Vade retro

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Vade retro

La cripta era rischiarata dalla tenue luce delle lampade votive e dal riverbero dell’ultimo sole che fluiva attraverso i vetri policromi di un’ampia bifora.

«Guardatela, povera Febronia! Spogliata del suo tesoro e offesa dal sacrilegio!» deplorava con voce incrinata dalla pietà e dall’indignazione don Luigi Calderi, il parroco di Rena Minore, indicando la statua della Santa nella nicchia sopra l’altare.

Chi l’ascoltava senza fare commenti era padre Bartolomeo da Contursi, il predicatore domenicano invitato per le funzioni della Pasqua. Le due figure contrastavano visibilmente nella penombra odorosa di resina combusta e di muffa: una sagoma tormentata, minuta, leggermente flessa in avanti quella di don Luigi, alta, massiccia e solenne quella del predicatore.

«Sono entrati di là – aggiunse dopo una pausa il vecchio prete, puntando l’indice legnoso verso il finestrone – e hanno portato via le catenine d’oro e i coralli che ricoprivano la statua… E quello sarebbe il danno minore. In piú hanno trafugato il prezioso diadema che la Santa aveva in testa, un gioiello tempestato di rubini e zaffiri, dono della comunità renese di New York!».

«E i responsabili? Avete degli indizi, delle tracce per individuarli?» chiese padre Bartolomeo, coinvolto a quel punto dalla drammaticità della vicenda.

L’altro allargò sconsolato le braccia: ricoperto dalla sua tonaca nera sembrava un uccello incapace di spiccare il volo.

«Può essere chiunque – chiarí poi – visto il degrado morale della gente. Non ci sono remore di coscienza, e il rispetto del sacro è venuto a mancare. Il furto ai danni della Santa Patrona ne è il segno piú eloquente e doloroso».

A differenza di don Calderi, umile e remissivo per l’età e il temperamento, padre Bartolomeo da Contursi era un autentico bulldozer del Bene, un guastatore nella giungla del peccato.

«C’e bisogno di voi – gli aveva detto in tono grave il suo superiore, l’abate della Certosa di Monte Cervara, comunicandogli la sua destinazione pastorale – siate degno del nostro fondatore, Domenico di Guzman. Esorcizzate il male che si è insinuato nella comunità di Rena Minore».

Ligio al mandato, padre Bartolomeo prese, come si suol dire, il Maligno per le corna. Dal pulpito cominciò subito a lanciare le sue bordate contro le fila dei trasgressori. Tuonò all’indirizzo delle donne che esageravano col fard e il rossetto, degli uomini che frequentavano troppo le osterie e le sale da gioco, stigmatizzò tutte le devianze e gli abusi: dalle gonne corte e le camicette aderenti per finire ai traffici illegali che avevano fatto la loro comparsa nella vita economica della comunità. Ai cartigli di osservanza affissi sulle pareti della chiesa: ”Le donne sono tenute a un comportamento di decenza e pudore nella casa del Signore”, oppure: “La persona civile e devota non sputa in terra e non bestemmia”, ne fece aggiungere altri con svariate raccomandazioni e divieti. Un vero sbarramento, un vallo che dissuadesse il Tentatore dal voler imporre i suoi modi e metodi alle anime deboli dei renesi, fiaccate dalla licenza e dalla rilassatezza dei costumi. Ogni predica di Padre Bartolomeo, per la veemenza e l’ardore dei toni, per l’efficacia realistica delle metafore e delle allegorie, si trasformava in un tour illustrativo circostanziato della regione degli Inferi, e i fedeli, al termine di ogni sermone, ritenevano probabile, anzi certissimo, un loro futuro soggiorno a carattere permanente in quelle tenebrose plaghe.

«La situazione migliora – riferí con soddisfazione don Calderi qualche giorno dopo. – La gente si confessa, viene alle funzioni piú numerosa, e anche le offerte sono aumentate. Inoltre, in molti si stanno prenotando per la processione dei Battenti».

«Rendiamo grazie al Signore…» recitò, con una vena d’amaro nella voce, padre Bartolomeo.

«E alle vostre prediche anche – soggiunse l’altro – non siate modesto!».

