Vi sono due modi per formulare il concetto “cosí va bene”; da questi scendono per via naturale due divergenti forme d’espressione talmente diverse da contrapporsi. La prima è energica, tutta entusiasmo e positività; si esclama a voce alta, anche battendo il pugno sul tavolo, senza esagerazione, ma solo per sottolineare l’impeto dell’affermazione: «Cosí va bene»; l’accento si carica tutto sulla prima parola e non lascia spazio a varianti interpretative. L’altra, invece, rappresenta la situazione opposta; si usa, cambiando l’ordine delle parole: «Va bene cosí». Di solito si esprime in un risicato mormorío, che denuncia la riluttanza agli eventi, sospesa a metà tra il rassegnato e il malsofferto; lo sguardo resta basso e le braccia abbandonate lungo i fianchi s’allargano di quel poco che basta a far capire che se anche le cose non sono quelle desiderate, pazienza, ci si arrangerà con quel che passa il convento.
Quante volte nella vita, ci siamo detti frasi come queste? Ce le siamo pronunciate dentro di noi? Quante nel primo modo e quante nel secondo? Far buon viso a cattivo gioco potrebbe essere una virtú. Se non avessimo mai, neppure per una volta, conosciuto il momento del vero entusiasmo; non saremmo in grado di fare le comparazioni e quindi il dissapore della delusione, o della disillusione (che non sono proprio la stessa cosa) non ci toccherebbe piú di tanto.
Ma se un giorno, per caso, hai ascoltato il momento della Turandot in cui Pavarotti canta “…all’alba vincerò!!!” e te lo sei macinato dentro fino ad esplodere, come avrà senz’altro fatto Puccini nel comporlo, allora cominci a capire, forse, che non tutto nella tua vita è andato per il verso giusto, e che, lacuna dopo lacuna, sei arrivato ora al capolinea con il sacco vuo-to e le scarpe sfondate.
Tuttavia, dicono i saggi, non esiste male che non abbia il suo rimedio. Se vogliamo trasformare il “Va bene cosí” in “Cosí va bene ” si può, oggi piú che mai, tentare la carta del pensiero.
Purché prima si parli di questo pensiero, si acquisisca una conoscenza elementare di cosa esso sia, cosa voglia da noi, da dove provenga, e perché sia sempre disponibile al punto che la sua presenza, talmente attenta e silenziosa, resta quasi nascosta ai sensi ordinari. Il che ci porta difilato ad usare un avverbio che verrà qui di seguito ripetuto molte volte.
Siamo capaci di pensare seriamente alle cose che ci toccano da vicino? A quelle che sembrano magari lontane, ma che ci coinvolgono ogni giorno di piú? Siamo in grado di individuare seriamente soluzioni stabili e durature? Si può pensare seriamente alle questioni della vita politica? Ad uno stato di democrazia reale? Alla possibilità di una vera rappresentanza parlamentare? Si può pensare fino in fondo a come un governo debba governare, stante l’astenia dell’elettorato, la fatiscenza delle istituzioni e le crisi congiunturali?
Ci sentiamo seriamente preparati al compito di trovare risposte pratiche, concrete e affidabili per quanto concerne la cultura, il lavoro, la sanità, la giustizia, e l’istruzione? (se manca qualcosa, vi prego di aggiungerla).
Abbiamo la possibilità di chiarire seriamente in noi l’agitata, confusa interiorità, sempre pronta a farsi ingannare da futili chimere, salvo poi inveire come ossessi al giungere puntuale dell’ovvia delusione?
Siamo in grado di prendere in mano il senso stesso del nostro esser qui presenti in carne ed ossa su questa terra, ripensarlo seriamente, e predisporci in modo adeguato ad una convivenza con gli altri (tutti gli altri, nessuno escluso) seriamente fondata su pace e fratellanza?
Ciò premesso, la sfilza di interrogativi, stringi stringi, si riassume in una sola domanda: “Siamo in grado di pensare seriamente?”.
Il problema del mondo è il problema dell’anima; la sua soluzione sta tutta nella tonalità usata per svelarcelo e farla risuonare con forte intima volizione: seriamente.
