Il pensiero è la risorsa prima che l’uomo trova sempre pronta in sé, in quanto ne è portatore congenito: l’antidoto naturale (anche se non proviene dalla sua costituzione fisico-sensibile, ma da quella metafisica) per ristabilire armonia ed equilibrio interiori; in definitiva per la salute dell’anima e la centralità del sé.
La risorsa del pensiero viene chiamata “facoltà”, altre volte “capacità”, oppure “attività”, ma credo sia quest’ultima la definizione migliore, in quanto il pensiero è vero proprio quando è attivo, dinamico, diretta espressione di una forza ancora sconosciuta, ma che si lascia di continuo conoscere.
Tramite il pensiero che realmente pensi si concretizza il compito umano, si invera il motivo del perché abbiamo ricevuto una vita da vivere come uomini, sulla terra: “come uomini” è il fatto di natura, “da uomini” è l’impresa da attuare volitivamente.
Tutto ciò si identifica in tre momenti che si possono distinguere anche teoricamente disgiunti:
1. con il pensiero avviene uno stacco dalla ordinaria natura psicofisica e dai condizionamenti che questa, comunque, impone al nostro essere;
2. con il pensiero ci si accosta alle forze dello Spirito, ovvero a quella fonte di Vita, di Luce, di Amore di cui e per cui vive l’universo tutto;
3. con il pensiero si crea e si rafforza nell’anima una zona in cui la particolare elevatura cosciente permette all’Io di manifestarsi per via diretta.
Questo rapporto, sorto e perdurante solamente grazie a un pensiero esercitato e consapevole di sé, è la base di qualunque forma di guarigione dai mali interiori ed esteriori che possano affliggerci. Uno dei sintomi di questi mali sta appunto nel credere in una oggettiva distinzione tra realtà interiore ed esteriore.
Ma altresí, osservandolo con attenzione, in questo rapporto appare l’esplicitazione di quello che, con voce dotta, chiamiamo karma, e che in buona sostanza equivale al significato di destino. In quest’ultimo termine tuttavia prevale un senso di ineluttabilità, e pertanto di rassegnazione, che non appartiene al valore del karma, ma proviene dalla sfera psichica emotiva, come rimasuglio di un antico reverenziale timore verso l’ignoto.
Per karma s’intende quindi il precipitato dei nostri trascorsi, delle passate omissioni e, per integrazione complementare, la direzione che gli eventi futuri dovranno prendere per offrirci in dono l’eventualità di un pareggio. È l’insieme dei compiti trascurati per debolezza e insipienza, quindi per tutto ciò che, alla luce del poi, dovremo svolgere per recuperare il perduto.
Ove conosciuto, non certo nello svolgersi degli avvenimenti ma come verità concettuale, il karma può operare attraverso l’uomo, avvalendosi del completo di lui apparato corporeo, senziente e animico, correggendo e indirizzando la rotta richiesta dall’Io, sempre smarrita e deviata, attraverso la ripetizione delle vite terrene.
Conoscere il karma in quanto verità concettuale, vuol dire riconoscere l’azione dell’Io all’interno del groviglio degli accadimenti. È una condizione estremamente particolare perché si scopre come e in qual modo, da fuori dello spazio e del tempo, l’Io sappia servirsi del nostro passato, riproiettandolo come corrente fattuale nella sequenza e nella dimensione dello spazio e del tempo attualizzati: ossia nelle forme non risolte che hanno reso tale ogni passato umano: natura e istinti connessi.
Non ci siamo mai definitivamente liberati dal passato, dalla natura e dagli istinti; semmai siamo caduti in brame che si sono presentate ogni volta diverse dalle precedenti, al punto di non ravvisarle, anche perché in fondo non le ricordiamo neanche; la rappresentazione di noi stessi “presi” nei vari ingranaggi tra stati progressivi d’istintualità è poco edificante, e la nostra coscienza, non preparata al compito, non ama prenderla in considerazione.
Attraverso il karma, l’azione dell’Io detiene invece la chiave della reale funzione liberatrice, ma perché una tale azione si compia è necessario che l’essere umano prenda atto di come funzionino le proprie cose, e di quanto la sensazione di libertà che talvolta egli può avere sia solamente un’illusione, un riflesso condizionato da una situazione interiore vincolata, che patendo il limite esprime l’anelito.
