Tra i programmi d’intrattenimento della TV, c’è un preserale (o post-serale, dipende dall’ora in cui cenate) il cui format stimola qualche riflessione. Già nel titolo, “Affari tuoi”, manifesta la tendenza a occuparsi degli affari altrui ‒ nel caso specifico, dei nostri ‒ e in qualche misura ci riesce, perché simula un percorso in cui noi, vecchi coloni del pianeta Terra, ci siamo specializzati fin dalla nascita; imita cioè la vita, ma la imita comprimendola e schiacciandola ad un unico aspetto, che non è il piú esaltante: quello di essere costantemente chiamati a scegliere dalla necessità e per necessità, senza poter rinunciare al vasto campionario che ci viene messo a disposizione dalla sorte (il non scegliere sarebbe comunque una scelta); la qual cosa viene venduta come un nostro inalienabile diritto, ma, osservando meglio, è un recto di medaglia: quello su cui c’è scritto “obbligo”. È rivolto a noi, e qualcosa mi dice che non è un invito.
Spiegazione articolata del gioco: il concorrente deve/può orientarsi tra 20 pacchi, e trovare quello contenente la vincita piú alta; in tale direzione viene spinto a muoversi, operando varie opzioni, il tutto eseguito, secondo lo schema dell’enjoyment appositamente congegnato dai maghi del palinsesto. Lazzi, guizzi, si alternano a momenti di pathos, a richiami del cuore, assieme a jingle, gag e cotillon. Conduce la sarabanda un saltimbanco di turno, che letteralmente si sbraga nel tentativo di orchestrare emozioni, interessi e simpatia, per la gioia dei volontari presenti (comandati all’applauso) e per quella dei semi-volontari remoti (telespettatori) il cui uso impietoso del telecomando potrebbe produrre effetti nefasti in fatto di audience e benefit correlati.
Nulla quindi di piú finto, artefatto e ingannevole, ma questo, trattandosi di programmi televisivi, non è una novità: si chiamano “spettacoli d’evasione” perché destinati a un’utenza composta da anime prevalentemente imprigionate. Tuttavia bisogna distinguere il falso dal subdolo. Quando Totò cercava un pollo cui vendere la Fontana di Trevi, presentava un tipico caso di “truffa semplice in falso ideologico”; quando uno dei pezzi da novanta della politica infila in un pubblico discorso il celebre inciso “il peggio è alle spalle”, o magari – orribile dictu ‒ “al momento opportuno faremo la nostra parte”, la cosa si fa piú grave, in quanto al reato suddetto si aggiunge il tentativo di “circonvenzione d’incapace esteso a comunità non organizzate”.
Nella realtà degli accadimenti, resta integro il discorso sulle continue scelte da esercitare nelle varie occasioni che si presentano, ma la loro natura è totalmente diversa dalle scelte che ci costringiamo a compiere quando vogliamo (lo vogliamo ? Ma sí che lo vogliamo!) partecipare a un gioco ‒ dalla pesca di beneficenza all’azzardo della roulette, dal pokerino fra amici al frastornante tintinnio delle slot-machine ‒ ogni azione si esplica entro un limite spaziotemporale predisposto. Nel vissuto quotidiano questo limite è assente: o meglio, c’è, ma non è regolato a priori da mani o menti mortali.
È strano, di questo quasi mai qualcuno sembra accorgersene. Se per una forma acuta di autolesionismo, sfidassi il campione mondiale di scacchi, del cui gioco so appena distinguere le pedine e qualche mossa elementare tarata al contagocce, sarei comunque certo di non sfigurare, sempreché la partita si desse su un’ipotetica scacchiera con un numero “x” alla “n”, di caselle, e durasse per l’infinità del tempo.
Chi ha detto che il Principio di Bertoldo non sia applicabile anche al di fuori della storica sentenza correlata al bonus dell’ultimo desiderio? Ora, nella vita, questo in un certo modo si verifica: in qualsiasi circostanza nessuno è in grado di “prevedere” su quale superficie o dimensione si stia sostenendo il gioco, né tanto meno quanto sarà il tempo a disposizione per avviarlo, gestirlo e, forse, completarlo. Il trucco quindi consiste nel proporti un fac-simile del vissuto comune, metterlo in chiave di gioco a premi con la possibilità di riscuotere una vincitona (che ti fa l’occhiolino da lontano) e abbindolarti lungo il percorso con gli ostacoli delle cosí dette opzioni alternative, ovvero l’istituzione delle vincite minori quale consolatio lusoris. Ciò che importa è che tu sia veramente convinto d’essere l’esclusivo protagonista del gioco e padrone delle modalità esecutive (questo secondo fine, in genere ben nascosto e coperto con l’abilità e l’impegno tipico dei bracconieri, è oggi piú che mai il fondamento segreto che fa interagire paesi, città, nazioni e continenti; a seconda dei casi può assumere specifiche denominazioni, tipo “libertà”, “democrazia” e “solidarietà”).