Il domenicano appariva deluso. Dopo una breve pausa osservò: «Vorrei che anche i ladri del tesoro la pensassero come voi sull’efficacia delle mie omelie. Finora, però, non si è fatto vivo nessuno».

drappi viola«Non disperiamo – esortò mansueto don Calderi – tutto è ancora possibile. Dobbiamo perseverare…».

Scortata dalle prediche di padre Bartolomeo e dalla perseveranza di don Calderi, si approssimava intanto la Pasqua. Già dalla Quaresima drappi viola avevano celato le immagini sacre, le statue dei santi e i crocefissi.

«Quest’anno – aveva deciso don Calderi, come preso da una ispirazione – ripristiniamo il Golgota. Ho già chi farà la parte del Cristo. Mancano i due ladroni…».

Quest’ultima affermazione parve suonare paradossale dato il numero dei trasgressori patrimoniali reperibili nella comunità renese. La considerazione attraversò la mente di padre Bartolomeo, che la tenne molto diplomaticamente per sé.

La cerimonia del Golgota, che voleva rievocare in forma scenografica la crocefissione sul Calvario, faceva parte della liturgia pasquale nella tradizione religiosa del paese. Abolita nel periodo bellico, appariva ora a don Calderi quanto mai adatta alla temperie di sbandamento morale di cui soffriva la popolazione dei suoi parrocchiani. Il ruolo di Gesú era già stato appannaggio di Pantaleone, ebanista e pittore, eccentrica eminenza nel gotha artistico di Rena Minore. Come mai quella prerogativa, quali erano i motivi reconditi che spingevano quell’uomo di talento a farsi issare mezzo nudo sul legno della croce e restarci per quelle tre ore buone che durava la cerimonia nel pomeriggio del Venerdí Santo? Si vociferava si trattasse di ragioni sentimentali, delusioni di gioventú, un amore finito male, altri dicevano un trauma dovuto ad una grossa perdita al gioco.

Se incerte e opinabili erano le motivazioni che costringevano Pantaleone a quella sua pratica devozionale, evidenti erano per contro gli attributi anatomici che lo qualificavano ad impersonare il Cristo crocefisso: un fisico asciutto, nodoso, reso ancora piú scarno e patito dalle astinenze coatte del razionamento seguíto alla fame che la guerra aveva imposto, una fluente barba messianica, il tutto complementato da un irraggiamento verso l’esterno di un interiore indecifrabile rovello.

«Di meglio non si potrebbe trovare» aveva detto don Calderi riferendo di lui al frate predicatore.

«E come farete – obiettò questi – se non trovate i due ladroni?».

Il vecchio parroco ebbe un attimo di perplessità. Poi replicò, deciso: «Vuol dire che ne faremo a meno. Dopotutto – aggiunse – si tratta di una rappresentazione simbolica. Sulle due croci vuote ci sentiremo inchiodati un po’ tutti, non vi pare?».

Si giunse in un baleno alla Settimana Santa. La domenica delle Palme mani devote e abili confezionarono panarielli di fibre ricavate dalle lunghe foglie dell’albero esotico, e con virgulti freschi di vimini i serti intrecciati, che culminavano in tenui creste flessibili: i bambini li portavano, dopo la benedizione in chiesa, come trofei per le strade. Insieme ai ramoscelli d’olivo riempirono le case, garantendone per un anno l’immunità dalle discordie.

Sul pavimento del transetto destro, Pantaleone e il suo aiutante Biagio avevano composto una drammatica illustrazione dell’agonia di Gesú nell’Orto degli Ulivi. Usando pimenti, polveri e gessi colorati, erano riusciti ad animare una scena ricca di tagli di luci e ombre in contrasto, ispirandosi alle atmosfere caravaggesche. Una versione espressiva dei Sepolcri.

Il Martedí Santo le donne cominciarono a portare i vasi di creta contenenti i germogli di grano appena spuntato. Le infiorescenze di un giallo dorato stemperavano i toni corruschi della composizione pittorica: fresche, rigogliose, testimoniavano l’avvenuto risveglio della terra e il passaggio dall’inverno alla primavera. Per due giorni si era protratto il flusso dei fedeli recanti quegli omaggi arborei, tanti che la vista del mosaico di Pantaleone e di Biagio ne era compromessa.