Sotto questo profilo, l’uomo è un ammalato incosciente; ove cominci ad esserne conscio, è un ammalato sulla via della guarigione. Questa tuttavia non può trovarsi sulla medesima strada sulla quale ha trovato le cause del proprio male; necessariamente il guarire diventa elemento di un percorso diverso, spesso esattamente opposto e contrario al primo.
Se l’azione trascorsa della natura e degli istinti ripresa dal karma diventa intellegibile per opera di un pensiero che trovi in sé la forza di pensarla, allora la virtú guaritrice comincia a operare come braccio dell’Io, e viene ristabilita la corretta posizione mediante la quale un’entità umana attraversa la sua vicenda terrena; non rifiutando o aggirando gli eventi che da questa vengono portati avanti; non sottraendosi ad essi o restandone paralizzata per la sorpresa o lo sgomento; ma incontrandoli volutamente e con gratitudine, in quanto il pensiero stesso che possano esistere delle cose che sorgono solo per attaccarci e farci del male, diventa, a quel punto, un pensiero di cosí basso profilo da non poter piú chiamarsi legittimamente pensiero, e di cui, in un attimo d’affrancamento, ci sarebbe da vergognarsi per averlo avuto.
In quanto alla libertà, fintanto che l’uomo è condotto dalla natura e dagli istinti, egli non è libero, o quanto meno è libero solo nella misura in cui, di volta in volta, può scegliere la brama o la passione da seguire per cercare ingenuamente di soddisfarla.
La sua anima si affaccia alla libertà per la prima volta, quando compreso, sia pure per larghe linee, il gioco in cui si è irretito, e quindi la presenza arimanico-luciferica quale padrona del gioco, decide di farlo cessare, e quindi si rivolge all’unico punto che non è sostenuto da impulsi naturali, da correnti telluriche, né da forze interiori legate a tutto ciò che del suo passato è rimasto irrisolto; tale punto è insito nella parte predialettica del pensare: è l’apriori del pensare, dal quale ogni ulteriore pensare conseguentemente discende.
Ripercorso sino a questa sua radice, dopo la quale altro non c’è se non la cerebralizzazione e quindi la morte del pensare immolantesi nel cranio umano, il pensiero sa scavalcare ogni impedimento che derivi dal passato e si propone come una nuova dimensione per l’anima: le fa intendere, anche a livello di sentimento, la forza di questo percorrere a ritroso i motivi della sua attuale condizione, e sostanzialmente la libera. Qui, adesso, il discepolo, in virtú della sua ascesi, si ricongiunge con lo stato originario del proprio sé, e in tale circostanza ha un contatto del tutto a-teorico con l’Io, che tramite il karma ha sin qui “tramato” per farlo giungere a lui.
Ciò in parte spiega, a chi studia la Scienza dello Spirito, le ragioni per le quali il cosiddetto karma operi indirettamente attraverso le forze del passato, delle tensioni paralizzate e degli impulsi che si sono espressi senza la contropartita di una conoscenza che, in qualche modo, poteva ricomporli o modificarli; e d’altra parte possa invece agire direttamente nell’interiorità piú coltivata di uomini devoti allo Spirito, unendosi al consenso e alla cooperazione di questi. Da dietro lo scorrere delle evenienze, è sempre l’Io ad agire, avvalendosi a seconda dei casi della necessarietà del karma oppure della libertà umana di volerlo incontrare.
L’appello alle forze superiori della coscienza deve per forza di cose suonare piú acuto e potente in anime addormentate e sognanti, che non in coscienze deste, in grado di scorgere nonché di correggere la propria rotta. Ma questa tuttavia è una legge karmica che deve venir conosciuta e accolta nella massima tranquillità, sapendo bene che a nessun essere umano può venir dato di sopportare fatti e situazioni di vita superiori a quelle che sono le sue effettive possibilità.
L’equivoco di fondo, al quale si fa di tutto per sfuggire senza ravvisarlo, è che l’uomo si crede un “Io” e come tale pensa di agire nel mondo; difficilmente gli passa per la testa il pensiero che il suo vero Io è una entità spirituale, posta al di fuori della condizione esistenziale, e che quel che egli sente in sé come “Io” è soltanto un surrogato, un reggente pro tempore, il quale non può e non deve arrogarsi i diritti che è convinto gli spettino.
