L’estate fu l’ipòstilo santuario
di boschi e campi, resinati incensi,
inno solenne il vento tra le foglie,
oltre le chiome fiaccole di stelle.
Devote trenodíe negli ambulacri
freschi di verde e pampini, filari
dispensanti le dolci eucarestie
di grappoli. Fu tempo di delizie.
Con l’ecatombe delle mietiture
lame di crudo acciaio separavano
le spighe dagli steli, poi un congegno
inclemente spogliava della scorza
la pannocchia. Fu tempo di olocausti.
Vittime vegetali per nutrire
le deità dell’aria, il loro verso
di ramo in ramo, flautate sillabe,
muto sentire che si fa linguaggio,
sorda materia che si trasfigura.
Su tutto poi calò l’ombra che insidia
il germe del vivente e lo saccheggia.
Cosí, riarse, scompigliate, in fuga
nei coltivi trebbiati s’incolonnano
ora file di rocchi, di covoni,
ma dalle reste prodigioso emerge
superstite un papavero vermiglio.
Un’antica promessa ci conforta:
dalle stoppie, dai solchi depredati
di zolla in zolla tornerà la vita,
fronde acerbe sui tronchi, voli e nidi,
e voci e suoni, e splendide armonie.
Finché dal buio sorgerà la luce
e il silenzio darà parola e canto.
Fulvio Di Lieto