Due episodi collegati al tema lacrimale hanno di recente interessato i media e l’opinione pubblica. Il primo, evidenziato su internet, portava all’attenzione degli entronauti l’esistenza in Giappone dei locali in cui si svolgono i Rui Katsu, le sessioni, o sedute, del pianto. Soprattutto gli executive di grandi aziende, stressati dal troppo lavoro – ciò che del resto ha collocato il Giappone al terzo posto tra i Paesi industrializzati del mondo – si rifugiano in queste oasi da cui sono banditi calcoli e conti, strategie e rischi finanziari, algoritmi e trading estremi. Solo immagini video sapientemente calibrate in toni e modi tali da muovere a commozione il soggetto e portarlo al completo sfogo liberatorio. Al dunque, una disperata quanto incongrua, patetica strategia di sopravvivenza. Che però, stando ai risultati, sembra funzionare: sospiri e singhiozzi, in cordata o in solitaria, alleviano le pene di chi pratica tale disciplina, se di una disciplina si può parlare, evitando complicanze piú gravi e irrecuperabili. Giudicati in termini consumistici, i Rui Katsu rappresentano i Mac Donald della catarsi.
E non altro che la catarsi liberatoria dalle nevrosi dí angoscia ha da sempre cercato l’uomo, costruendosi immagini, dando vita a forme suggestive, evocative, diteggiando strumenti musicali, enucleando prodigi cromatici dalla materia atona e inerte. Foggiando la parola in cadenze e sonorità.
Il cinema per anni, finché è stato liturgia spettacolare collettiva, ha rappresentato una catalisi di emozioni a buon mercato. Si andava a cinema per commuoversi, per piangere a cataratta, o per sganasciarsi dalle risate, essendo il pianto dirotto o il riso viscerale le due facce della stessa medaglia catartica.
Poi l’intellettualismo ha toccato schermi e platee, e pianto e riso hanno virato in sbadigli o in rovelli freudiani, che hanno soltanto aggravato lo straniamento animico di un’umanità orfana. Quanto orfana e in abbandono si trovi la società umana in generale e italiana in particolare lo si è visto domenica 28 maggio scorso, allo stadio olimpico di Roma, dove centomila spettatori, anime in sofferenza, hanno inscenato un Rui Katsu massivo per celebrare l’addio di Francesco Totti alla Roma. Il Pupone ha fatto parte della squadra capitolina per 25 anni. Un record di fedeltà alla Lupa. Hanno pianto tutti, persino i supporter della squadra avversaria. Un subisso di lacrime dagli occhi di donne anziane e fanciulle in fiore, omoni atticciati e bulli tatuati hanno lottato per dominare i sussulti di pianto represso, ma le lacrime maltrattenute roteavano negli occhi ferini, li arrossavano.
Insomma, se i pali delle porte avessero i dotti lacrimali, anche il loro legno avrebbe pianto per Totti. Il numero 10, con la generosità e la spontaneità che lo connotano, ha partecipato alla commozione generale e il suo carismatico profluvio, tuttavia ben controllato, è stato ripreso e trasmesso in diretta. Sequenze di una catarsi generale che ha trasformato per alcuni minuti uno stadio di calcio nell’Odeon di Atene, durante la rappresentazione di un dramma di Eschilo. Potenza dei sensi al loro acme espressivo ed effusivo, dramatis personae i giocatori, corifei gli spettatori.
Un evento chiave per comprendere il mistero del cuore umano cosí rapido nel passare dal dramma alla commedia, dal riso al pianto, secondo gli umori e le cadenze del tempo e delle passioni. E l’uomo è un tale mistero da sempre. Odia e uccide, ama e rimpiange, con la stessa facilità e intensità, la realtà di cui fa parte.