Certamente tra l’Io superiore e quello inferiore il rapporto c’è. Se nel venire al mondo l’Io non avesse improntato di sé l’essere vivente, non avrebbe potuto esserci neppure il sostituto, che per l’appunto ne è il riflesso; funge quale coscienza dell’Io. In tale funzione non vi potrebbe essere alcun male, se non che esso, a contatto del fisico-sensibile, subisce il degrado e la corruzione dell’originaria forza spirituale di cui ebbe l’impronta: diventa ego, caduco, centripeto, bramoso, tanto quanto basta per agire non piú in nome dello Spirito bensí contro di Esso, opponendoglisi con la costanza di un irriducibile avversario. Non ammettendo il cambiamento (o tradimento, se vogliamo usare la parola forte) avvenuto in sé e per deficienza propria, deve per assurda coerenza alla codardia di cui s’è rivestito, dichiarare nemico dell’uomo, nonché pericoloso sovversivo, quel che gli appare Altro da Sé; Quel che in verità fu ed è solo pura Luce, Vita e Amore.
Ma lo è non secondo le leggi del mondo, non secondo le leggi della terra, non secondo i parametri dell’ego. E questo basta a far schiumare il piccolo io.
Ricordiamo quel passo tratto dai Promessi Sposi, in cui il Manzoni, dice testualmente: «Quel rapporto (l’informativa dei “bravi”) mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o a dir meglio, rese piú furibondo quello che già ci stava di casa».
Non che l’ego, per il fatto di essere ego, debba per forza essere pure ‘indemoniato’, ma certo che cosí com’è, esposto a tutto quel che materialmente riluce senza essere luce, poco ci manca. Il potere degli antichi Avversari dell’uomo è incessante e infaticabile. Se la coscienza non monta in cattedra e prende saldamente in mano le redini dell’evoluzione, questa rischierà di non verificarsi mai, anzi, il cumulo delle omissioni sarà destinato a raggiungere livelli abissali, difficilmente recuperabili nel succedersi delle vite successive.
L’andamento ricorda da vicino la crescita incontrollata del debito pubblico da parte dello Stato, ma purtroppo è cosí che funziona; se non si dà una potente, energetica virata alla nostra navicella prima che sia troppo tardi, allora, dopo, sarà sicuramente troppo tardi; nemmeno gli atti di ravvedimento, sia pure di carattere eroico, individuali o collettivi, sapranno arrestare il corso degli eventi che si faranno avanti a riscuotere il loro credito.
Bisogna prima sfatare un mito: studiosi, analisti e operatori economici, nonché esperti del mondo finanziario, non si sono mai posti il compito di “risanare” l’attuale sistema corrente per quanto perverso e amorale possa essere; costoro non perseguono ideali di giustizia, equità e stabilità in economia; mirano unicamente a gestire al meglio la loro quota di influenza sui mercati in relazione alla sfera personale di estrazione (politica, sociale, religiosa, militare ecc.), e attraverso apparati di sofisticata astuzia, compresi ovviamente quelli della moderna tecnologia, cercano nel marasma generale le occasioni piú ghiotte e proficue per rafforzare il potere da cui dipendono.
Questo vale non soltanto per l’ingabbiamento dell’umano entro il miraggio del denaro; se il discorso puntasse a qualunque altro tema essenziale per l’epoca che viviamo (carestie, guerre, catastrofi, geopolitica, ecologia, sanità, istruzione e altro) le cose non cambierebbero di una virgola.
Temo che perfino tra sedicenti “spiritualisti”, e le correnti cui possono riferirsi, l’andamento non sia molto diverso. Si mira al risultato, che deve essere sempre immediato, erompente e sensazionalistico, come una vincita tintinnante e fragorosa alla slot-machine.
Tutto ciò ci porta lontani in modalità astronomica dalla comprensione del karma e dal suo potere terapeutico.
L’errore che caratterizza il pensiero dell’epoca giunge da lontano e in un certo senso, ma fino ad un certo punto, il suo formarsi nel tempo trova una parziale compensazione nel fatto che l’avventura nel mondo fisico doveva sfociare nello scontro con una materia piú solida, massiccia e ostinata; risolvere il problema relativo alla materia e di conseguenza alla materializzazione delle anime, è oggi l’importante essenziale sfida che il mondo pone allo Spirito umano.