Non c’è nulla da meravigliarsi; basta riflettere su come il credere d’essere proprietari in via esclusiva del proprio corpo, dei propri pensieri, e già che ci siamo anche della nostra vita, sia divenuto un riferimento talmente comune e diffuso che chi, incautamente, vagheggi dubbi in proposito, viene guardato a vista quale elemento stravagante, forse sovversivo, comunque socialmente instabile. L’esistenza di un cammino che, piaccia o non piaccia, l’uomo percorre e la necessità incombente di operare scelta dopo scelta lungo la via, sono due temi triti e ritriti sui quali non merita dilungarsi. Meriterebbe invece investigare sul perché mai l’uomo ami cosí tanto crearsi finzioni rappresentative di questo irrinunciabile corso biologico, al punto che nel gioco costruito e artefatto, ha saputo darsi delle mete e, di conseguenza, pure le spinte al traguardo, che per contro, nella restante esistenza, si guarda bene dal fare, e se lo fa è per brevi tratti e poco rilevanti intermezzi.
Sa che l’ipotesi di una finalità, idealizzata, sperata, agognata, potrebbe fungere da leva straordinaria per la sua volontà decisionale, e soprattutto per conferire alla vita un valore degno ed eclatante, eppure quasi mai riesce a darsene uno, neanche ritagliandoselo su misura, che costituisca una ragionevole contropartita per gli sforzi, sacrifici e dispendi d’energia che la cadenza irrefrenabile delle numerose scelte da compiere gli impongono ad ogni piè sospinto. Preferisce sperperare quel che ha in scelte giocate al vento dell’inconsistenza, pur che questa gli si presenti velata di sapiente seduzione. Se ne deduce che l’effetto Circe è riscontrabile dal solo Ulisse e da qualche altro navigatore solitario. La confusione tra scelta e scelta obnubila la visione obiettiva dei fatti. È inevitabile, ce ne sono di tutti i tipi e gusti: scelte obbligate o di opportunità, scelte cogenti o di preferenza, volgari o d’elite, alternative o radicali, moralistiche o sconsiderate. Non è facile orientarsi.
Gli antichi marinai conoscevano il pericolo di Scilla e Cariddi, e nel loro possibile lo evitavano, ma se il numero di questi passaggi si fosse moltiplicato in misura esponenziale, la storia della navigazione mediterranea non si sarebbe prolungata fino ai giorni nostri. Questo per dire che ogni momento di scelta non è risolvibile con il semplice calcolo di comodo o con il regolo del male minore. Forse lo sapevamo già, tuttavia, autolesionisti fino in fondo, ci siamo creati il Luna Park delle Lotterie Istantanee e dei Gratta e Vinci per potercelo dimenticare.
Le scelte infatti appaiono molteplici; e il compito del molteplice (per lo meno inizialmente) è quello di frastornare; induce a studiare forme sofisticate di decisione, miste tra compromesso e transitorietà, fino a raccoglierle in testi unici. Solo in un secondo tempo apprendiamo che non era questo il modo corretto di porsi davanti all’evento, ma normalmente è troppo tardi, perché le condizioni preposte alla decisione si sono nel frattempo trasformate, e richiedono a loro volta soluzioni diverse e pari modifiche. Da questa strettoia non si scappa: se lavori nel microcosmo del finito, pesato e misurato, regole e funzioni sono determinanti e ti fanno pure vincere il criceto di peluche. Ma se ti rivolgi all’infinitamente grande, come all’infinitamente piccolo (che poi sarebbero due modi diversi di vedere la stessa cosa) comprendi che le regole di prima non valgono piú e il bisogno di scoprirne delle nuove si è fatto ora padrone del campo (sarebbero anche questi “Affari Tuoi”; da non confondere con la scelta dei pacchi elargita dalla Tv, i cui giochi a premio mi ricordano il titolo di un vecchio film di Nanni Loy: “Pacco, Doppio Pacco e Contropaccotto”).