Molti a questo punto sorrideranno, convinti che il sottoscritto abbia scoperto l’acqua calda e provi la segreta soddisfazione di chi si crede arrivato primo al traguardo. Eppure abbiamo sotto gli occhi, relativa a tempi e fatti recenti, una prova ben evidente a conferma della teoria sulla poca o nessuna serietà del livello di pensiero, regolarmente usato, non da uomini qualsiasi (che sarebbe tutto sommato comprensibile se non scusabile) ma da coloro che sono addetti alla guida delle piú grandi ed evolute potenze del mondo; livello che risulta disastrosamente basso e pure adoperato in maniera incomprensibilmente sfacciata da coloro che sono stati eletti attraverso dure e severe selezioni, non solo da anonimi elettorati di base, ma sostenuti nella fase d’ascesa dalle menti migliori e maggiormente acute di autentici Vip, dalla élite degli addetti ai lavori d’ogni settore, bandiera e colore (ovviamente gli aggettivi magnificativi si riferiscono a quella che è la realtà dei tempi correnti).
Per farla breve, questa intellighenzia sans frontière, riunitasi in numerosi summit internazionali, vorticanti di brainstorming, ovvero i top di rarefatta dinamica cerebrale, capaci di produrre pensieri determinanti per le sorti del mondo, hanno deciso che la migliore delle soluzioni possibili, atta a risolvere il dramma siriano di Aleppo e dintorni, è quella di porre una tregua settimanale di 48 ore tra le forze contendenti! Ogni settimana quindi, mettiamo, per esempio, il lunedí mattina verso le 8.30, i bombardamenti dovranno essere sospesi e fino alle ore 8.30 del mercoledí successivo, la gente dei luoghi potrà riposare, andare a spasso, risistemare la casa, o fare la spesa, dar da mangiare ai polli, portare il cane a fare la pipí, o magari, volendo, alla sera, se non si sono stancati troppo, potranno andare al cinema o a teatro.
Questo sarebbe l’esempio di un pensiero seriamente pensato dall’élite internazionale. Ma evidentemente qualche profetico-consigliori (ognuno dei potentati ne mantiene uno stuolo a spese dei contribuenti) deve aver spiegato loro che un’idea del genere potrebbe (!) lasciare scoperto il fianco a critiche di molti sfaccendati, nascosti tra le pieghe delle popolazioni, sempre pronti a intervenire a gamba tesa, tanto per il gusto di procurar danno. Per non parlare poi della stampa, dei network e altri organi di diffusione, ove torme di pennivendoli assatanati sono in perenne agguato per sgambettare i sedicenti mega condottieri, piú o meno eletti, dell’umanità.
Risultato: la tregua è stata allungata ad una settimana al mese. A questo punto, tutti, compreso Jimmy il Fenomeno, hanno capito almeno due cose: primo, qualunque sia la durata stabilita dai vertici, sul campo la tregua non verrà rispettata; e, secondo, viviamo in tempi in cui il Male si concede una serietà operativa che il Bene è ancora lontano dallo scoprire.
Nell’esprimere queste mie opinioni, come pensatore freelance, qualcuno mi ha rinfacciato d’aver scelto un tema scabroso e intricato (situazione della Siria) dove nessuno può oggi metterci mano, in quanto le concause che l’hanno provocato sono di una “complessità aggrovigliata” indipanabile.
Altri ancora mi hanno fatto capire a chiare lettere che di fronte ad un massacro crudele che si perpetra giorno dopo giorno, anche una sola ora di tregua potrebbe costituire un linimento, un balsamo per le sofferenze inferte alla popolazione civile.
Va bene, mi pare giusto; allora cambio registro, sempre ricordando che il mio argomento riguarda il livello del pensiero usato (secondo me molto poco seriamente) da personalità affermatesi per cervelloni patentati, ritenuti, o proclamatisi, in grado di gestire le disparate, spesso disperate, emergenze geopolitiche del globo.
Per quel che riguarda la seconda obiezione, concordo anch’io che un’infreddatura è migliore di una polmonite; ma cosí ragionando giochiamo al ribasso; una tregua, ancorché lunga e (supponiamo per eccesso di ottimismo ) garantita da forze super partes, non è né pace, né equilibrio né armonia. Nessuno dei signori che la propongono manderà i propri figli in vacanza nei paesi infiammati dalla guerra, approfittando dei low cost dovuti alle tregue.