Che lo Spirito umano sia sorto in vista di un tale impegno, è il ricordo storico che dovremmo evocare e riconquistare per noi stessi. Un pensare particolarmente addestrato è in grado di farlo. Voglio sottolineare: non servono dottrine, servono esercizi.
In effetti, un pensare che ignori l’essenza di sé, trascurando cosí il legame immediato e fondamentale con la propria origine, altro non può che scontrarsi con un mondo, un universo, incredibilmente vasti e quasi del tutto sconosciuti; la stessa cosa capita se tale pensiero si pone davanti all’immensità dell’anima. Non gli riesce intuire e neppure sospettare che la forza che lo fa scorrere all’interno dell’organismo umano, è la medesima forza che ha creato ogni forma esistente, animata o apparentemente disanimata; la stessa forza da cui ha avuto origine il cosmo, e che ora, ridisegnandosi nel tempo e nello spazio, può a livello d’uomo compiere le indagini nelle direzioni piú svariate, avendo però smarrito la consapevolezza del proprio sé.
Non le conclude, perché la strada è ancora lunghissima, tuttavia da piú parti i ricercatori puri (ovvero coerenti con la loro disciplina e gli intenti promossi nei confronti di questa) sono pervenuti a formulare l’ipotesi che vi sia una “convergenza” tra le vie di studio applicabili al mondo esteriore e quelle invece riguardanti l’interiorità della costituzione umana.
Questo forse per il motivo che, progredendo oltre un certo limite, si afferra l’idea (o si può accoglierla, a seconda dei punti di vista) che laddove cessa il dimensionamento spaziotemporale, o quanto meno vengono a decadere i presupposti, il pensiero indagante si riconosce trasversalmente nei suoi vari incanalamenti scientifici e filosofici, come avente unica comune matrice, nonché potenziale intuitivo solidale e omogeneo, pronto ad espandersi.
Di contro, all’interno del nostro ordinario pensare, abbiamo congetture come questa: “Non mi sento pronto ad affrontare il futuro”. Il che non vuol dire assolutamente nulla, tuttavia una tale frase può uscire dalla nostra bocca in certi momenti e situazioni, semplicemente perché non si ha alcuna voglia di cimentarsi con problemi nuovi, o creduti nuovi, e quindi panico e svogliatezza prevalgono di gran lunga sul pensare.
Se si pensasse seriamente, bisognerebbe ammettere che la coscienza dell’uomo lavora soltanto al presente; il passato è stato quello che ha concorso a formare il presente, e il futuro potrà unicamente essere ciò che dal presente io provocherò in proiezioni di pensare, sentire e volere, ovvero le azioni interiori o esteriori in cui le tre facoltà congiunte verranno da me impegnate.
Si può pensare al futuro come a un traguardo da conseguire, cosí come altrettanto bene si può pensare al passato come a una serie di prove dalle quali deve poter risaltare la bontà o meno della nostra applicazione. Se questa difetta o non c’è stata, ecco che il tema da rielaborare si presenta già con una certa precisione in quanto preannunciato da una consapevolezza vigile, che ha imparato a usare il presente per trasfondere nel futuro i “buchi” del passato, e tentare di sistemarli una volta per tutte.
Quando il pensare prende una tale direzione, significa che è già pronto per un volo ancora piú alto: percepire se stesso pensante il mondo in quanto portatore della coscienza del mondo, avendo già in sé tutta l’essenza della possibile identificazione. Come potrebbe muovere alla conoscenza del mondo, o di se stesso, se il mondo, o quel se stesso che suppone di essere, fossero del tutto diversi da ciò che egli effettivamente è?
L’alterazione straniatrice si pone come demarcazione necessaria, come invalicabile limite automatico, là dove non si dia possibilità d’identificazione tra un sé e ciò che appare come altro da sé.
Una simile realtà, in sé irreale ma sostanzialmente compiuta nella parvenza di un supponibile esistere, e nella fiduciosa credulità che questa sa infondere all’anima ancora digiuna della vera comunione in Spirito, è alla base del primo errore.
Non ne occorrono altri per provocare il disastro. È sufficiente questo errore per tagliare fuori da sé, in modo pressoché definitivo, il mondo, la materia e la realtà oggettiva, che vanno ad alimentare il mistero dell’altro. Mistero che, per continuare a presentarsi come mistero, non ammette vera soluzione, l’irrisolvibilità essendo la sua miglior garanzia.
