La razza di Roma

Storia

La razza di Roma

La lupa e i gemelli di Roma

«La lupa e i gemelli di Roma»

Le origini della razza di Roma sono circonfuse di quel mistero che accompagna la nascita di ogni grande civiltà: la favola e la storia vi si compenetrano. Oltre il velo del mito, la fondazione dell’Urbe presenta nella sua drammaticità i segni di una nuova storia dell’Occidente, attraverso una concatenazione di eventi che sono da considerare simboli di un nuovo modo di vedere e di organizzare la vita e che perciò, nel vecchio e decadente mondo mediterraneo, già annunziano la conquista romana dell’Occidente. Occorre dire che il rito della fondazione prelude, nella sua nuda drammaticità, la virtú eterna dell’Impero: il fondatore è infatti il Lare per eccellenza, il capostipite di una razza di origine divina, e realizza anzitutto un patto spirituale con gli Dèi e con gli uomini; poi procederà al rito della fondazione.

Per intendere il senso di una potenza che dà inizio alla formazione della razza, occorre tener presente che tutto in Roma deriva da un senso sacro, superno, della vita: la fondazione della città è un atto costruttivo che muove da un ordine di necessità puramente spirituale: essa è la conseguenza di una religiosa, ideale armonia costituitasi tra un gruppo di uomini, guerrieri e sacerdoti, che intendono costituire un’unità nuova, una forza creativa, e intendono primamente ritrovare nella città il santuario del culto comune. La fondazione dunque non è motivata da ragioni di ordine economico, o topografico, o comunque contingente, ma da ragioni di comune aspirazione ad un ideale superiore di vita, ad un piano supermateriale, “divino”. Il rito presenta poi un valore universalistico, investendo celebrazioni della natura, significati mistici ed esoterici, interrogazioni a forze celesti per la scelta del luogo ed evocationes alle potenze demòniche, al genio della stirpe, agli Dèi ctonici e uranici, per la fortuna della città che dovrà sorgere.

Volendo accennare a questo mistero della fondazione di Roma nella presente trattazione, non è possibile soffermarci a dare un’idea sia pure sommaria del valore essenziale annesso dagli antichi, e in modo particolare dai Romani, all’azione del rito. Ci basti dire che, alla stessa maniera che un moderno con operazioni e mezzi meccanici si rende padrone della distanza, dà forma alla materia e organizza la sua stessa vita esteriore, cosí il Romano antico, attraverso la tecnica del rito, resa perfetta grazie al connubio regale-sacerdotale che implicava l’azione di una volontà autocosciente, “solare”, e il corpo di una forza dinamica, mediatrice, “lunare”, stabiliva un contatto ascendente con forze magnetiche del cosmo e attraverso queste psichicamente agiva. Esisteva una scienza di tale azione: essa, a differenza di quella meccanica che pone tutti gli uomini su uno stesso piano (in quanto il mezzo meccanico può essere manovrato sia dal sapiente che dall’ignorante) richiedeva una dignità spirituale che non era da tutti; esigeva la presenza di qualità psichiche, in senso dinamico ed eccezionale, epperò connesse a una moralità superiore che non aveva nulla di dissimile da quella del mistico, del sacerdote. Ciò tuttavia per il Romano non significava che la vicenda si dovesse limitare al mondo contemplativo e misterico (come nell’antica ritualità dei popoli mediterranei, nell’orfismo e nel pitagorismo) ma che da un piano spiritualmente “superumano” occorreva parlare per dare senso all’“umano”, al reale, alla vita di ogni giorno, all’organicità politica. Era dunque un senso altamente religioso dell’esistenza quello al quale si conformava il rito: la razza ne veniva di continuo modellata, resa forte sotto ogni aspetto: ed erano esseri privilegiati, ossia piú interiormente complessi, lungimiranti, “Iniziati”, coloro cui era affidato il compito di dare forma e direzione agli avvenimenti, attraverso la rigorosa tecnica del rito. Erano sacerdoti, flamini, pontefici. La loro sapienza era la Tradizione, remotissimo retaggio della stirpe “solare”, eroica e spirituale ad un tempo.