Ai tempi dell’università ho appreso che nello studio delle teorie economiche le funzioni si mantengono rette con la dicitura “ceteris paribus”, ossia “fermo restando le condizioni del sistema” preso a modello. Per controprova, nelle equazioni differenziali il risultato di una medesima operazione può essere diverso, a seconda delle varianti premesse all’operazione stessa. Cosa succederebbe a questo mondo, già abbastanza in affanno, se da un certo momento in poi, il 2+2 smettesse di dare il classico 4? Eppure non siamo molto propensi a ricordare che la maggior parte delle nostre scelte viene espressa nella certezza che esse avvengano all’interno di un campo regolamentato e disciplinato per convenzione, una specie di Borsa Valori in cui si gioca il gioco della vita, e che ovviamente non può far altro che basarsi sul principio fondamentale in base al quale se un Tizio vince, un Caio o un Sempronio dovranno perdere. La domanda è in sé pleonastica, ma non si può definire sbagliata, semmai è incompleta. Lo è in quanto la parte piú importante, quella essenziale, manca; e mancando riduce la nostra scelta a un mero atteggiamento dell’anima ‒ quasi sempre quello che al momento prevale sugli altri ‒ tradotto in azione.
Manca all’anima la capacità di rapportarsi alla linea del proprio karma, a cui tutti gli eventi alludono ma che soltanto essa può recuperare in un disegno riconoscibile; manca l’elemento determinante di un pensare chiarificatore, che attinga alla propria originaria forza e dia modo di vedere, per lo meno a grandi linee, quale sia il valore della scelta operata, come e in qual misura essa incida sul piano dell’evoluzione individuale; quanto possa giovare o ledere, per uno sviluppo corretto dell’ambito personale, esteso anche ad altri, almeno a quelli che, per volere o destino, ci sono accanto fin qui.
Con questa consapevolezza, la quale piú che una diagnosi dovrebbe essere un’ammissione, noi affrontiamo senza tregua gli aut-aut, i “delle due l’una”, i “o sei pro o sei contro”, che il nostro percorso ci pone davanti fino ad arrivare all’attualità-clou del giorno, cosí discussa e discutibile, che si chiama “referendum”.
Questo modo plateale di costruire un quesito, strizzando tra loro gli accadimenti che hanno concorso a formarlo, frullandoli alla garibaldina e distillandoli alla carlona, per spacciarli poi come toccasana popolar-energetico, non produce altro effetto se non quello di ridurre all’aspetto piú abbietto l’antico, aulico problema che già fu il “libero arbitrio”. È vero, anche dall’insegnamento evangelico si ricava la valenza decisionale del “sí-sí!” o “no-no!”; ma dimezzarla, forse per vaga mostranza di risparmio, in un “sí o no?” e, forse per evitare accuse di demagogismo cattedratico, trasformare gli esclamativi in un interrogativo, svela una pesante decadenza di forma e di costume nell’interpretazione della parola “democrazia” presso i pensatori contemporanei.
La decisionalità imperativa, quella dell’aut-aut per intenderci, è sacrosanta, ma quando riferisce ad urgenze impellenti che la richiedano; ma soprattutto quando le concause formatrici sono semplici e facilmente ricomponibili nella mente e nell’anima di chi è portato a scegliere. Se il dentista dopo accurata ispezione conferma che la mia sofferenza è dovuta ad un dente irreparabilmente guasto, non mi serve un referendum interiore per sapere quello che c’è da fare, anche se la soluzione non mi diverte affatto. O mi tolgo il dente o mi tengo il dolore. Piú semplice di cosí. Ma se il problema è lontano mille miglia da ogni forma di semplicità e giorno dopo giorno viene appesantito da guazzabugli che lo aggravano vieppiú, rendendolo sia incomprensibile nelle conseguenze della sua applicazione, sia strumento di ricatti e compravendite vergognose tra addetti ai lavori e simpatizzanti ‒ con voce desueta ma ispirata, detti “accoliti” ‒ allora la questione è completamente diversa.