Siamo a Sparta, nella reggia degli Atridi. Troia è caduta dopo dieci anni di assedio, e grazie al cavallo di legno escogitato dall’uomo di multiforme ingegno, Ulisse, l’esercito degli Achei è rientrato in patria. Non senza contrasti e intralci da parte degli Dei e degli elementi avversi, attraverso peripezie di ogni sorta: ciclopi, arpie, sibille, maghe e quant’altro. Menelao ha impiegato otto anni per ritornare a Sparta, dopo aver recuperato la sua Elena, casus belli del conflitto. Il re dal biondo crine, a detta di Omero, siede sul trono, superstite al fratello Agamennone, vittima di una congiura di palazzo, in cui è stata subdolamente coinvolta la regina Clitennestra dai raggiri capziosi di Egisto, reggente di Sparta per procura del re assente. A sistemare le cose interviene Oreste, figlio della real coppia, il quale, vendicando il padre, elimina la madre, regina e moglie infedele, e il di lei amante fedifrago reggente.
In questa situazione da tragedia greca capita il giovane Telemaco che si è mosso da Itaca alla ricerca del padre Ulisse. Sono ormai trascorsi quasi vent’anni da quando lasciò la sua isola e il suo regno pastorale per la spedizione contro i Dardani e Troia. Di tutti gli eroi partiti per l’impresa, molti sono dati per certo caduti, chi sul campo chi nelle traversie del viaggio di ritorno. Altri sono ritornati, per trovare spesso sgradevoli sorprese in seno alla famiglia e nel reame, come appunto Agamennone. Fra i grandi, Ulisse è dato per disperso, e nel suo palazzo di Itaca si sono installati i Proci, i giovani aristocratici, la cui unica occupazione è la crapula grassa, intervallata da prove di abilità ginnica e combattiva, queste ultime attività per stabilire chi sia il piú valido tra loro e quindi il piú degno di impalmare la bella regina Penelope e salire cosí i gradini del trono di Itaca, vacante ormai da vent’anni, essendo il titolare Ulisse, in uggia a Nettuno, quasi certamente finito in uno dei tanti fortunali scatenati dal dio marino per vendicare l’accecamento di Polifemo, suo rampollo.
Ulisse, quindi, non tornerà piú, tanto vale rassegnarsi e dare al piú presto un nuovo re a Itaca, non essendo Telemaco in grado, per la giovane età e l’inesperienza, di occupare un posto di cosí alta responsabilità.
Penelope, insidiata dai Proci scialacquatori, che le stanno dilapidando le scorte alimentari e rovinando mobilio e vasellame, si defila dalle profferte nuziali, ricusandole e rimandando sine die gli sponsali con il celebre escamotage della tela tessuta di giorno e disfatta la notte. Ma Telemaco è sí giovane e inesperto ma, figlio di un siffatto padre, è scaltro da mettere nel sacco mille Proci rammolliti. E poi ci sono gli Dei e le Dee. Minerva, sotto le mentite spoglie di Mentore, lo spinge a cercare il padre ancora vivo ma alle prese con l’ostilità non solo del detto Nettuno, ma di Apollo, adirato come solo un nume può essere, con la ciurma dei Greci che, sbarcati in Sicilia, hanno banchettato con le sacre giovenche del dio.
Telemaco arma quindi una nave e salpa alla ricerca del derivante genitore.
Questi i dati contenuti nei poemi omerici, nello specifico l’Odissea, scritta molti anni dopo lo svolgersi degli eventi. Per cui, quando Telemaco parla del padre con Menelao, citano entrambi i sentito dire, i vaghi e fantasiosi racconti di reduci e giramondo, nulla di concreto e garantito per l’attendibilità. Ciò malgrado, tutti i presenti al banchetto in onore del giovane ospite sono mossi al pianto.
Cosí, Omero, nel Libro Quarto dell’Odissea: «Sorse in ciascuno a tai parole un vivo / di lagrime desío. Piangea la figlia / di Giove, l’Argiva Elena, piangea / d’Ulisse il figlio ed il secondo Atride; / né asciutte avea Pisistrato le guance…». Insomma, piangono tutti, e il convito rischia di trasformarsi in una veglia funebre. Donna di mondo in tutti i sensi, interviene Elena, che risolve la penosa situazione propinando ai convitati un liquore che agendo sulla sfera astrale stempera il dolore e acquieta i sensi, inducendo a una dolce dimenticanza.