Per quanto invece attiene alla prima affermazione contestata, veniamo alla competizione dei due nominati leader statunitensi nella loro corsa verso la Casa Bianca; le frasi e gli epiteti piú o meno evidenti che si stanno scambiando lungo la disfida, credo indichino di per sé l’impressionante, preoccupante caduta di livello e di stile con cui osano presentare se stessi quali candidati alla guida di un paese che vorrebbe essere il primo della classe tra i popoli della terra.
Sarebbe questo un ulteriore esempio del “pensare seriamente”?
Ho mirato ancora troppo alto? Allora passiamo ai confronti tra i politicanti di casa nostra (piú in basso di cosí è difficile) e osserviamo con attenzione il grado di saper esporre con semplice chiarezza le proprie opinioni e di ascoltare in silenzio quelle altrui; possiamo dire seriamente che i contendenti chiamati nei vari talk show, dibattiti pubblici e annessi, dimostrino una minima preparazione in fatto di educazione, signorilità e savoir-faire che eravamo abituati ad attribuire a esponenti d’alto lignaggio culturale e morale?
Rappresentano l’estrinsecazione di un pensare seriamente, virtualmente umano, o non piuttosto uno scontro tra bande di scimmie isteriche e battagliere che si disputano cibo e territorio a morsi e sassate?
Altra chicca, frutto amaro d’un pensare poco serio, è la contrarietà suscitata e la critica insorta contro il rifiuto della nuova amministrazione comunale romana a candidare la città per i Giochi Olimpici del 2024; capisco la brama popolare dei giochi circensi, con i quali si è sempre tentato di depistare la pubblica opinione da fatti reali, e che permette ai soliti ignoti di rimpinguare i loro conti allocati nei giusti forzieri, il piú possibile lontano dalle patrie frontiere, ma non mi si può togliere dalla testa che un voler pensare seriamente ai bisogni della capitale deve mettere in prima linea la pulizia della città, il mantenimento delle strade e il funzionamento dei trasporti. Se avanti ad ogni altra cosa non venissero rimessi in carreggiata questi fondamentali requisiti, oltretutto indici di una recuperata dignità urbana e civile, nessuno dovrebbe avere la sfrontatezza di abbellirsi e pavoneggiarsi con il mito di vantaggiose opportunità e sogni di gloria appartenenti ad un ipotetico futuro.
“Non vanno fermate le grandi opere, vanno fermati i ladri”: tale lo slogan, sbandierato con un entusiasmo piú preoccupante che goliardico, in questi ultimi giorni, di fronte al quale è impossibile dissentire. È verissimo: i ladri devono essere fermati. Non solo. Ma devono anche essere arrestati, processati e puniti secondo le leggi in vigore.
C’è tuttavia una piccola formalità da chiarire: i ladri devono, prima di tutto, essere scoperti, stanati, pizzicati sul fatto, presi con le mani nel sacco, individuati e isolati; tenuto conto che per allestire una Olimpiade ci vogliono alcuni anni, chi pensa seriamente di ridurre all’impotenza criminali, malfattori, sabotatori, corrotti, collusi, imboscati, vessatori, ricattati, quinte colonne e mangiapane a tradimento, dovrà mettere in conto decine e decine di anni di indagini, di raccolta d’indizi, di processi, uno stato di polizia con poteri triplicati rispetto ad oggi e una magistratura, imparziale e apolitica, in grado di funzionare in tempi ragionevoli. Questa sarebbe davvero la Grande Opera.
E comunque, anche cosí, non mi sentirei di garantire il buon esito.
Organizzare un’Olimpiade non rende onesti gli uomini che ricevono l’incarico; noi vogliamo invece che solo a uomini onesti venga affidato l’incarico di organizzare un’Olimpiade.
Purtroppo, pensare seriamente è molto diverso dal formulare giochini con il pensiero.
Ma dopo aver dato un po’ di sfogo alla mia pars destruens, è giusto rientrare sul percorso nobile e dare voce a quella che dovrebbe essere la pars costruens.
In altre parole, sono io in grado di pensare seriamente? Se mi affido a quei pochi minuti del giorno in cui mi dedico agli esercizi della concentrazione o della meditazione, potrei anche, con una certa cautela, dire di sí; ma per la restante parte delle mie ore non ne sono molto convinto.