La mattina del giovedí vennero legate le campane: iniziava la Passione di Cristo. Al posto dei campanelli, le funzioni venivano scandite dal suono dei crepitacoli di legno che chierichetti e serventi agitavano ritmicamente.

Nel pomeriggio di quello stesso giorno don Calderi si trovava nella sagrestia per coordinare la preparazione della sfilata dei flagellanti per il giorno seguente. I partecipanti venivano, ritiravano i camicioni bianchi, prendevano nota dei dettagli organizzativi e se ne andavano. Osservandoli, contro ogni aspettativa, apparivano devoti, disposti a percorrere viottoli e sterpaie, scalinate e dirupi, dalla mattina presto del venerdí fino al tardo pomeriggio dello stesso giorno senza mangiare e senza bere. Ferrei penitenti nei propositi, ma nessuno che avvertisse il bisogno di impersonare i ladroni. Mancava lo slancio del vero sacrificio mistico, e il vecchio arciprete se ne doleva assai.

Dopo che l’ultima delle comparse ebbe ritirato camice, cappuccio e mozzetta, erano rimasti in piedi, nel mezzo dello stanzone, due degli aspiranti.

«I camici sono finiti» si affrettò ad informarli Cosimo, il sagrestano.

«Noi veramente siamo venuti per il Mistero del Golgota. Abbiamo saputo che servono i due ladroni» rispose quello che fungeva da portavoce.

Don Calderi si ravvivò di colpo, come Tobia alla vista dell’Angelo. Per la verità, l’aspetto dei postulanti che se ne stavano, coppola in mano, in fronte al prevosto e a padre Bartolomeo, poco aveva di angelico, ma data la situazione e l’impiego che se ne doveva fare…

«Lo sapete – chiarí il parroco – si tratta di una prestazione di grande impegno e fatica, e senza remunerazione…».

«Ma noi lo facciamo per sciogliere un voto – precisò l’incaricato al colloquio – non pretendiamo niente».

«Bene – concluse don Calderi, che faticava a trattenere l’esultanza – trovatevi qui domani nel primo pomeriggio, se possibile in stato di grazia e digiuni».

«È già un miracolo che siano entrati in chiesa!» esclamò Cosimo non appena i due se ne furono andati.

«Chi sono?» domandò padre Bartolomeo.

«Due povere anime smarrite!» fu la risposta evasiva del parroco.

«Altro che smarrite – precisò con un puntiglio inclemente il sacrista – ne sanno qualcosa i vagoni e i camion che hanno svaligiato a Napoli! Papele e Filuccio… ve li raccomando!».

«Cosimo, Cosimo! – ribatté in tono di rimprovero don Calderi – dovresti essere contento che abbiamo trovato degli attori adatti alla parte. E chissà – aggiunse ispirato – chissà che una volta lassú, legati a quelle tavole di legno, qualcosa non li faccia pentire!».

«Uhm – mugugnò scetticamente lo scaccino – quelli sono ferri duri da forgiare! Comunque, contento voi…» e sparí nel riposto adiacente alla sacrestia, dove lo attendeva la pulizia delle bacinelle in cui la mattina i dodici vecchi, scelti per rappresentare gli Apostoli, avevano immerso i piedi. Don Calderi e gli altri officianti si erano prodigati con umiltà all’abluzione delle rinsecchite estremità dei vegliardi, rievocando in tal modo un episodio della vita di Gesú nelle ore precedenti il martirio. E sempre in ossequio alla cronaca della Passione e della Pasqua, ai vecchi erano stati dati trenta soldi per ricordare il tradimento umano nei confronti del Redentore, e infine a ognuno un limone doveva rammentare la consumazione delle erbe amare, rituale ebraico di penitenza a commemorazione del passaggio del Mar Rosso e della lunga peregrinazione nel deserto prima dell’arrivo nella Terra Promessa. Sempre nel corso della toccante cerimonia, erano stati benedetti i pani ritorti e i casatielli salati, contenenti sotto cordelle di pane incrociate le uova sode, simbolo di pace e prosperità, di rigenerazione della vita.