Il problema politico del “Volete o non volete questa minestra?” scende cosí i gradini della scalinata che portano all’eterno riposo la questione per cui è sorto. Quel che resta a galla è solo il mai cessato braccio di ferro tra coloro che per amore del bene si rendono disponibili anche al male e quelli che per meglio servire il male arrivano pure a sacrificarsi per il bene. Non siamo noi gli autori di quella sterminata serie di passaggi, motivi, fraseggi, relazioni palesi e segrete corrispondenze che hanno portato a istituire il referendum. Come potremmo rispondere in buona fede con un sí o con un no? Come potremmo, in buona fede, andare decisi alle urne o starcene beatamente a casa infischiandocene di tutto e di tutti? Il paese si rivestirà di una Costituzione rinnovata, oppure continuerà a indossare quella vecchia. La cronistoria politica annoterà la differenza. Dubito tuttavia che la soluzione adottata, qualunque sia, migliorerà il grado di dignità umana e civile che invece è urgentemente richiesto dal contesto di base da cui l’istituzione plebiscitaria vorrebbe attingere la consultazione.
Diceva un rivoluzionario francese: un uomo ha dei diritti fintanto che ha la forza interiore per difenderli; mi chiedo che cosa ne sia di quest’uomo allorché, per una forza esteriore, pur camuffata da mascherone giuridico, gli viene impedito l’assolvimento dei doveri. La questione di fondo non è risolvibile con un sí, né con un no, né con lo stratagemma della scheda bianca, né tanto meno col pigro espediente dell’astensionismo revanscistico. Il problema va ben oltre, e ancora una volta non verrà risolto per decisione del “popolo sovrano”. Se vincerà il sí, leggeremo che è stata una vittoria in modalità progressista; se prevarrà il no, ci diranno che trattasi di vittoria in modalità conservatrice. Un vincitore ci sarà comunque, perché questo rientra nelle regole del gioco, ma per quanto se ne potrà dire , nessuno, vincitore a parte, sentirà di poter condividere l’esultanza sortita dalle urne.
Siamo progressisti o conservatori ? Siamo razionali o irrazionali? Siamo spiritualisti o materialisti? E se fossimo in una delle due alternative, ma credessimo, in perfetta buona fede, di stare nell’altra? C’è Giuda e c’è Pietro, c’è Caifa e c’è Pilato; ma non è il caso di esercitarci in questa direzione. Nei sistemi complessi la via dell’aut-aut è sempre disumana. Eccezion fatta per il “gioco dei pacchi”, dove ci viene rifilato in versione idilliaco-casereccia, uno speciale social network appositamente modulato sul livello culturale di petenti e ripetenti. Ho tirato in ballo la buona fede; la chiamiamo tale per contrapporla a un altro tipo di fede, che buona non è: ossia la cattiva fede. Non riesco però fare a meno di chiedermi come possa esistere un ossimoro di questo genere. La fede è un tema dell’anima, è un suo bisogno di cercare il riferimento, dapprima supponendolo fuori di sé. Se poi s’accorge d’aver sbagliato, pazienza; non per questo potrà accusarsi di cattiva fede. Al momento, quando c’era, la fede pareva buona. Anzi, la fede è sempre buona, altrimenti sarebbe un’altra cosa e avrebbe un altro nome. Per cui se l’uomo, nel desiderio di cogliere quel qualcosa di sé che sta nel principio dell’intera impalcatura dell’essere e dà contemporaneamente un senso di pienezza all’esistere, decidesse di trovarla nella propria razionalità, e su questa fondasse poi la scienza e la cultura che abbiamo, verrebbe smentito, come in effetti viene, da poche semplici considerazioni. L’impulso connaturato alla fede è tanto insopprimibile quanto inspiegabile. Non siamo affatto quelle menti razionali di cui molto vuol sottintendere e poco sa dire l’attuale versione antropologica.
Si continua a cercare fuori ciò che si dovrebbe, ben prima d’ogni altra cosa. cercare dentro; siamo già in un momento avanzato di questa crisi protratta per secoli; lo si può verificare immediatamente; basta guardarsi in giro per avvertire che il tempo della ricerca interiore, della lucida introspezione, è esaurito. Depressione, angoscia, abbattimento con tutte le forme di psichismo che ne derivano, indicano senza equivoco che la ricerca del Dio, del Maestro, del guru, del guaritore terapeuta, esperto in patologie animiche, è stata dismessa per impossibilità di reperire il supporto cui aggrapparsi. Tuttavia tale supporto c’è. A questo proposito, mi permetto d’interpretare la frase con la quale Nietzsche apre La Gaia Scienza: «Gott ist tot»: cari lettori, vi comunico che Dio è morto. Come la provocazione disperata di un ultrà che non ha trovato modo migliore per svegliare un’umanità dormiente. Non che lui fosse desto nel modo giusto, a parer mio, ma a volte capita che certi precursori ritengano loro dovere il compiere una cosa, piú importante dell’averla pensata a fondo, elevata a sintesi e intuita nelle conseguenze pratiche del momento storico.