Tuttavia la concentrazione e la meditazione, cosí come impartite dalle direttive della Scienza dello Spirito, voluta da Rudolf Steiner e illustrate in seguito da Massimo Scaligero, con una limpidezza ed una metodicità che hanno caratterizzato l’arco intero della sua vita, hanno dato un loro primo risultato, secondo me, molto importante, che è quello, in parole povere, di smettere di raccontarsela.
Gli esercizi dell’anima orientati verso una corretta ascesi spirituale portano come dono iniziale il fatto di uscire dalla fase dell’autoinganno, di non imbrogliare se stessi mediante convincimenti menzogneri fatti su misura, e di non illudersi sul proprio status di retrività tipico degli esseri umani. Almeno questa è la mia esperienza, che non chiede condivisione ma soltanto una certa capacità di tensione introspettiva.
Maturata nei tempi che richiede, tale situazione senza affanni, senza angosce, ma con una decisionalità volitiva non provata in precedenza, porta a interrogarsi: nei momenti in cui credo, sento, o so di pensare seriamente, cosa avviene in me?
È una gran bella domanda, perché per avere una risposta reale, essa dovrebbe uscire dalla dialettica con la quale è stata formulata; e per riferirsi la formulazione a quei momenti speciali presupposti indialettici, non potrebbe soddisfare se non in virtú di un riscontro altrettanto indialettico.
La qual cosa, in un’ottica strettamente ordinaria, sarebbe dunque inconcepibile.
Ma se abbiamo nominato Rudolf Steiner, e accanto al suo nome abbiamo voluto aggiungere quello di Massimo Scaligero, è proprio perché noi vogliamo e dobbiamo cominciare a parlare di questo inconcepibile, come fosse un argomento nuovo di piena attualità, fortissimamente utile all’uomo di oggi, quindi necessario. Ogni concepibile infatti essendo stato fin qui dialettizzato, frantumato, cincischiato e annientato nella sua virtuale verità. La quale, al massimo, in relazione alle anime di questo tempo, può scegliere se rimanere viva ma trascendente, e perciò astratta, o diventare immanente lasciandosi coinvolgere nel processo dialettico, ovvero nel precipitato cadaverico della materia privata d’originaria vita.
Resta dunque l’Inconcepibile. Ad esso, se questo pensiero è pensato seriamente, sarà necessario rivolgersi.
Appare come inconcepibile in quanto rammenta gli enigmi della quadratura del cerchio o del moto perpetuo: si tratta in tutti i casi di trovare in noi la parte che sveli la natura sovrasensibile dell’anima nel momento in cui tale parte si coniuga con l’elemento biologico spento, e, morente nell’amplesso, ne penetra l’inerte sterilità, infondendogli il principio della vita.
È il mistero della nascita, d’ogni nascita; dell’origine di tutto, e, per contro, anche il senso d’ogni finire fisico-sensibile. Mistero che si racchiude nella sua imperscrutabile essenzialità. Ma è altrettanto essenziale capire che la capacità d’inverarsi di un pensiero (qualunque pensiero, anche il piú sordido e banale) di trasformarsi in suono, e articolandosi nelle strutture vocali diventare alla fine parola, frase, discorso, contempla un processo analogo, corrispondente al segreto mediante il quale il metafisico si fa fisico per tornare, dopo il suo percorso terrestre, allo stato sovrasensibile.
Tutto ciò potrebbe rappresentare un primo inconcepibile, al cospetto del quale, la domanda “si può pensare seriamente?” non stimola alcun tipo di reazione, in quanto – non occorrerebbe nemmeno evidenziarlo – o il tema in questione viene pensato seriamente oppure non esiste proprio. Ma ce ne sono comunque altri e non certo di minore importanza. Ormai l’Inconcepibile bussa alle nostre porte.
Un vecchio detto, credo provenga dalle terre del Medio Oriente, recita piú o meno cosí: «Io contro mio fratello; io e mio fratello contro la famiglia; io, mio fratello e la famiglia contro la tribú; io, mio fratello, la famiglia e la tribú contro le altre tribú….» e via dicendo; si può allungare a piacere.
