«Amica mia,
canterò le qualità di Govinda(1).
Ogni giorno all’alba
andrò a raccogliere l’ambrosia
dai suoi piedi e a contemplarlo.
Nel tempio di Hari danzerò
e farò tintinnare le campanelle
delle mie caviglie.
Accompagnerò il nome di Syām
con il ritmo dei miei cembali
e attraverserò l’oceano della vita.
Il mondo nel quale mi trattiene
il mio beneamato, è pieno di spine
come un ramo di giuggiolo.
Il Signore di Mīrā è Girdhar nāgar
e cantando le sue lodi
troverò la felicità».
Questo canto in versi (pada 31)(2) esprime tutto l’amore di Mīrābāī per Krishna, il dio che al tempo dell’Antica India, cioè della prima epoca postatlantidea, s’incarnò come avatāra (3) di Vishnu, la seconda divinità della Trimūrti (4).
Gli antichi Greci definivano myste l’iniziato ai Misteri, in particolare a quelli della Grande Madre Demetra che si celebravano a Eleusi, nell’Attica, a 18 chilometri a Nord-Ovest di Atene.
Mīrābāī fu di certo un’Iniziata del culto krishnaita, e il suo canto è mistico.
La vita
Nata nel 1498 circa a Mertā, nel Rājasthān (“Terra dei re”) o Rājpūtānā, nella regione occidentale del Mārwār, fin da bambina si considerava “sposa di Krishna” e il nonno, Rāthor Rāva Dudā, era un vishnuita devoto.
Rimasta orfana di madre a soli due anni, a Mīrā venne impartita un’accurata educazione letteraria e musicale e a diciotto anni fu data in sposa a Bhojrāj, erede al trono di Mewār. Andò quindi a vivere nella fortezza di Chittor, divenuta famosa per alcuni episodi di eroismo, che ebbero come protagoniste le regine (rāni), le donne e i bambini rajput. Pur di non cedere al disonore della sconfitta e alle violenze dei vincitori, preferivano immolarsi su pire funebri.
Cinque anni dopo il matrimonio Mīrā rimase vedova, ma rifiutò di compiere il rito del sati, cioè di salire sulla pira del marito, perché si considerava piú “sposa di Krishna” che di Bhojrāj. Questo non aumentò la benevolenza nei confronti di Mīrā dei parenti del principe defunto, che già non approvavano il suo rifiuto di compiere i riti prescritti a Durga, divinità tutelare della loro famiglia.
Durga (“colei che è difficile avvicinare”) è in effetti una dea guerriera del pantheon induista. Quanto di piú lontano si possa concepire dall’immagine amorevole e giocosa di Krishna!
Il suocero, Rānā Sāngā, protesse benevolmente Mīrā, ma quando nel 1528 egli morí e salí al trono suo figlio, cognato e nemico della mistica, la vita a corte divenne difficile per lei.
Il suo guru Ravidās l’aveva esortata ad aiutare i fuoricasta (avarna). Inoltre, per devozione (bhakti), la poetessa frequentava i sādhu, uomini religiosi e saggi. Ma anche questo per una principessa, per di piú vedova, era un comportamento scandaloso, che disonorava la famiglia di Mewār.
Fu cosí che cercarono di liberarsi di lei attentando alla sua vita, finché Mīrā, in compagnia dell’amica alla quale si rivolge in alcune sue canzoni, lasciò Chittor per tornare in seno alla famiglia d’origine. Gli eventi che si verificarono, tuttavia, non le assicurarono una tranquilla vita di devozione, perciò divenne un’asceta itinerante e si recò laddove, secondo la leggenda, Krishna era vissuto: le città di Vrindāvan e Mathura a nord dell’India, entrambe bagnate dal fiume Yamunā.
In questi luoghi Mīrā cantava i suoi pada, composti nella lingua arcaica del Rājasthān, e folle di krishnaiti l’ascoltavano incantati.
Si recò infine in Gujarāt, nel Nord-Ovest dell’India, a Dwarkā, sul Mare Arabico, dove, secondo il mito, Krishna aveva trascorso i suoi ultimi anni e qui vennero a cercarla da Mewār i parenti del defunto marito. Si erano resi conto che la persecuzione contro la grande mistica aveva loro alienato il favore degli dèi e inviarono dei brahmani per invitarla a tornare a corte.