Ma cosa in definitiva dovevano obliare il re Menelao, la bella Elena e gli altri reduci dalla guerra? Un pianto cosí intenso poteva giustificarsi con le fantasiose e vaghe congetture sulla fine di Ulisse? Il filtro mescolato al vino nelle coppe è il favoloso “nepente”, un forte ansiolitico ante litteram. Sí potente era il farmaco, secondo Omero, da indurre chi lo assumeva a una totale atarassia, per cui: «Lagrime non gli scorrono dal volto / non se la madre e il genitor perduto, / non se visto con gli occhi a sé davante / figlio avesse, o fratel, di spada ucciso». E la sorte incerta di Ulisse non lo giustificava. Il fatto è che per ben altri motivi Menelao, la bella e fatale Elena, Telemaco e gli astanti piangevano. Poiché se vaghe e incerte erano le vicende del nostos dell’armata achea verso i lidi ellenici, chiare e tremende erano le stragi che dall’una e dall’altra parte avevano insanguinato la Troade, i suoi fiumi, le sue rive e pianure. Basta leggere gli ultimi canti dell’Iliade, in particolare il Ventesimo, per conoscere di cosa è capace l’uomo in fatto di mattanza seriale, crudeltà mentale e relativa carenza morale.
Il modo in cui il semidivino Achille fa strage di troiani per provocare Ettore ad affrontarlo, non ha nulla da invidiare ai folli sadomasochisti postmoderni. Modus operandi umano che gli stessi dèi non disdegnano di adottare, al punto che se le danno di santa ragione come descritto da Omero nel canto successivo, il ventunesimo. Tratto bestiale che ha fatto scuola tra gli umani e impronta ormai la vita.
Ecco allora il pianto corale dell’Olimpico di Roma travalicare la figura di riferimento, Totti, certamente meritevole di omaggio ma non al punto da stimolare una simile catarsi, e chiamare al banco degli imputati gli Achille che, usando armi diverse dalla peliaca trave ma con uguale bestiale ferocia, compiono liturgie sanguinarie di morte, senza ostentare la plateale iattanza dell’eroe dei Mirmidoni.
Il quale, al funerale dell’amico Patroclo, non può esimersi dal rispettare la sequenza liturgica di ogni assassino seriale che, dopo l’uccisione subita, si propone di ritorcere sette volte sette, e come ogni orco che si rispetti, accanto alla pira che consuma il corpo del morto, imbandire lauti banchetti. «Miei diletti compagni e cavalieri – cosí parla agli Achei – non distacchiamo per ancor dai cocchi / i corridori: procediam con questi / a pianger Patroclo, a tributargli / l’onor dovuto ai trapassati. E quando / avrem del pianto al cor dato diletto, / sciolti i destrieri, appresterem le cene».
Cosí i Greci. Ma non da meno si comportano i Troiani celebrando il funerale di Ettore, il cui corpo straziato, restituito a Priamo da Achille, è consumato dal fuoco della pira. Toccante il pianto di Elena per il cognato, dal labbro del quale, «una sola maligna o dura parola mai non intesi». Dalle ceneri del rogo, i fratelli e i fidi amici, «pieni il volto di pianto e sospirosi», compongono le bianche ossa in un’urna d’oro. Un tumulo imponente viene rapidamente eretto e le ricopre, per evitare che mani ostili le profanino.
Terminata la pietosa opera, «tutti, in grande frequenza e nella vasta / di Priamo adunati eccelsa reggia / funebre celebrar lauto convito». Cosí, dice Omero, venne onorato il domatore di cavalli Ettore.
Ma la nemetica sequenza dell’uomo orco-mangione, al lauto convito nella reggia di Priamo, doveva far seguire l’atto conclusivo della tragedia di cui erano al contempo attori e vittime Greci e Troiani: il fuoco doveva consumare, dopo le spoglie mortali di un eroe, la ricca e potente città, le cui mura erano state costruite da Poseidone e Apollo. Bruciarono i palazzi, il Pergamon, l’acropoli della città.