Ricavato? Esiste una concezione estesa, diffusa anche oltre il Medio Oriente, nella quale si mettono in risalto esclusivamente gli elementi di frazione, di separazione, di contrapposizione e li si proietta all’infinito, di modo che l’umano essere diventa un disumano esistere ed ogni cosa della vita deve convergere sottomettendosi a tale capestro.
Qualcuno che ritenga esagerata e pessimistica la panoramica, deve fare i conti con i notiziari. E chi non vuole credere ai notiziari può andare a verificare di persona. Constaterà che la situazione sopradescritta è già in atto, e procede sviluppandosi con baldanzosa virulenza. Forse, ma il fatto non cambia molto, al posto delle “tribú” troverà eserciti, contingenti armati, fazioni in lotta, partiti, società segrete (ma anche decodificate), banche, istituzioni, circoli e sindacati. Per le parrocchie si sta lavorando.
Cosa sto cercando di dire? Che ognuno di noi dà per scontato d’essere un singolo e che l’esistere altro non è che un scontro personale del singolo con il resto del mondo. Non so chi sia l’arbitro, ma provo un certo imbarazzo a pensarlo.
Grazie al cielo, l’Inconcepibile mi viene incontro, e simile al maestro saggio e benevolo dei vecchi tempi, pieno di comprensione per le mie fisime, confesse o no, cancella dalla lavagna l’iniqua costruzione di ragionamenti congetturata fin qui.
Non esistono conflitti, non esistono scontri, divergenze, lotte e rivolte di uomini contro altri uomini.
O meglio, esistono sí, ma solo se si continua a credere che ciascun individuo sia unitario a se stesso, il cosí detto “tutto d’un pezzo” che in parecchie circostanze ci è caro ripetere; mentre invece se si riguarda con attenzione, si vede senza eccessiva difficoltà che ciascun uomo è dibattuto, divergente, dicotomizzato, se non letteralmente dilaniato, tra esigenze dell’anima e necessità del corpo, tra istintività cieche e passionalismi romantico-idealistici, tra le spinte di forza centrifuga e quelle di forza centripeta; per farla breve tra Spirito e materia, di cui egli dovrebbe essere ‒ ove se ne accorga ‒ il trait d’union per eccellenza.
V’è un equivoco di fondo, poco o punto rivelato; o rivelato per vie astratto-dialettiche, ossia nel modo in cui di qualunque verità si tratti, diventa inutile realizzarla, poiché, realizzata, sarebbe comunque tutt’altra cosa del suo archetipo. Non si può pretendere che la luce continui ad illuminare dopo averla spenta e ridotta a tenebre.
Per questa serie di motivi la cui scoperta è alla portata di chiunque, smettere di giocare con il teatrino interiore, proiettandolo fuori di noi tanto per crearsi un alibi e potersi dire puntualmente, ad ogni circostanza costrittiva, “io non c’entro” (l’operazione credo possa rientrare nel significato di pensare seriamente), è la conditio sine qua non per riprendere l’argomento della conflittualità apparentemente esteriore e osservarlo, stavolta, in controluce.
È vero che esiste – ed esiste da sempre – un conflitto iniziale, ma non riguarda nessun altro essere vivente al di fuori di me. Io sono il primo ad essere in dissidio con me stesso. E non perché sia particolarmente nevropatico, o perché ho avuto un’infanzia infelice, o una mamma severa, o una vita irta di contrasti spinosi e prevaricanti, bensí per il fatto che sono un uomo e come tale non potevo essere diverso da quel che sono.
Le guerre attuate con armi e denaro, fomentate da poteri e passioni, rese incandescenti da ideologismi e opinioni, condotte sotto l’egida di camaleontiche coperture, una piú sbugiardabile dell’altra, non nascono tuttavia dal dissidio della singola anima, ma piuttosto dall’ignoranza tenace e caparbia con la quale essa si nasconde questa lotta intestina e si ostina a non volersela rivelare. Continua a “sentirsi” giusta, sana, fondata nel bene; e dato ciò per assioma, il male non può essere che fuori; nell’altro, negli altri.
A questo porta il non sapere, non potere, non volere pensare seriamente.