Il supporto c’è ed è nascosto nella stessa parola che da esseri razionali abbiamo scartato dal moderno vocabolario macchiato d’anacronismo: la Fede. Chi mi conosce almeno un po’, si chiederà a questo punto se io abbia subito un trauma o abbia avuto qualche rivelazione particolarmente impegnativa; oppure tutte e due assieme, visto che a volte agiscono di concerto. Nulla di ciò: ho semplicemente fatto un giretto nei tempi che furono, in compagnia di alcuni dizionari, e ho seguito a ritroso l’etimo del vocabolo: dalla latina fides, sono passato al greco Πίστις e dalla pistis sono tornato all’attuale senso italico della fede, che è fiducia.
Possiamo quindi chiederci: oggigiorno l’anima ha fiducia nel pensare? Sicuramente la risposta è sí, ma non basta questo sí a cogliere il senso della domanda; anche i polmoni hanno “fiducia” nell’aria che respirano; anche i piedi e le gambe hanno “fiducia” nella solidità del terreno su cui poggiano; anche il turista coreano nutre “fiducia” (molta) nel vigile urbano cui chiede vaghe informazioni sui siti artistici del luogo; e pure un ferito grave nutre “fiducia” (moltissima) che l’autoambulanza, avvisata, arriverà puntuale a soccorrerlo. Ma non è di questa fiducia che voglio parlare. Io tento di parlare di un’altra fiducia, di quella fiducia che “Move il sole e le altre stelle”. Tento di parlare, di comunicare quella fiducia con la quale il piccolo sorride alla mamma rannicchiandosi tra le sue braccia; cerco di esprimere quel particolare momento di commozione che possiamo provare davanti ad un’opera d’arte che ci tocca profondamente: una statua, un dipinto, una musica, una poesia, un’architettura. Il mezzo per comunicare la fiducia si avvale di infinite possibilità.
Questi momenti, o meglio l’insieme di questi momenti, che abbiamo percepito e che sono diventati parte fondamentale non solo della memoria ma della nostra stessa crescita, sono i cardini della facoltà dell’anima da cui la fiducia nasce. Sono l’espressione compiuta di un atto d’amore che non necessita di parole, discorsi e altri supporti. Se ami, dai fiducia all’essere amato, e percependo il suo amore come ininterrotto flusso di vita, inconfondibile da magie aliene, capisci che esso solo è l’alimento perfetto per l’anima.
Se la fiducia c’è, è sempre totale; tra le cose che possiamo immaginare di noi e dei nostri compiti, ci racconta l’attimo in cui tra l’essere della terra e l’Essere dei Cieli si è istaurato un legame cosciente, un qualcosa d’inestimabile. Emerso dal profondo e disceso dall’alto, si congiunge nella nostra anima, che ora, magari per un unico istante, è capace di comprendere, e di accogliere quel che di veramente vivente essa vuol vivere. È per un tipo di comprensione che illumina qualunque tenebra e riscalda qualsiasi solitudine. Basta saperlo ricordare quando si allontana dal nostro orizzonte sensibile, per insufficiente saldezza di virtú evocatrice. Puntualmente, il sole ritorna ad ogni alba; la luce solare dell’interiorità può ritornare anch’essa se riusciamo a far albeggiare l’anima, rendendo la sua attesa una parentesi meditativa tersa, devota, prudente e silenziosa. Penso siano questi i reali “Affari Nostri” di cui varrebbe la pena parlare sempre e in ogni circostanza, senza concorsi a premi, luci psichedeliche e farse danzanti; senza i luttuosi percuotimenti pettorali che siamo portati a infliggerci quando la farsa, inevitabilmente, cede posto alla tragedia.