Con la fondazione di Roma, il sacerdozio torna a far parte di una perenne armonia del mondo, divenendo complemento dell’azione guerriera, ossia non piú limitandosi all’estetismo delle antiche comunità misteriosofiche occidentali (Zagreo, Diòniso, Orfeo), né piú servendo da strumento all’orgiasmo prevaricatore e all’“afroditismo” matriarcale dei precedenti regimi mediterranei, ma costringendo lo Spirito a una disciplina nuova, ossia a tradursi in precisione di atti, di affermazioni, di conquiste, obbligando l’àpeiron, l’indefinito, ad assumere forma, ad attuarsi in pèras, in realtà definita, archetipo della creazione classica e ispirazione originaria dell’imperium, della nuova anima architettonica. Ripetiamo, ciò non è poesia e neppure mito. Nonostante che la magica risonanza del mito nella vicenda di Enea, quale Virgilio ce la presenta, e in quella di Romolo figlio di una Vestale e del Dio Marte, sia posteriore agli eventi delle origini, pure esso non rappresenta che un velo umano del profondo mistero della fondazione. Qualcuno ci dice che con questa leggenda si è voluto fare di Romolo una emanazione del principio “femminile” – chi creda che ne valga la pena e attribuisca valore alle analogie, tenga conto che, nonostante il connubio di Marte con la Vestale, costei è da considerare come simbolo terrestre della verginità, ossia della pura potenza non attuata in maternità – avvivato dalla forza “numinica” personificata nel Dio maschio.

L’essenza del segreto può intravvedersi soltanto se, giovandosi di una visione non scolastica e non razionalistica della storia si tien conto che Romolo, pur adottando l’arcaico rito della fondazione, innesta ad esso atti che presentano significati nuovi. Non è sufficiente riconoscere che tale rito, per quanto di origine etrusca, era comune anche al Lazio e alla Sabina. Nel rito del mundus si realizza il principio della eternità dell’Urbe, in quanto novamente lo Spirito si traduce in azione, in realtà gerarchica. Per chi se ne interessi, rimandiamo a simboli, come le visioni augurali di Romolo sul Palatino, e poniamo in rilievo che Remo, il quale sta a simboleggiare l’elemento antigerarchico del periodo decadente, viola l’intangibilità del solco e Romolo lo punisce.

Secondo l’arcaico rito etrusco, gli àuguri dovevano levarsi dopo la mezzanotte, in silenzio, e attendere l’aurora. Anche Romolo e Remo dunque si levano post mediam noctem: salgono sulle due alture (tabernacula capiunt, templa capiunt): da questo momento il destino di Roma e della sua razza sta per essere segnato. Gli storici e i poeti quasi totalmente concordano nel dirci che Romolo salí sul Palatino e Remo sull’Aventino: due luoghi diversi, due simboli opposti, due tradizioni che si scontrano, epperò ancora due razze.

I due re Romolo e Remo

«I due re: Romolo o Remo?»

Occorre decidere del nome della nuova città: si chiamerà Roma o Remora? Sarà re Romolo o Remo? Tutti sono intenti, in attesa del responso che deve venire dalla forza stessa del fato. Il disco bianco della luna tramonta: si soffonde il chiarore dell’alba ed ecco il piú perfetto degli augurii: l’aquila di Giove si mostra a sinistra – è già il simbolo della regalità “olimpica” proprio alla razza “solare”, che si manifesta ai padri dei futuri dominatori dell’Occidente – e mentre si affaccia il disco del sole, ecco volare rapido uno stormo nero. Chi avesse veduto prima dodici avvoltoi, quegli avrebbe regnato. Primo è Romolo, al biancheggiare del giorno; il popolo esulta: Romolo è consacrato re e sacerdote: è il Lare primo, il padre della nuova razza.