Se non solo accetto, ma anche accolgo, abbracciandola nella sua totalità, l’idea d’esser stato uno spirito disincarnato, il quale ad un certo punto dell’evoluzione ha deciso d’incarnarsi e venire ad abitare sulla terra, per arricchire attraverso l’esperienza sensibile e l’assoggettamento alle forze telluriche (nessuna esclusa) il patrimonio spirituale del creato, il minimo che mi posso aspettare è che il mio progetto verrà contrastato in tutti i modi possibili e immaginabili ( nonché pure con quelli impossibili e inimmaginabili) e che la mia discesa nel terrestre scatenerà le potenze avverse, che si produrranno al meglio per depistare il compito, o farmi dimenticare la missione, o addirittura darmi l’opportunità di esibirmi in una bella conversione di 180 gradi sulle mie decisioni, e schierarmi con loro contro il mandato iniziale.
È inutile star lí a inorridire, brava gente! Sono cose che capitano! Capitano ogni ora e ogni giorno e continuiamo a fissarle imbambolati, senza far niente. Soprattutto senza capire il senso di quel che sta succedendo.
Per cui le guerre, gli eccidi, il sangue e i morti, che avvengono nelle piú svariate concomitanze, e delle quali quotidianamente gli addetti al lavoro non mancano di fornirci ampia notizia, non appartengono alla specie umana, ma a quelle parti involute, imbestialite e abbrutite dei singoli che, a turno, credendosi ora valorosi Pilato ora eroici Barabba, se le danno di (poco) santa ragione, rinfacciandosi l’esser stati causa di un’antica sentenza, mai digerita.
Il problema è che il numero di tali singoli sta crescendo a dismisura.
Lo scontro a fuoco tra l’Io e l’ego è dunque un fatto collettivo? Sí, ma solo per la teoria degli insiemi. Realisticamente, ciascuno di noi lo porta dentro di sé come impronta personale; vive i suoi anni cercando di venirne a capo e di poter prendere in mano le redini della propria vicenda, che non è mai uguale alla vicenda altrui. Ogni conflitto passato all’esterno dell’ambito in cui è sorto, è un prolungamento di quello interno ora caratterizzato. Conflitto tra essere ed esistere, tra conoscenza e ignoranza, tra azione introspettiva e pragmatismo esteriorizzato.
Pensato seriamente potrebbe costituire un secondo Inconcepibile.
I due esempi riportati sono ovviamente da sperimentare ed è buona regola confrontarsi onestamente con i loro contenuti, come sarebbe opportuno fare per qualsiasi tipo di approfondimento:
1. se il primo risultato ottenuto ci parla di un pensare composto solo di pensieri pensati, e mai una volta, salvo rari casi speciali, cimentato nell’impresa di oltrepassare volutamente se stesso, nel senso di verificare cosa possa esserci nel pensare quando lo si sottrae ad ogni sensibilismo (e sentimenti connessi), e resta in piedi solo la decisione, non ordinaria, di risalire il flusso del continuo suo darsi, di un pensare quindi capace d’andar oltre quello apparente prima che ci rendessimo conto di questa sua illimitatezza;
2. se l’altro esperire del pensare seriamente a come sia composta, o scomposta, l’umana natura, e come l’interiorità cosí chiamata, ben lontana da un luogo geometrico di serenità e atarassia, è invece scossa da perturbazioni profonde che sembra arduo riconoscere per proprie, tanto arduo che si tende incoscientemente ad appioppare ad altri l’eco dei propri epicentri, al punto che una delle opere fondamentali di Massimo Scaligero, inizia precisamente con le seguenti parole: «L’Io che l’uomo dice di essere non può essere l’Io, se non nel pensiero vivente: ancora da lui non conosciuto».
Mi rendo conto che citare Massimo Scaligero è diventato per me un’abitudine, un difetto, forse un errore. Immagino di poter incappare in qualche pregiudizio. Tuttavia, qualunque cosa sia e sarà, me la tengo cara e proseguo.