Era, secondo i biografi, il 1546 o il 1553.
Accadde allora che Mīrā chiese a Krishna di liberarla dal peso di una vita, che aveva trascorso in totale dedizione e devozione a lui. Narra la leggenda che fu assorbita dalla statua del dio nel tempio di Dwarkā, il suo sāri fu trovato avvolto all’immagine del beneamato, il corpo non fu mai trovato.
Oggi i suoi canti d’amore sono conosciuti in tutta l’India: la memoria di Mīrā è divenuta immortale.
I canti
.
1.
Amica mia,
poniti sui piedi di Hari:
belli, teneri come il loto
e pieni di frescura,
scacciano tutte le sventure
del mondo.
…Questi piedi hanno creato
l’offerta della Creazione,
interamente ornata di bellezza.
Proprio questi piedi
hanno sottomesso
il serpente Kālī
e hanno danzato la rāsalīlā
con le pastorelle.
Mīrā è la schiava di Ghirdar,
il suo beneamato,
il traghettatore che fa attraversare
l’insondabile oceano delle epoche».
.
La mistica ci ricorda che Krishna è l’autore della Creazione piena di bellezza, come la stessa divinità spiega nella Bhagavad Gītā (VII, 4, 6 e passim), ma è anche colui che schiacciò il serpente Kālī (sposa, potenza ed energia di Shiva). Kālī a sua volta gli morse il calcagno, rendendolo vulnerabile in quell’unico punto del corpo. Infine, l’amato Krishna è colui che lietamente conduce la danza mistica delle pastorelle (gopī), le anime innamorate che egli traghetta al di là del Tempo, nell’Eternità.
9.
«È dalla visione della sua bellezza
che sono stata conquistata.
Tutti, parenti e famiglia,
non hanno smesso di dissuadermi,
ma i legami annodati con il danzatore
dal diadema di pavone
non sarebbe possibile dimenticarli.
Il mio cuore è inebriato da Syām
e la gente dice che sono perduta.
Mīrā ha preso rifugio nel Signore
che conosce il cuore di ogni essere umano».
.
16.
«Non lasciar andare
un amante cosí perfetto!
Rinunciando alla ricchezza,
alle soddisfazioni dello Spirito e del corpo,
ospitalo nel tuo cuore.
Vieni, amica mia,
osserva il suo viso,
con gli occhi bevi
questo nettare di bellezza.
…Il Signore di Mīrā è Rām
e per un felicissimo destino
essi trovano la felicità l’uno nell’altra».
Non c’è da meravigliarsi se Mīrā definisce “amante” il suo Krishna. La devozione (bhakti) di questa grande poetessa è cosí profonda da farle sentire il dio come suo innamorato, come l’amante che ricambia pienamente il suo amore, al punto da trovare la felicità l’uno nell’altra: è l’estasi mistica.
18.
«Oh Sādhu, ho percorso il mondo intero
e non c’è nessun altro.
La vista del Signore mi ha rallegrato
e la vista del mondo
mi ha profondamente afflitto.
Irrorandolo incessantemente
con la pioggia delle mie lacrime
ho coltivato il frutto del suo amore».
21.
«Krishna lo scuro è la mia premura,
il mio pensiero, la mia memoria,
l’oggetto della mia meditazione.
…Oh Signore, concedimi di contemplarti,
come mi hai promesso nella mia vita anteriore».
Mīrā è convinta di essere stata, nella vita anteriore, una delle pastorelle innamorate di Krishna.
Nel canto successivo esorta gli asceti itineranti, suoi compagni di viaggio, a scegliere infine il suo amato come oggetto di devozione.
26.
Venite, miei compagni,
smettete di andare
presso gli altri
e rallegratevi.
Tutti gli ornamenti
sono falsi,
è vero solo l’amore
del mio beneamato.
Falsi sono gli abiti di seta
e i celebri sāri del Sud.
Sono veri solo i cenci
del mio beneamato.
Chi li porta
serba puro il corpo.
Abbandonate tutti
i diversi piaceri dei sensi:
vi troverete solo impurità».