Tuttavia, in un primo tempo, che può durare a lungo, si cerca orizzontalmente; ci si aggira sulla terra, si battono strade e vie, trasportati dalle scelte, obbligate, libere o mezze obbligate e mezze libere, tanto per star certi di non farci mancare nulla in fatto di penuria animica. Invece viene l’ora, ed è già ora, che stanchi e sconsolati dobbiamo ammettere che la ricerca è approdata a niente; non sappiamo nemmeno piú se ci sia ancora qualcuno o qualcosa cui poter rivolgere tutte le domande, le preghiere, le suppliche, o anche le contumelie, le invettive e le maledizioni, che abbiamo macerato dentro e di cui adesso vorremmo liberarci, una volta palesata la loro monolitica ermeticità, cosí amletica quanto inutile.
Eppure quella che, in parole semplici, abbiamo chiamato “ricerca orizzontale” non è mai inutile; sembra, ma non lo è. È un percorso necessario, uno svolgimento sine qua non che la nostra coscienza deve far trascorrere e sopportare (non in senso passivo, rassegnato; ma nell’intento di capire e sostenere), per un giorno avere le forze necessarie ad alzare la testa e percepirsi coscienza di sé, o Autocoscienza.
Pirandello direbbe che il personaggio, divenuto persona, si scopre alla fine individuo ‒ in termini antroposofici, intuisce d’essere portatore di un Io ‒ come tale ora vorrebbe sapere se esiste l’Autore, o il Regista di questa sua crescita interpretativo-protagonistica, dal momento che se una determinata direzionalità si è ridestata, da qualche parte ci deve essere un Ridestatore, la cui proiezione ha assunto una funzione maieutica. E qui possono succedere nuovi problemi, perché gli altri, quelli che non si sono ancora ridestati, quando scoprono e notano l’avvenuto mutamento del singolo, in qualche modo, sono portati a puntare l’indice contro il neofita. Senza conoscere le ragioni del dissenso, lo incolpano di non far parte di loro in quanto non piú come loro.
Le grandi civiltà d’Occidente volgono al tramonto; l’istintiva antipatia, l’avversione contro lo Spirito prende la mano e funge da “Consiglio per gli Acquisti” nelle scelte e nelle decisioni; molte cose si concedono alle new exit, molte meno alle new entry, a meno che il discorso non cada sul piano dei ludi politico-circensi, degli esibizionismi emozional-neuropatici e annesse licenze, ove tutto, secondo sorniona sonnolenza etica, tipica dei Tardi Imperi, diventa giustificato e ammissibile. Anche ostentare le lacune, anche andar fieri delle indecenze.
Sono molti o sono pochi quelli che se ne chiedono la ragione? Diciamo prudentemente che ad alcuni piacerebbe saperlo. I motivi della crisi, ben lungi dall’essere un fatto puramente occidentale, si lasciano trovare senza difficoltà, e mi pare che uno, almeno uno in rappresentanza di tutti i possibili altri, emerge evidente e incontestabile. L’anima per sua spontanea disposizione è rivolta al Divino; se l’uomo (nella sua umana libertà può farlo) la distoglie da quella Luce e la sottomette ad un ininterrotto martellamento diseducativo, costringendola all’abiezione di se stessa, obbligandola a subire impulsi e istinti sensuali, che a loro volta divampano in brame e passioni, dalle quali verrà dominata, come si fa a pretendere che le cose possano andar bene dentro o fuori di noi? Anche qui la parabola del “dentro o fuori” sarebbe tutta da rivisitare; la divisione cartesiana tra res extensa e res cogitans non regge da molto tempo, ma nessuno ha mai indetto un referendum sulla sua corrente validità.
Di recente, un ennesimo scandalo ha coinvolto una Radio emittente, da cui uno zelante religioso ha sostenuto che il disastroso sisma abbattutosi sull’Italia Centrale sia stato causato da nostre scelte immorali e quindi possa venir considerato una specie di punizione salita dal basso ma gestita dall’Alto. Apriti Cielo! È il caso di dirlo! Dall’opinione pubblica, in specie da quella dotta e devota del clero, si è sollevato un putiferio di proteste nel tentativo di contrastare la sua audace presa di posizione. Tutti d’accordo a contestarlo sui media ufficiali. Solo sul web c’è stato chi ha tentato di far comprendere l’intima unione tra la sfrenata passionalità umana e lo scatenamento dei terremoti, citando le parole di Rudolf Steiner (O.O. N° 94): «Ora, se oggi entrano in azione congiuntamente determinati impulsi volitivi malvagi, questi agiscono sullo strato di fuoco [della Terra] e può quindi accadere che lo scuotersi dello strato di fuoco si trasmetta a quello acqueo, e via via attraverso gli altri strati, fino ai piú superficiali. Questo produce terremoti, eruzioni vulcaniche, maremoti e cosí via. Se l’umanità s’impegnerà per un miglioramento morale sulla Terra, vi sarà anche un progressivo miglioramento per quanto riguarda le catastrofi naturali».