Il pensiero continua a ignorare di essere portatore, nel proprio moto, del segreto dell’identità già compiuta. Se non trova la verità dell’essenza del suo scorrere e l’anima non se ne convince, tutto lo scenario resta pietrificato, immutabile, qualunque risvolto evolutivo possa darsi. L’errore protratto nel tempo e nello spazio rende separate le anime, le persone, le cose; le rende ignote, avulse da ogni ricerca, e quindi sempre piú necessitanti la ricerca, la quale, per quanto nobile ed elevata, si svolge esclusivamente sul piano dove nulla vi è da ricercare.
Recentemente sui muri della mia città sono stati affissi alcuni manifesti per un convegno spirituale che avrebbe luogo a giorni, e in concomitanza sono apparse nei locali pubblici del centro e nelle vetrine dei negozi, alcune locandine che davano notizia dell’evento. Il titolo del convegno era questo: «Dove sta Dio?» e per sottotitolo riportava: «Se Dio c’è, perché Dio permette?».
Questa domanda, espressa o inespressa, viene formulata ogni giorno per milioni di volte, accompagnata ora da pianti, ora da imprecazioni, cosí come le varie vicende dell’anima possono suggerire al momento. Ma sempre, in tutti questi attimi di smarrimento e di tristezza profonda, è presente e giganteggia l’errore essenziale, il primo terribile errore verificatosi nell’impatto con il mondo: il pensiero che non ha avuto l’immediatezza di riconoscere se stesso quale essenza nel mondo e contemporaneamente il mondo quale essenza di sé.
Non ne avuto il tempo, perché la molteplicità delle percezioni/sensazioni con la quale il mondo gli si è squadernato davanti, lo ha ‒ per una frazione di milionesimo di secondo – paralizzato; ma è bastato per dare inizio a un percorso senza fine di mancata conoscenza, o imparziale conoscenza, la quale, ovviamente, diretta a finalismi pratici o di routine, può anche reggere a lungo termine, ma non può certamente pretendere di farlo quando la direzione dell’indagine diventa metafisica e ontologica.
La risoluzione dell’errore, dal punto di vista filosofico e psicologico, non sarebbe difficile: basterebbe cercare d’avere una maggior conoscenza di noi stessi e formarsi una miglior coscienza del vero, a sostegno delle forze dell’anima, e il gioco è fatto.
Tuttavia è evidente che dirla in questo modo significa non aver capito nulla della gravità e della profondità del problema che stiamo esaminando.
Il pensare porta in sé le forze originarie dello Spirito; l’anima non le avverte; non le vuole avvertire, o crede di avvertirle scambiandole con delle simulazioni appositamente predisposte; o le rifiuta con veemenza sentendosi morsa nel vivo; oppure ritiene, dopo un superficiale ragionamento (ritenuto comunque da lei bastevolmente serio) che tutto ciò non sia di sua competenza e che sia opportuno occuparci esclusivamente dei problemi dell’ordinario esistere.
Se questi presupposti hanno un fondamento analitico, allora dobbiamo ammettere che il guasto non è nel pensare, bensí nell’anima che non conosce il pensare e si limita a usarlo quel poco che le basta a soddisfare le esigenze primarie ed elementari che in essa si manifestano.
Immaginare se stessi prigionieri e ammalati inconsapevoli della subordinanza alla condizione descritta sopra, sarebbe un fatto eccezionale, raramente verificabile, perché già in partenza richiede di andare contro la propria natura, per lo meno contro quella fin qui acquisita e cresciuta.
Da lungo tempo si è capito che non tutti i prigionieri della platonica Caverna aspirano alla libertà. Sono capacissimi di affrontare e dibattere il problema della libertà nei modi piú diversi e magari terribilmente contrastanti tra loro, fino a giungere anche a lotte fratricide, pur che non si tratti della vera libertà.
Chi è riuscito e ha saputo donare al mondo intero quella dimostrazione compiuta che è stata la sua vita, ha ricevuto invece il fatto suo. E quand’anche di questo gli fosse pervenuto chiaro preannuncio, non tranquillizza affatto le nostre coscienze.
L’intervento riformatore del Karma è sempre di natura correttiva. Esso si assume l’ingrato compito (nella maggioranza dei casi, “ingrato” per noi) di “bombardare” il nostro percorso con gli accadimenti che si rendano necessari per denunciare in primis alla nostra coscienza la devianza dalla traccia originariamente voluta dall’Io, e in seconda battuta per renderci attenti a quale, tra le possibili vie da intraprendere, sia consona alle mete evolutive.
