranza dei vacanzieri ha optato per l’automobile. Ce l’hai sotto casa, anzi per molti è una casa, ci puoi fumare, cantare e parlare male del capo ufficio, del capo del governo, dell’ultimo capolavoro cinematografico che tale non è. Milioni di automobili hanno sciamato per le strade e le autostrade d’Italia e dintorni per esorcizzare certe previsioni che vedono, come scritto da un assai quotato economista sulla prima pagina di un quotidiano nazionale «un autunno particolarmente difficile per l’effetto congiunto di due debolezze: quella di una ripresa produttiva che non si consolida e quella di una situazione politica che diviene piú confusa nella prospettiva di un referendum istituzionale dall’esito incerto».
Ci siamo: stiamo appena smaltendo il trauma del referendum per la Brexit, ed ecco inculcarci l’angoscia per quello di ottobre. Da una delusione a un’illusione, facce della stessa medaglia: abbiamo fatto un pasticcio della nostra civiltà e non sappiamo come rimediare. Eppure, le folle che hanno sciamato per ogni dove, in questa estate che volge al suo termine, hanno ricevuto ovunque l’impressione che sia invece riuscita l’altra rivoluzione promossa dai Greci antichi insieme a quella del libero pensiero impegnato nelle varie scuole e accademie a negare gli dèi: la sconfitta dei poteri assoluti ad opera della democrazia. Le oligarchie, i governi forti, le monarchie, le satrapie, le aristocrazie, le tirannie, messe fuori gioco dalla democrazia, che Platone configurava espressa nella “Repubblica”, ossia il potere dato in mano a un ristretto gruppo di personaggi incaricati dal popolo a governare secondo leggi dell’etica ideale. Ebbene, girando per le contrade d’Europa, i vacanzieri, rappresentanti il popolo sovrano, hanno visitato, non senza frollarsi di rabbia in lunghe file sotto il sole, o bagnati dalla pioggia, o fustigati dal vento, dimore avite, palazzi regali, residenze fiabesche, un tempo animate dalla vita cortese, dalle feste e dai conviti, magari dagli intrighi e dalle congiure, ma ovunque e sempre luoghi di riferimento del potere supremo di chi li possedeva.
Oggi quegli edifici, vuoti di tanto sfarzo, ospitano musei, manifestazioni artistiche e culturali, oppure sono stati occupati, veri gusci di conchiglia vuoti, dai paguri della nuova potestà amministrativa e politica. Ai re e alle regine con la corona si avvicendano, nella gestione democratica del potere spacciato per relativo, ma che piú assoluto non si può, uomini e donne la cui etica è quella spregiudicata del carpe diem edonistico, del “dopo di me il diluvio” della politica d’assalto, del mors tua vita mea della Borsa, della speculazione finanziaria.
Ma a ben sondare, tutto ciò non riguarda il conflitto tra popolo e aristocrazia, tra libertà e tirannia, tra il palazzo e la gleba, tra avere e non avere. Se osservassimo le cose e le persone con gli occhiali della libera veggenza, ebbene vedremmo all’opera gli Ostacolatori che, ognuno a suo modo, operano per impedire la giusta evoluzione della creatura umana, designata a divenire la decima Gerarchia angelica.
Per ottenere questo, ogni mezzo è buono, ogni strategia è consentita, anche quella di creare imbarazzo, lasciando cadere per caso la giarrettiera a una nobildonna durante un ballo alla corte d’Inghilterra. L’episodio è ripreso sullo stemma reale inglese dove la frase “Dieu et mon droit” viene contrastata da quella “Honi soit qui mal y pense”. La nobildonna era la contessa di Salisbury, e chi raccolse la giarrettiera fu nientemeno che sua maestà il re Eduardo III in persona. Il sovrano, per troncare ogni possibile maldicenza o sospetto circa i suoi rapporti con la signora, intimò di minimizzare l’accaduto, con la velata minaccia “Sia vituperato chi ne pensa male”. Motto espresso in francese, dato che alla corte inglese si parlava a quell’epoca la lingua di Guglielmo il Conquistatore, normanno, cui si deve la costituzione della monarchia britannica, dopo che, sbarcato in forze dal continente nel 1066, a Hastings, sbaragliò la coalizione di lord inglesi capeggiata da Arnold II, impadronendosi del paese e del trono. Elisabetta, per via dinastica, è una sua discendente.
Quella di mettere lo zampino impertinente in un contesto solenne è tipico del Maligno. Dio non può convivere con una giarrettiera senza perderne in autorità e sacralità. E un monarca non può convivere a lungo con simili compromessi, a meno che non faccia di quei compromessi un canone morale istituzionale.
Idealismo e pragmatismo, materia e Spirito possono convivere se sono consapevoli della stazione finale cui sono diretti, che è convergenza di linee separate, punto focale di percorsi animici diversamente sviluppati. Elisabetta è stata in definitiva la vittima illustre della Brexit. Sollecitata dai media a intervenire pubblicamente per chiarire ai sudditi la sua posizione in merito, essendo sovrana e pontefice del suo regno, quindi al di sopra delle parti, se n’è uscita con una profezia, essendo la veggenza una facoltà superstite delle tante in dote ai re d’antan, come le virtú taumaturgiche e profetiche. La sovrana prevede «l’arrivo di una tempesta tanto violenta, che l’Inghilterra non ne ha mai viste di eguali».