Nella sua bhakti assoluta, che cerca l’unione del corpo e dell’anima con l’amato Krishna, Mīrā sembra richiamare alla memoria le yoginī di certi culti tantrici. Ma l’esortazione finale ad abbandonare tutti i piaceri dei sensi, non lascia adito a dubbi circa la purezza della sua condotta di vita, né sulla purezza della sua anima.
31.
«Nel tempio di Hari
danzerò e farò tintinnare
le campanelle delle mie caviglie.
Accompagnerò il nome di Syām
con il ritmo dei miei cembali
e attraverserò l’oceano della vita.
Il mondo nel quale mi trattiene
il mio beneamato
è pieno di spine
come un ramo di giuggiolo.
Il Signore di Mīrā
è Girdhar nāgar
e cantando le sue lodi
troverò la felicità».
L’“oceano della vita” è il samsāra, a volte rappresentato come una grande ruota. Dal suo scorrere sono trasportati gli esseri che, di vita in vita, vagano e soffrono, alla ricerca della liberazione dalle continue rinascite.
La danza di Mīrā nel tempio le procura il disprezzo dei benpensanti, ma perché lei dovrebbe rinunciare a manifestare liberamente la sua devozione per Krishna, che è il senso della sua vita e il fine ultimo e assoluto della sua incarnazione?
Mīrā, la grande, la celebre mistica indiana, trionferà di tutti i suoi denigratori. Essi cadranno nell’oblio della storia, Mīrā, che tanto amore ha dato al suo Signore e, attraverso di lui, al mondo, sarà compensata dall’amore e dalla venerazione del mondo.
Il mistero di Krishna
A rivelarci chi fosse in realtà questa divinità, tanto amata in India, è Rudolf Steiner nelle conferenze tenute a Colonia dal 28 dicembre 1912 al 1° gennaio 1913, pubblicate in La Bhagavad-Gita e le lettere di Paolo (Editrice Antroposofica, Milano 1977).
Il Dottore spiega che Krishna altri non era che il Gesú nathanico del Vangelo di Luca.
«Ci si raffiguri che accanto all’essere animico, incarnato in Adamo, rimanga per cosí dire indietro un’entità umana che allora non s’incarna, non penetra in un corpo fisico, rimanendo invece allo stato puramente animico. Basta raffigurarsi che, prima che nell’evoluzione si formasse un uomo fisico, ci fosse un’anima che poi si è divisa in due parti. Una delle due …si incarna in Adamo, soggiace a Lucifero e cosí via. Per l’altra anima, per l’anima sorella, la saggia direzione dell’universo prevede che non sarebbe bene che si incarnasse a sua volta. Essa viene trattenuta nel mondo animico, non vive nella serie delle incarnazioni umane. Hanno relazioni con lei soltanto gli iniziati dei Misteri. Perciò quell’anima non farà neppure, durante l’evoluzione che precede il mistero del Golgota, l’esperienza dell’Io, possibile solo mediante la sua presenza in un corpo umano. Quell’anima però possiede ugualmente tutta la saggezza potuta sperimentare durante i tempi di Saturno, del Sole e della Luna; e possiede pure tutta la facoltà di amore di cui un’anima umana è capace. Essa rimane dunque innocente, in confronto a tutta la colpa che l’umanità poté accumulare nel corso delle incarnazioni. Quell’anima …poteva essere percepita soltanto dagli antichi chiaroveggenti. E questi difatti la percepivano: essa frequentava i Misteri. È dunque esistita un’anima come quella, che stava entro l’umanità, ma al di sopra di essa, e che poteva essere percepita solo spiritualmente: un essere umano che ha preceduto l’uomo, un vero superuomo» (Op. cit., pp. 112-113).
Nelle medesime conferenze, Rudolf Steiner spiega che fu necessario che quest’anima s’incarnasse almeno una volta nell’Antica India in un momento particolare della storia umana.
La chiaroveggenza atavica, che passava attraverso il sangue e la consanguineità, stava per scomparire ed era necessario che l’uomo prendesse coscienza della propria personalità individuale. Doveva tornare alla visione dei mondi spirituali mediante lo yoga, dunque per mezzo di un’ascesi liberamente scelta, che di per sé costituisce un sacrificio.