Probabilmente l’ho scritto altrove, ma mi piace ripeterlo: la migliore definizione che io abbia letto sul capitolo “vita umana”, appartiene a Gustav Meyrink, il quale, ne La Faccia Verde, cosí si pronuncia: «La vita è un processo di guarigione, piú o meno doloroso, a seconda di quanto l’anima sia ammalata nella conoscenza di sé».
Ancora una volta l’anima è chiamata in causa; le chiavi del guarire sono affidate a lei. La cosa è nota a tutti i livelli, anche un sapere materialistico non riesce oggi a negare che qualunque sia il tipo di male che affligge un corpo, esso è sempre psicosomatico o di natura neuro-vegetativa. In altre parole proviene da quella parte dell’interiorità umana che non si svela attraverso esami, prove e analisi, per quanto dettagliate.
Senza voler frugare tra gli orientamenti piú o meno scientifici della nostra epoca, possiamo affermare senza tema di smentita che se c’è una cosa al mondo ambita e assiduamente ricercata, come panacea universale d’ogni bene, questa è l’Amore. A volte abbiamo potuto anche sperimentarlo, e per quel che abbiamo saputo farlo durare, ci è parso un miracolo, un autentico, potente, magico balsamo per il cuore e per il corpo.
Tuttavia Massimo Scaligero ci avverte: o questo amore nasce come moto del pensiero liberato dalle impurità con le quali l’abbiamo assoggettato alle categorie del sensibile, e quindi a buon diritto possiamo scriverlo con la A maiuscola, oppure resta nell’ambito del dramma umano.
Le forme di affetto e di sentimento hanno il potere, in certi casi, di agire sulle forze dell’anima e di elevarla anche a livelli in cui si crede veramente di sperimentare la possibilità dell’Amore. È una credenza profondamente scorretta e ingannatrice. L’Amore non si dà se non in presenza di un pensare forte, voluto da un moto interiore capace di volersi dall’origine; tale moto non si concede spontaneamente per le vie di natura, ma richiede essere evocato dallo sperimentatore nel modo piú indipendente possibile dal rapporto che costui ha maturato con il suo personale destino.
Mediante uno sperimentare di questo tipo, che necessita di spassionata riflessione, leale esame di coscienza e assidua applicazione, nessun Amore grande, e neanche piccolo, viene garantito, ma si raggiunge qualcosa di ben piú vasto e importante: all’operatore spirituale (dato che è cosí che a questo punto si può chiamare lo sperimentatore) diventa possibile accorgersi che in ogni piega del male umano, in ogni risvolto proprio e altrui, c’è un qualche cosa di suo, qualcosa che lui stesso ha provocato, e che ha agito nel tempo per diventare alfine una spinta ad attivare quella corrente di volontà che, in quanto uomo, egli ha sempre avuto, ma che proprio perché umano non ha mai attivato.
L’evento della guarigione è quindi l’effetto di un atto di volontà che comincia a valere dapprima come pensiero puro, o svincolato dai sensi, e che subito consegue, per virtú propria, la valenza cognitiva delle forze in gioco tra la terra e il cielo; conosce la sua storia, ne riconosce il senso, l’impronta dell’Io e la direzione da Questo voluta; si assume in toto la responsabilità dell’imperfetto cammino sin qui avanzato; mai si sognerebbe di accampare scuse, attenuanti o invocare corresponsabilità di altri. L’ha fatto già per troppo tempo, gli è servito esclusivamente per avvertire la voragine in cui sta precipitando.
Ora basta.
Per quanto sapiente e pervaso di forze tenebrose, l’inganno luciferico-arimanico nulla può contro lo Spirito dell’Uomo che abbia deciso di non subire ulteriormente la sudditanza terrena alla materia, alle lusinghe di questa e ai suoi passati trascorsi, costellati di buchi, omissioni, e autoconcessioni egoiche.
La corrente luciferico-arimanica non solo può essere dominata, ma perfino rivolta a servire l’impulso dello Spirito, se il pensiero che la pensa, grazie ad uno sforzo corale umano, torna a esprimersi come libero impulso di Redenzione della Terra.
Angelo Lombroni