«C’è una correlazione intima e costante tra le passioni che travagliano il mondo dei viventi e le forze che covano nelle viscere della Terra. Il Fuoco primigenio, il Fuoco creatore, chiuso e condensato in uno degli strati concentrici della Terra, è l’agente che provoca la fusione delle masse sottostanti la crosta terrestre, producendo le eruzioni vulcaniche. Non si tratta di un elemento cosciente, ma di un elemento passionale di straordinaria vitalità ed energia, che in modo magnetico risponde con giganteschi contraccolpi agli impulsi animali e umani. Questo è l’elemento luciferico che la Terra racchiude. Data questa corrispondenza astrale tra la vita animica della Terra e quella dei suoi abitanti, non sarà motivo di stupore il fatto che l’attività vulcanica del continente australe abbia raggiunto il suo culmine proprio alla fine di quell’epoca. Spaventosi terremoti squassarono la Terra dell’intera Lemuria; i suoi vulcani innumerevoli vomitarono torrenti di lava; nuovi crateri si aprirono ovunque, sputando zampilli di fuoco e montagne di cenere. Migliaia di esseri mostruosi, rannicchiati negli anfratti o aggrappati alle montagne piú alte, furono asfissiati dall’aria infuocata, o furono inghiottiti dal mare ribollente. Alcuni di loro riuscirono a sfuggire al cataclisma e riapparvero nell’era successiva. Ma gli uomini degenerati furono tutti spazzati via, assieme al loro continente che, dopo una catena ininterrotta di eruzioni, finí con lo sbriciolarsi e sprofondare nell’oceano».
Con queste immagini ricavate dalla cosmogonia steineriana, Edouard Schuré, in Evoluzione Divina, parla della Lemuria, nel momento in cui quel continente, nato dalla scissione della Pangea, va incontro alla sua distruzione. Cosa ne aveva provocato la catastrofica rovina? Secondo la scienza positivista, si trattò di uno dei tanti sconvolgimenti planetari cui è andata incontro la nostra Terra. La conoscenza spirituale e l’occultismo riferiscono invece di incarnazioni del nostro pianeta, organismo vivente, e della parallela evoluzione dell’umanità in simbiosi con le forze cosmiche e divine operanti. «La Terra è un essere vivente. La sua crosta solida e minerale non è che una piccola scorza rispetto all’interno, composto di zone concentriche di materia sottile, che sono gli organi sensitivi e generatori del pianeta. Ricettacoli di forze primordiali, queste viscere vibranti rispondono magneticamente ai moti che agitano l’umanità: tesaurizzano in un certo senso l’elettricità delle passioni umane, per rinviarla poi periodicamente alla superficie in enormi masse.
Ai tempi della Lemuria lo scatenamento dell’animalità brutale aveva fatto zampillare direttamente il fuoco terrestre alla superficie, e il continente lemurico si era trasformato in una specie di solfatara bollente, in cui migliaia di vulcani agivano per sterminare con il fuoco quel mondo brulicante di mostri deformi.
Ai tempi dell’Atlantide l’effetto delle passioni umane sull’anima ignea della Terra fu piú complesso e non meno spaventoso. Alla magia bianca, opera disinteressata dell’uomo in armonia con le potenze dell’alto, si oppose la magia nera, che si richiamava alle forze del basso sotto la spinta dell’ambizione e della lussuria. …Furono istituiti sacrifici cruenti. …Invece della pura bevanda dell’ispirazione divina si bevve il sangue nero dei tori, evocatore d’influenze demoniache. Rottura con la Gerarchia dell’alto, patto concluso con le forze del basso: fu la prima organizzazione del male, che ha solo generato anarchia e distruzione, poiché è l’alleanza con una sfera il cui stesso principio è la distruzione e l’anarchia. Là ognuno vuole piegare l’altro a suo profitto. È la guerra di tutti contro tutti, il dominio dell’avidità, della violenza e del terrore. Il mago nero non si pone solo in rapporto con le forze dannose che sono i detriti del cosmo, ma ne crea di nuove, con le forme-pensiero di cui si circonda, forme astrali, incoscienti, che divengono la sua ossessione e i suoi tiranni crudeli. Egli paga il piacere criminale di opprimere e di sfruttare i suoi simili, divenendo il cieco schiavo di carnefici piú implacabili di lui, fantasmi orribili, demoni allucinanti, falsi dèi che egli ha creato».