Ne consegue che le due cose sommate mi spediscono dritto dritto a prendere formalmente atto di un ulteriore Inconcepibile, che per questa disamina, sarà anche l’ultimo: ed è la libertà. È una grossa parola, un concetto possente dal quale non si può prescindere anche in scritti come questi miei, solitamente riservati a considerazioni generiche ed elementari. Anzi, credo siano proprio queste le occasioni per ribadire piú che mai il significato che può assumere l’idea di libertà, quando il pensiero che la pensa impara a farlo seriamente; quando l’esercente del pensare decide di scrollarsi di dosso la parte della vittima sacrificale di quel dramma d’autoinganno solipsistico in cui ha confinato l’esistere. Lo rifiuta, non lo vuole piú, smette di recitarlo, perché oramai lo conosce a menadito, e capisce che la sua funzione, tanto negativa quanto energetica, si sta esaurendo.
In virtú di un rafforzamento delle riflessioni svolte, appare ora in modo distinto che il tema della libertà non può riferirsi né al corpo, né allo Spirito; la materia è Spirito incatenatosi nella mineralità e lo Spirito è pura energia non sottoposta a limiti spaziotemporali; per essi la libertà non ha senso alcuno; esprimono e svolgono l’impotenza e l’onnipotenza del livello cui appartengono.
Il problema resta tutto per l’anima, la quale, nata in una delle due dimensioni, viene a vivere nell’altra, senza avere la preparazione, o conoscenza minima, per poterlo fare gratuitamente o con poco sforzo.
Stretta nella morsa tra un presunto divino, lontano, inconcepibile quanto il pensare che potrebbe indirizzarla correttamente, e una telluricità tossica, costrittiva, ossessionata dal suo meccanismo razional-logorroico, l’anima è costretta a ripensare il proprio rapporto con il mondo e con quanto sperimenta come altro-da-sé; si conforma un’etica di vita, e nel percorrerla la rende sempre piú consona alle rinnovate contingenze. Non sempre ci riesce, e in tali casi regredisce rispetto al piano evolutivo che ha immaginato e del quale non prova certezza alcuna, ma solo il rimpianto di una predisposizione già stata sua e mai recuperata: una libertà perduta.
Volere questa libertà, cercare la libertà, filosofare sulla libertà e a volte morire inseguendone il fantasma per le strade del mondo, evidenzia, se ce ne fosse ancora bisogno, lo stato di totale prigionia in cui l’anima si lascia afferrare dal fisico-sensibile, dimenticando nel tempo della cattura ogni suo requisito d’origine; nonostante quel poter pensare seriamente, che potrebbe ricordarglielo in ogni momento, ma che richiederebbe l’apporto di tutta la sua volontà.
La storia delle creature umane e della loro anima è dunque una storia isolata, avente caratteristiche a sé stanti e specifiche, ma può leggersi isolata soltanto dall’attuale punto di vista conoscitivo e didattico, in quanto le sorti del mondo e dell’universo dipendono dal tipo di indirizzo evolutivo che essa sarà capace di darsi con l’esperienza acquisita contro le forze della Terra e grazie alle forze della Terra.
Circa il volgere in positivo di questa eventualità, non ho incontrato mai parole piú significative di quelle usate da Rudolf Steiner nella Filosofia della Libertà, che ci conducono ad un aspetto eccezionale delle possibilità umane, in quanto inatteso ed insolito anche per le tempre meglio forgiate.
In apparenza, per l’uomo d’oggi moralità e libertà sono due concetti slegati, e metterli in relazione l’un l’altro verrebbe visto come uno dei tanti tentativi da parte dei diffusori di pensiero, tesi a ripristinare l’aspetto tradizionale e idealistico, privilegiandone la forma a scapito della sostanza. Una ricetta scaduta e superata dalle esigenze del nuovo, incapace oggi di cogliere il senso ultimo del suo stesso esigere.
Rudolf Steiner invece compie questa operazione. La fa, al di sopra del vecchio e del nuovo, nel modo piú semplice (semplice per pura linearità discorsiva) che è poi anche il piú vero, chiamando direttamente in causa il nostro voler pensare seriamente (da lui indicato con la voce di “monismus”), e cosí la scolpisce:
«Per il seguace del monismo la moralità è una proprietà specificatamente umana, e la libertà è il modo umano di essere morali».
A garantire l’integrità concettuale, nonché principio di vita, il congiungimento è svolto dentro l’essenza del vissuto, della materia, e portato a fondo nella torbida, convulsa concretezza del reale.
Come dire che nel pensare seriamente, l’anima trova il coraggio di attuare l’inconcepibile e volgerlo in concepibile.
Angelo Lombroni