E che sia un autentico capostipite lo dimostra la tecnica sacerdotale della fondazione. Egli, consapevole dell’antico rito etrusco, appreso attraverso i segreti libri liturgici – come si legge in Catone, in Servio, in Festo e in Gellio – iniziato a una spiritualissima scienza sacra che completava in lui il guerriero e il fondatore di civiltà, tratti gli auspici, offerto il sacrificio, acceso il fuoco rituale, scavata la fossa circolare, il mundus, e gettatovi il pugno di terra cui era simbolicamente e realmente legata l’anima degli avi, iniziava la possente e misteriosa vita della terra patrum, della terra dei padri, della patria, ossia della terra cui sarà legato il destino della razza.

A suggellare il legame del nume indigete con il centro spaziale della nuova città, ossia a fine di legare al luogo la forza dello Spirito, onde il luogo contenga una sua forza “demonica” di patria, di luogo sacro, di effettiva eternità, una larga pietra, il lapis manalis, chiude la bocca della fossa.

Viene cosí costituito il “mondo-infero”, che deve accogliere le anime, non i corpi dei trapassati, e donde tre volte l’anno essi emaneranno nel mondo della vita. Allato al mondo infero, vengono erette una colonna di forma conica ed una piramide: ambedue sono sacre ai manes del capostipite e vengono consacrate ai suoi eroismi. È dunque una forza immortale che si sposa alla terra, la quale perciò sarà anch’essa immortale. Dopo l’assunzione nel ciclo divino, il fondatore, spiritualmente vivo nel mondo infero, sarà venerato dalla città quale figlio degli Dèi, nume tra i numi, auctor, eroe e parente della nuova stirpe.

Consacrati il mondo infero e quello superno, si procede alla costituzione rituale della topografia della città, sempre in ordine a un antico segreto cerimoniale che Romolo ben conosce. Del cerimoniale non conosciamo che la modalità esteriore, ma anch’essa, per chi sa intendere, ha un linguaggio. In candida clamide e il capo velato, secondo il costume sacerdotale, aggiogati all’aratro un bue e una vacca bianchi e robusti, discende dalla collina, seguíto dai compagni silenziosi, ed invocando con misteriose formule di propiziazione il favore delle forze divine, comincia a tracciare il solco rituale, badando che all’interno, dalla parte della città, sia la vacca, immagine della fertilità, e fuori, dalla parte della campagna, il bue, emblema della forza.

Romolo traccia il solco dell'Urbe

Nel condurre il solco egli, là dove vuole le porte, alza l’aratro, cosí che non tocchi terra. Poi alzerà le mura di cinta, seguendo la linea del solco, e fuori, rasente le mura, scaverà il fosso di circonvallazione: di qua e di là i due pomeri: uno interno e l’altro esterno: due spazi di terra che non si possono arare né abitare, voluti sgombri e liberi, a scopo di vedetta e di difesa. Le mura sacre qui sorgeranno e nessuno potrà da allora modificarne l’ampiezza e restaurarle senza il permesso dei Pontefici. Ai confini si porranno i titoli dedicati al Dio Termine.

Tracciati i limiti della città, date ai padri le case secondo la designazione della sorte, divulgati i diritti, egli, seguíto da tutti i compagni, riguadagna la sommità. Indi, gridato il nome divino della città, che viene ripetuto a gran voce tre volte dai padri, immola il bianco giovenco con la vacca sull’ara del sommo Giove. Imbandiscono poi le mense e le feste durano nove giorni. Gli oggetti adoperati nel rito della fondazione dell’Urbe si ripongono come sacri nel mundus.