Purtroppo oggi l’errore è divenuto irriconoscibile, al punto che chi vi si contrappone viene ritenuto paranoico o in completa malafede. Siamo portati inevitabilmente a pensare che se la situazione dell’anima umana di questi tempi è quella decritta per sommi capi, e fosche tinte, poc’anzi, allora se ne deduce che l’uomo d’oggi, dal punto di vista strettamente spirituale ed evolutivo, altro non è se non un mostro, una specie di morto vivente, un ibrido tra il Golem e Frankenstein. E a questo tipo di umanità, o di semi-umanità, credi sia possibile far comprendere che il contrappasso karmico ci ha colpiti per la temeraria indecenza delle nostre scelte?
Torniamo in linea; è sempre pericoloso svegliare il can che dorme (specie se non lo conosci e se non hai avuto sentore del cagnone che sonnecchia in te), ma è molto piú difficile tentare di redimere chi crede d’essere un vero, giusto, moderno figlio di quest’epoca, quando invece, purtroppo, è soltanto in preda ai fumi delle sue alterazioni psicosomatiche. Occorre trovare i toni, le parole, le spiegazioni, la tenacia e la pazienza, in poche parole l’amore per il prossimo di cui parlano i Vangeli, per indurlo a compiere qualche piccolo passo verso un ragionare autonomo, sostenuto dalla dedizione ‒ tua ‒ alla causa ‒ sua. Che faccia da stimolo per un futuro rinvigorimento.
Promuovere il risveglio delle coscienze è giusto, persino a volte anche con toni accesi e apocalittici, sempre che questo sia accompagnato da un profondo sentimento di amore e misericordia verso le persone, la società, la gente o il volgo (ci sono molti modi per indicare “ il popolo degli altri”), che saranno anche in apparenza marionette avvilite e strapazzate da persuasori occulti e palesi, corporei e incorporei, ma sono tutte anime, ovvero spiriti incarnati scesi nel mondo per sottoporsi volontariamente all’esperienza della vita terrena, della sofferenza e della morte; come sono io, come sei tu, cosí sono loro; né piú né meno.
Nessuno osa contestare clamorosamente la Teoria del Caos; nessuno protesta per la paradossale follia di mettere in relazione di causa-effetto una farfalla di Tokio con una nevicata a New York. Le menti laiche, i cervelli atei, le meningi materialistiche non si ribellano, restano muti di fronte alla caterva di spiegazioni scientifico-matematiche con le quali gli esperti hanno saputo illustrare la teoria. Se però sostieni l’eventualità di un rapporto di causa-effetto tra la condotta morale degli uomini e il verificarsi di calamità naturali, tipo terremoti, alluvioni e tsunami ‒ la qual cosa dovrebbe essere altrettanto plausibile, almeno come semplice proposta di studi approfonditi ‒ allora su questo punto gli animi dei sedicenti razionalisti si accendono di furore.
Di colpo ci sentiamo tutti don Rodrigo con l’indice di padre Cristoforo puntato contro, e non ci vediamo piú. Ci sarà un motivo? Siamo forse punti su un nervo scoperto? Nella realtà del trascorso fisico, ci possono essere stadi d’avanzamento o di regressione a livello di singoli membri, e ciò ingenera delle differenziazioni anche notevoli che, a volte, se non spesso, ci fanno esclamare: «Che c’entro io con quello là, o con quelli lí?».
Dobbiamo imparare a metterci in ginocchio di fronte a quella Verità che portiamo in noi da sempre; quella che abbiamo evitato fin qui di pensare fino in fondo e preferito cercare all’esterno, illudendoci trovarla là fuori da qualche parte. Solo allora capiremo che quello che accade all’esterno è provocato da ciò che giace o si agita e ribolle dentro di noi, e che quindi ogni sereno e soleggiato mattino ma anche ogni notte di violento terremoto, sono tutti “Affari nostri”.
Angelo Lombroni