Per compiere tale missione Krishna discese come avatāra di Vishnu, nascendo a Mathura, città dell’attuale Uttar Pradesh, vicina al confine con il Rājasthān, situata lungo il fiume Yamunā, affluente settentrionale del Gange.
Secondo la leggenda Krishna fu adottato da una famiglia di pastori. Da qui la sua immagine di pastore di mucche, che per la bellezza e – possiamo aggiungere – per tutto l’amore del quale era portatore il suo essere, puro giocoso e lieto, faceva innamorare le pastorelle (gopī), ossia le anime umane.
Krishna divenne poi consigliere dei Pandava nella guerra tra questi e i loro cugini Kaurava, scoppiata a causa di un trono conteso. Entrambe le famiglie appartenevano alla seconda casta, quella degli kshatriya, ossia dei guerrieri.
La Bhagavad Gītā (“Il Canto del Beato”) espone l’insegnamento che il principe Arjuna riceve da Krishna nell’imminenza della battaglia che sta per svolgersi sul Kurukshetra (“Campo dei Kuru”).
Arjuna non vuole combattere questa guerra, perché dovrebbe uccidere dei consanguinei, ma Krishna lo esorta a ottemperare al dharma (“legge”) inerente al suo karma di guerriero (kshatriya). L’insegnamento di Krishna, riferito all’uomo di quell’epoca, era “l’agire senza agire”, il distacco dalle azioni che si compiono e dal frutto che ne consegue. Il segreto risiedeva nel non desiderare di uccidere, nel non odiare il proprio nemico; nel lasciare che l’azione si compisse da sé, perché era necessario che si verificasse, in quanto inscritta nel karma di chi la compiva e di chi la subiva.
Il distacco che Krishna insegnava sarebbe stato poi superato dall’incarnazione del Cristo, il “Signore del Karma”, il quale fa appello alla partecipazione amorevole e disinteressata alle altrui necessità, al sacrificio della propria natura inferiore, al superamento dell’ego con le sue ambizioni terrene, e alla purificazione della passionalità astrale umana per la realizzazione dell’Io.
Trent’anni dopo la battaglia del Kurukshetra, Krishna, mentre era immerso in meditazione nella foresta, nella quale si era ritirato, venne colpito al calcagno dalla freccia di un cacciatore che lo aveva scambiato per un cerbiatto.Era l’unico punto vulnerabile del suo corpo, reso tale dal morso di Kālī.
Cosí terminò ‒ prima della nascita del Gesú di Luca ‒ l’unica incarnazione di Krishna come viene narrata nel grande poema Mahābhārata (XVI parvan, “libro”), del quale la Bhagavad Gītā (VI parvan) fa parte.
Secondo l’astrologo indiano Āryabhata (V sec. d.C.) la morte avvenne il 18 febbraio 3013/3012 a.C. e segnò l’inizio del Kali Yuga, l’“Età oscura”, chiamata anche Età del Ferro.
L’uomo, tuttavia, ha proseguito nel suo lungo cammino che, passando attraverso l’incarnazione dell’Io-sono e il Mistero del Golgota, è giunto all’attuale epoca dell’anima cosciente nel quinto periodo postatlantico.
Alda Gallerano
Note:
(1) Govinda o Gopāl (“il pastore di mucche”), Hari (nome in comune con Vishnu), Syām (“il Nero”), Girdhar nāgar (“colui che abita in città”), Giridhar (“colui che solleva le montagne”) e Rām sono appellativi di Krishna, che derivano da episodi della sua vita sulla Terra come avatāra di Vishnu.
(2) I canti qui presentati fanno parte dell’edizione di Pandit Parashurām Chaturvedī del 1964.
(3) L’avatāra non è una vera e propria incarnazione, poiché un Essere divino o un Grande Essere dello Spirito, come un Bodhisattva, specialmente se di alto rango, non può discendere del tutto in un corpo umano, ma solo entro un certo limite. La parte che non si può incarnare agisce dai Mondi spirituali.
(4) La Trimūrti (“la triplice forma”) è composta da tre divinità: Brahma, Vishnu e Shiva. Brahma è il creatore del cosmo, Vishnu colui che ha il compito di preservarne l’esistenza, mentre Shiva lo distrugge, quando giunge il tempo del pralaya, la dissoluzione del cosmo, e del suo riposo nell’Eterno, prima di una nuova creazione.