Ma si sa che le profezie hanno perimetri indefinibili. Non certo limitate ai garbati dissidi del Regno Unito e alle piú rissose baruffe del condominio UE. A ribadire l’inutilità del referendum, di affidare cioè a un’opzione plebiscitaria le sorti del continente, sarebbe stato semmai piú adatto l’adagio inglese “The singer and non the song”, ossia è il cantante e non la canzone che conta, e perciò, qualunque pandetta giuridica, per quanto illuminata, non può prescindere dalla buona volontà e dall’onestà di chi interpreta il dettato costituzionale senza pregiudizi di sorta e interessi di parte. Non sarà perciò la scheda che infileremo nel bussolotto a salvare il mondo ma la certezza che la virtú conviene, quale che sia la realtà in cui il destino ci porta a vivere.
Tra i monumenti piú visitati in Europa, due in particolare simboleggiano rispettivamente il materialismo estremo cui può giungere la tecnica e l’idealismo del mito e della poesia: la Torre Eiffel, inaugurata a Parigi nel 1889, e il Castello di Neuschwanstein, voluto dal folle re di Baviera Ludwig II. Iniziato nel 1848, mentre infuriavano in tutta Europa le rivolte popolari costituzionaliste, il fiabesco maniero venne ideato dal bel tenebroso Ludwig e destinato a preservare l’universo mitico leggendario dei popoli germanici in particolare, ma voleva essere anche un’arca per i valori delle genti europee minacciate dai nuovi iconoclasti dell’arte e della religione, intese entrambe come aneliti sorgivi dei popoli interessati al mistero e al trascendente. Una torre sfidante il Cielo, orgoglio antico, un maniero erto nel suo candore di favola tra le foreste inviolate della Germania. Wagner vi si aggirava traendo sonorità ora tonanti ora sublimi per il suo “Oro del Reno”, infine per il mito di Lohengrin e la leggenda cristica di Parsifal. Mime con il ferro e con l’oro anela al suo riscatto dalla deformità fisica. Amfortas, malato per condanna nel corpo, si consuma nell’ideale del perdono divino.
L’unico referendum proponibile è quello di abolire i referendum. Quando un popolo vi ricorre con una certa regolarità, vuol dire che le istituzioni agiscono senza certezze operative, distratte da troppi compromessi con i partiti, le lobby, le caste. Il referendum non ha date stabilite, ma è tutti i giorni della nostra rapsodica esistenza, nel banale tran tran della vita di pendolari, dalla nascita alla morte. Ci votiamo da soli, e da soli ci valutiamo, condanniamo o assolviamo. È un referendum all’aperto, il seggio elettorale a tutto cielo, la cabina un cerchio magico sulla nuda terra, come il templum dei maghi sabini. Una cabina dove, per dirla con Don Camillo: «Solo Dio ti vede, Renzi no».
In fondo, il materialista Protagora di Abdera era un idealista senza saperlo, quando, affermando che l‘uomo è la misura di tutte le cose, riconosceva alla creatura umana la nobile facoltà dell’essere. Tutto avviene quindi per mezzo dell’uomo, chiave di volta dell’esperimento delle Gerarchie, che in un alter ego della divinità hanno inserito il complesso organo dell’anima.
In Anima umana e anima animale, conferenza tenuta a Berlino il 10 novembre 1910, Steiner affermò: «Se parliamo di anima dal punto di vista della scienza dello Spirito, come deve avvenire qui, al concetto di anima è sempre collegato il concetto di interiorità, di esperienza interiore. Quando invece parliamo di Spirito con riferimento al mondo che ci circonda, siamo consapevoli che è una manifestazione dello Spirito tutto quanto ci appare, ci viene incontro. È già stato ricordato piú volte che l’uomo verrebbe a trovarsi in una singolare contraddizione con se stesso se non presupponesse lo Spirito in tutte le manifestazioni dell’esistenza che lo circondano. In realtà solo ammettendo che in fondo ciò che troviamo nel nostro relativo al mondo esterno, che le idee e i concetti che facciamo nostri per comprendere il mondo esterno, abbiano a che fare con le realtà stesse, possiamo raggiungere una conoscenza del mondo che ci circonda senza cadere in una contraddizione con noi stessi».
Ecco allora nelle mani dell’uomo l’ultimo testimone della corsa della civiltà, percorso tormentato da mille e piú inciampi degli Ostacolatori, dalla Lemuria in poi: la fiaccola della Verità eterna e immutabile, quella che muove il sole e le altre stelle, ma soprattutto che muove il cuore dell’uomo destinato ad accendere la fiamma del grande evento cosmico: la materia e lo Spirito finalmente uniti a combattere il Nulla, il ‘non essere’ che, oggi piú che mai, insidia la vita dell’uomo, la sua divinità.
Leonida I. Elliot