Al termine di quella memorabile giornata, don Calderi si sentiva ridotto a brandelli, con le ossa rotte e i piedi dolenti. Ma la certezza di aver reclutato Papele e Filuccio, ex bastagi di piazza e di paranza, deviati dalla guerra sulle vie traverse della malavita, lo rendeva felice, euforico.

«Voi ci credete alla storia del voto da sciogliere?» insinuò con tatto padre Bartolomeo durante la cena in canonica.

«Sí, ci credo – ammise senza esitazione il parroco – saranno dei banditi, dei pirati, dovrei diffidare, ma come posso rifiutare loro l’occasione di redimersi? Anche se non fossero sinceri, Dio è piú forte dei loro trucchi… Sono fiducioso nella Provvidenza!».

La processione dei BattentiTutto si svolse secondo il copione. La mattina del Venerdí Santo partí la processione dei Battenti. Intanto in chiesa, in un angolo del presbiterio, quasi a ridosso della predella dell’altare maggiore, si approntava la scenografia del Golgota. Tre croci issate su cavalletti di legno grezzo, intorno luci schermate, altrimenti torcioni e candele. I due ladroni si presentarono puntuali e insieme a Pantaleone presero posto sui legni del supplizio. Grosse funi li assicurarono ai montanti e alle traverse, mentre un accorgimento ingegnoso sotto le piante dei piedi consentiva ai tre di poggiare il peso del corpo senza scivolare in basso.

Quando entrarono i Battenti, il pomeriggio sul tardi, e la navata risuonò dei loro canti vibrati, degli assolo e dei contrappunti spinti agli acuti sottili, flebili, soffiati quasi, don Calderi, osservando la folla che assiepava la cattedrale, i penitenti incappucciati, logori, provati nel corpo e nell’anima, vedendo con stupefatta pietà mista a raccapriccio i tre sui patiboli nel lividore delle luci, concluse mentalmente che mai nella storia liturgica del paese si era avuta una rappresentazione devozionale di altrettanta intensità e suggestione emotiva.

La predica fu memorabile. Nel silenzio abissale della grande chiesa, i simbolismi del domenicano, le sue immagini, i dotti riferimenti e richiami, le perorazioni, echeggiarono con un impatto solenne, penetrante, muovendo le corde piú intime delle anime in ascolto. Inferno, purgatorio e paradiso si alternarono sul proscenio di quella materializzazione oratoria con una immediatezza sconvolgente e una consistenza che sfiorava il prodigio.

«Siete stato insuperabile» si complimentò con lui don Calderi alla fine della funzione, mentre nella sagrestia faceva ressa il pubblico dei fedeli perché voleva vedere e toccare i figuranti della processione, soprattutto Pantaleone e i due suoi compagni di martirio. I tre rivestivano a quel punto un tratto quasi feticistico, e poterli sfiorare solo con le dita equivaleva a operare un transfert emozionale di grande intensità.

«Dove sono i due ladroni? – chiese don Calderi rivolto a Cosimo. – Prima di andare volevo ringraziarli e offrire loro un bicchiere di vino buono. Saranno sfiniti…».

Ma di loro non si trovò traccia, nonostante i tentativi di ricerca che il sagrestano effettuò per l’intera basilica. Erano spariti dopo essersi rivestiti nel riposto.

«Spero – aggiunse padre Bartolomeo – che almeno il loro voto sia stato sciolto».

«A dire la verità – dichiarò ingenuamente Cosimo – legati a quelle croci erano impressionanti, tanto sembravano uguali agli originali».

Don Calderi non seppe se cogliere una malignità nelle parole spontanee del sacrista, oppure se esse erano il segnale della impressione che tutti avevano ricevuto da quella rievocazione scenica.

«Certo – confessò piú tardi a padre Bartolomeo – i chiamati sono stati tanti, quest’oggi. Speriamo che tra loro ci fosse anche qualche eletto».

Un sole radioso inondava la sagrestia la mattina del Sabato Santo. Don Calderi, padre Bartolomeo e gli altri celebranti stavano indossando i paramenti per le funzioni che avrebbero sancito la Resurrezione di Cristo. La liturgia prevedeva infatti lo scioglimento delle campane e il ritorno al rituale consuetudinario. Con l’occasione le donne portavano in chiesa i bambini da poco nati e quelli che, avendo superato l’anno di età, si trovavano nella condizione di potersi ‘lasciare’ a camminare, liberi dalla tutela delle madri. Per far loro muovere i primi passi, si sceglieva quel particolare giorno ritenuto propizio, poiché coincideva appunto con l’affrancamento di Gesú dalla pania della morte fisica.