Questi pensieri di Schuré potrebbero sembrare elucubrazioni apocalittiche non piú sostenibili. Ma la realtà che ci circonda ce ne conferma la tragica attualità e aderenza a personaggi e contesti piú vari. A un certo punto della sua opera, apocalittica in senso profetico, Schuré afferma che «di secolo in secolo il male si accumulò…», e noi vediamo una bolla di pulsioni astrali rattenute, un grumo di dolore non sciolto, premere nei precordi dell’uomo singolo, di un manipolo di guerrieri, di una folla di spettatori in un campo di calcio, e provocare quel pianto che non è solo per un campione che lascia la sua squadra, alla quale è stato fedele, al cui successo ha contribuito con genialità e schietta umanità. La folla dell’Olimpico, il manager nipponico che piange sulla spalla mercenaria di un operatore o di un’operatrice lacrimale, l’Achille vanaglorioso e autoreferenziale che si taglia una ciocca di capelli per bruciarla sulla pira funeraria insieme al corpo dell’amato Patroclo, la pentita Elena, tutti questi esseri di carne e sangue recriminano le proprie incapacità e omissioni di salvare le cose buone e belle della vita, poiché si rendono conto a un tratto, con sgomento e dolore, che persiste una umanità che ama, odia, uccide, banchetta, con la stessa disumana noncuranza.
E la nostra sensibilità ci rende avvertiti che ogni tragedia, come quelle della Lemuria, di Atlantide, di Troia o di Sodoma e Gomorra, possono ripetersi. Sta a noi vigilare, essere desti allo Spirito dell’Alto. Suscitare in noi le forze che sappiano dominare le passioni distruttive, per non rimpiangere la vita, la bellezza, l’armonia: rarissime, variopinte farfalle che un gesto può sciupare, per sempre annientare. Non serviranno dopo le lacrime ad assolverci.
Poiché da Caino e Abele l’Iliade si ripete, con modi e strumenti diversi, ma con lo stesso esito: il sangue umano sparso, che sia il prodotto di una singola uccisione o dell’ecatombe di milioni di esseri.
Scorre e si accumula, di secolo in secolo nella sentina del subconscio collettivo dell’umanità. E da succo peculiare, quale è secondo Steiner, il sangue dell’atto efferato vira in tossico, sviluppa nel portatore, oltre al rimorso, pulsioni autodistruttive. Oggi si chiama Blue Whale, ma nel tempo storico ha avuto molti epiteti: cupio dissolvi, genocidio, soluzione finale. Cosí come l’essere umano è geniale nell’inventarsi strumenti di alta tecnologia costruttiva, lo è anche nell’escogitarne di perversi e fantasiosi, fino a procurarsi l’autoeliminazione seriale, derivante da una tecnologia usata male. La Silicon Valley, ad esempio, spegnendo il genio sorgivo dell’uomo poetico, lavora a plasmare un succube cerebrale dell’ordine globale cibernetico.
L’umanità ha vissuto mille guerre di Troia, e ora, decimata e stanca, imbrattata del sangue degli eccidi ma con il tablet di ultima generazione in mano, sta percorrendo il suo nostos, la via del ritorno a Itaca. Il navigatore fornisce, con voce neutra e distaccata, le coordinate per arrivare alla meta. Non dice cosa e chi vi troveremo: Ciclopi, arpie, strigi o, aggiornando, una bolletta pazza delle tasse, un avviso di sfratto, un occupante abusivo di casa nostra. Non ci resterà allora che piangere, come diceva in un suo film il compianto Massimo Troisi, che però, da buon napoletano, possedeva la ricetta per volgere in allegria e speranza ogni traversía esistenziale.
Sarà forse la ricetta giusta anche per noi, per l’umanità intera, adesso piú che mai in balía del mare burrascoso del relativismo: notte cupa e senza stelle. Per non naufragare, come usava un tempo sulle navi incappate nella tempesta, dobbiamo gettare in acqua il superfluo, le ridondanze, tutti gli oggetti che ci legano al giogo arimanico. Leggeri, sollevati, potremo allora approdare all’isola felice, dove è il giardino incantato che perdemmo, la Valle ritrovata del sorriso.
Ovidio Tufelli