Questo complesso rituale onde Roma, a detta di Ennio, viene fondata con “augusto augurio”, contiene i motivi fondamentali che daranno senso d’eternità alla razza, alla città e al suo imperio: esso è l’aspetto cerimoniale di una tecnica segreta mirante ad aggiogare gli eventi secondo un’unica direzione, quella dell’Urbe nascente. È l’iniziale vittoria della razza di Roma sul fato, per un ciclo nuovo dell’Occidente. Tale sarà da allora il significato del Dies natalis Urbis Romae. La fondazione di Roma è dunque un atto costruttivo che muove da un ordine di interiore necessità: essa, mentre è la conseguenza di un trattato religioso tra coloro che dovranno abitarla, in quanto rappresenterà il santuario del culto comune, deve ritualmente costituirsi come causa di cause, come punto di partenza, come motivo radicale di un organismo futuro. È un seme nel seno della terra e, come seme, deve contenere la forza della generazione.

È essenzialmente un’arte “iniziatica” quella che interviene a dare direzione al fato, con il rito del mundus: questa piccola fossa circolare, scavata da Romolo, accoglie un pugno di terra che egli ha recato con sé da Alba (Plutarco, Dione, Cassio, Ovidio, Festo) e accoglie la zolla che ciascuno dei suoi compagni ha recato dalla terra nella quale ardeva prima il fuoco sacro, cui era legata l’anima dei loro manes. È dunque terra intrisa di forze, di anima di razze, la terra cui è attaccata la dinamica del genius loci, dello spirito della stirpe. Non è poesia. È la creazione di un possente condensatore di forze adunate secondo un procedimento la cui modalità è ignorata dai molti, e che anzi occorre – sempre in osservanza a una tecnica esoterica – sia ignorata, cosí come il nome segreto della città, il nomen sacrum, la parola seminale, il logos spermaticòs, il verbo segreto che corrisponde alla virtú del nume della città. La stessa forza del rito fa sí che i fondatori siano liberi dalla “empietà” di aver lasciato la terra degli avi e promuove un nuovo legame tra anima e materia, tra lo spirito della razza e il suolo prescelto per la fondazione.

Il mundus è dunque un luogo sacro, il punto centrale in cui il fato viene per forza rituale vincolato alla terra: l’aspetto spaziale del divenire è dunque dominato e avvinto per virtú di una vicenda che contiene in sé già il superamento del tempo: se alla terra è legata la forza dello Spirito, e se lo Spirito dell’avo divinizzato è immortale, la terra s’impregna di una virtú metafisica, diviene centro mistico d’eternità. Mundus significa, nell’antica lingua esoterica, la regione dei Mani, moundos (Plutarco, Festo, Servio); e poiché il culto dei Mani è ininterrotto grazie all’ardere della sacra fiamma innanzi al larario domestico, si chiarifica anche il senso del fuoco. Sulla fossa fatidica si accende il sacro fuoco della città, che sarà il fuoco di Vesta perennemente acceso nel tempio: esso non sarà un elemento della natura divinizzato, come la critica storica ha sempre creduto, ma rappresenterà il simbolo terrestre di una forza divina a cui, nel piano celeste, sempre simbolicamente, corrisponderà il sole e, nel senso della fisiologia umana, il cuore, sede dell’intelligenza superumana secondo l’antico spiritualismo (Cicerone, Plotino, Giamblico, Giuliano Imperatore). Cosí come nel cuore dell’eroe e dell’asceta arde una perenne fiamma di divinità, nell’interno del tempio arderà il fuoco di Vesta.

Ma chi per primo in Roma accende questo fuoco? Romolo. Egli dunque è il fondatore, ma è anche il Lare primigenio della città, il capostipite spirituale della razza romana: ed essendo già divino nella vita umana, la sua morte non sarà che una ricongiunzione totale con il piano divino. Il mito drammatizzerà tale vicenda.

Quello che occorre sottolineare è che l’elemento divino costituente parte essenziale della nascita di Roma, non è che l’aspetto religioso di un dominio degli eventi, della fatalità, ottenuto attraverso il possesso di energie trascendenti che all’antico Iniziato era familiare, come al­l’ingegnere e al meccanico moderno è familiare il controllo e il dominio delle energie fisiche.

 

Massimo Scaligero


Selezione da: La razza di Roma – Mantero, Tivoli 1939.