Sopraggiunse ad un tratto Cosimo con un involto tra le mani. «L’ho trovato nello stipo dei camicioni – annunciò – sotto un piviale».

Il pacchetto, confezionato con carta velina e spago grosso, venne svolto da don Calderi con circospezione, sotto gli occhi curiosi di tutti. Quando il contenuto fu visibile, il parroco esclamò: «Il diadema della Beata Febronia!».

«Ci sono anche le catenine e le collane!» notò pronto il sagrestano. E poi, subito diffidente: «Ma ci saranno tutte?». Nessuno reagí a quella insinuazione.

«Dio sia lodato» fu il commento di padre Bartolomeo.

«È un miracolo questo – ripeteva il vecchio prete – una grazia immensa! Andiamo a riportare questi oggetti alla legittima proprietaria».

Dopo che il tesoro ebbe ripreso il suo posto sulla statua nella cripta, padre Bartolomeo e gli altri tentarono di condurre una piccola indagine sul come e sul quando il maltolto era stato restituito, e da chi soprattutto.

«Chi si è spogliato nel riposto?» domandò per prima cosa il predicatore rivolto al sagrestano.

Cosimo non aveva dubbi: «Per me – affermò deciso – sono stati quei due, i ladroni!».

Don Calderi non era del tutto convinto. Obiettò: «Ma come fai ad esserne certo, se qui ieri pomeriggio sono passati a centinaia tra Battenti e pubblico dei fedeli, prima e dopo le funzioni?».

Cosimo ribatté, ostinato: «Lí dentro, però, sono entrati soltanto i due, Papele e Filuccio, e Pantaleone, oltre, si capisce, al sottoscritto…» e disse l’ultima frase rivolgendo un’occhiata di sfida al canonico, che ricambiò, sorridendo con indulgenza.

«Ma no, Cosimo – celiò bonario don Calderi – non farne una questione personale. Chiunque sia stato a depositare il pacchetto nello stipo, non ha importanza. Quello che veramente conta è il fatto che il ladro, o i ladri, come sostieni tu, si siano pentiti. Tanto basta. Febronia è contenta, ne sono convinto».

«E come intendete regolarvi con le autorità civili? Le metterete al corrente dei nuovi sviluppi, dei sospetti?» domando padre Bartolomeo.

CampanileIl parroco meditò un attimo prima di rispondere: «Naturalmente le informerò del ritrovamento e ritirerò la denuncia. In fondo, sono saliti sulla croce spontaneamente, se sono stati quei due. E se fossero altri, intendo qualcuno confuso alla folla, che ha ascoltato la vostra predica… vuol dire che c’è stato pentimento, come un’ammissione di colpa, una confessione. E noi dobbiamo rimettere i peccati». Poi, cambiando tono e diventando sbrigativo: «E inoltre, come si dice, sono panni da lavare nella casa del Signore. Qui vige la legge del perdono, e noi quella osserviamo. Fuori, giudici e tribunali sono costretti a giudicare e, in ossequio ai codici, a condannare i colpevoli o ad assolvere gli innocenti. Non possono fare altro».

Dei bambini portati in chiesa per la benedizione del Sabato Santo, si ‘lasciarono’ a camminare tutti. Fu una meraviglia vederli staccarsi dalle braccia delle mamme e affrontare in equilibrio l’azzardo del vuoto.

Le campane, suonando a distesa, rimescolarono con le loro onde incalzanti l’aria torpida, rigenerandola.

Pasqua fu un esplodere di gemme, di fiori, strepiti di voli dalle gronde, dalle piazze.

Il lunedí mattina, festa dell’Angelo, padre Bartolomeo lasciava Rena Minore con una carrozzella a nolo. I paesani erano sulle mosse di buonora per recarsi alla scampagnata, ‘all’erba’, come dicevano nel loro gergo essenziale. Portavano ceste e panieri. Lo salutarono con rispetto, allegramente. Andavano verso gli altipiani, dove i prati li avrebbero accolti con il loro tappeto di infiorescenze novelle. Per un attimo quasi li invidiò, si rammaricò di non essere con loro a dividere la schietta serenità che costituiva in fondo la vera ricchezza. Quanto alla sua, doveva affidarla alle parole, nobili e sentite, della lettera di elogio e ringraziamento che la comunità parrocchiale gli aveva indirizzato al termine della funzione della domenica mattina. Complimenti, congratulazioni, riconoscenza, perché grazie al suo impegno molte anime, cosí diceva la lettera, avevano ripreso la carreggiata della virtú e della fede. Questo era ciò che egli riportava da quella sua esperienza per molti versi eccezionale. Un passo dell’attestato di stima riferiva anche la felice conclusione della restituzione “per mano di ignoti” del tesoro di Febronia.

Tutte quelle eleganti e ossequiose parole di elogio per un attimo lo inorgoglirono.

«Volete che alzi il mantice?» chiese il vetturale, facendo uscire le parole dal segmento di labbra non impegnate a trattenere un mezzo toscano spento. L’uomo teneva sollevata la frusta e attendeva per avviare la carrozza.

«Andate come vuole il cavallo» rispose pacato padre Bartolomeo. Poi aggiunse: «Il mantice lasciatelo abbassato. Mi va di prendere un po’ di sole». E mentalmente proseguí, dicendo a se stesso che alla Certosa ne avrebbe preso poco o nulla nei giorni a seguire.

Il vetturale fece schioccare la frusta una sola volta, il cavallo si mosse e i sonagli che festonavano il collare e la tirella tinnirono allegramente.

«Bella predica quella di venerdí» disse a un tratto il fiaccheraio, voltando leggermente il capo verso il passeggero.

«Vi è piaciuta?» chiese lusingato il domenicano.

«Eccome! – confermò l’altro. – Se tutti i preti parlassero come voi, io in chiesa ci andrei tutti i giorni, ve lo garantisco!».

«E voi andateci lo stesso, anche senza le prediche…».

Fu mentre ascoltava le lodi del vetturale che padre Bartolomeo avvertí chiaramente il pericolo, la tentazione della superbia. Sí, certo, pensò con preoccupazione, era evidente che insieme a lui, sul sedile trapunto della botticella, viaggiava il Nemico di sempre, l’Adulatore. Quelle parole, la lettera… Ricordò come San Domenico, tornando al convento dopo le prediche agli eretici, invece di gloriarsi si gettasse tra i rovi e digiunasse per esorcizzare il peccato d’orgoglio, tallone d’Achille degli uomini di fede e di scienza.

Quel pensiero lo turbò, mettendogli addosso un bruciante disagio. Sentiva che stava lí lí per scivolare nella trappola della vanità. In fondo, ragionò, cosa aveva realizzato di tanto straordinario? Parole, una dietro l’altra, incastrate sapientemente, semplici astuzie dialettiche, artifizi retorici, che altro? La grazia che aveva toccato il cuore dei ladri, o del ladro, e di qualche altra anima, lo sperava, del tormentato gregge affidato alle cure di don Calderi, non era opera umana, non sua in ogni caso. Veniva dall’alto, da molto piú in alto della sua minuscola virtú oratoria.

Dai giardini a monte della strada, dai piú lontani pendii delle colline, dal mare, giungevano gli echi di voci che si chiamavano, si scambiavano pulsioni e umori. Era la vita, semplicemente la vita. La dimensione umana dove Bene e Male conducevano una battaglia, a volte scoperta, a volte subdola, una partita la cui posta finale era l’uomo. Ladri, predicatori, abati, vetturali. Tutti sospesi al giudizio e alla remissione. Tasselli insostituibili del grande mosaico universale.

Trasse dalla busta il foglio della lettera. Lo aprí, lo lesse per l’ultima volta. Poi, lentamente, lo ridusse in minuti brandelli, in particole inconsistenti. Le tenne per un attimo sul palmo della mano. Finché un alito di vento piú forte, calando dal cielo come un rapace, fulmineo le catturò, le disperse nella vastità abbacinata del mare. Padre Bartolomeo si riassestò soddisfatto nel sedile. Adesso viaggiava veramente comodo, e in buona compagnia.

 

Fulvio Di Lieto