Se prendiamo in esame l’osservazione che molti fanno sulla relazione dell’uomo con la vita e la morte, possiamo ricordare una frase che Shakespeare fa dire al tenebroso Amleto:
L’imperioso Cesare, morto e diventato argilla,
potrebbe turare un buco, per tener lontano il vento.
Oh, quell’argilla, che aveva tenuto soggetto il mondo,
potrebbe rattoppare un muro per impedire il soffio dell’inverno!
Tale affermazione può essere fatta da molti che siano soggetti all’effetto suggestivo delle tante concezioni dei tempi acquisite nel campo delle scienze naturali e che si sentono spinti a seguire tutti i movimenti dopo la morte delle diverse sostanze che compongono il corpo umano. Ci si potrebbe sentire giustificati chiedendosi innanzitutto: che cosa diventano l’ossigeno, l’azoto, il carbonio ecc., come trasformano il corpo umano dopo la morte dell’uomo? Oltre al fatto che vi sono oggi molte persone influenzate dalla suggestiva definizione: “l’indistruttibilità della materia”, vi sono ancora altri che perdono completamente la capacità di immaginare qualunque cosa in tutto il vasto spazio infinito, che non siano la materia e le sue funzioni.
Possiamo vedere, dall’osservazione di molti sulla natura della morte, o dal fatto che viene presa in considerazione l’idea di un’antitesi tra la vita e la morte, quanto sia importante, in affermazioni di questo tipo, che si stabiliscano concezioni e idee nel modo piú esatto possibile. Succede ripetutamente che non si tenga conto del fatto che la “morte” e la “vita” formano un’antitesi che dipende dalla natura di quello a cui ci si riferisce, e che chi osserva piú da vicino non oserebbe parlare nello stesso modo della morte di una pianta o di un animale come di quella di un uomo.
In che misura questo avvenga sarà spiegato in questa conferenza. Quanto poco comprendiamo le espressioni usate a tale soggetto verrà dimostrato dal fatto che nella fisiologia del grande naturalista Huxley, ad esempio, si può trovare quanto segue. Vi è detto che dobbiamo distinguere tra morte locale e morte della struttura organica, e viene espressamente affermato che la vita dell’uomo dipende da cervello, polmoni e cuore, ma che questa è una triplice condizione che potremmo eventualmente ridurre a una duplice. Infatti, se manteniamo il respiro con mezzi artificiali, potremmo benissimo rimuovere il cervello di un uomo, e questi continuerebbe a vivere. Ciò significa che la vita continuerebbe anche se venisse tolto il cervello. Vale a dire, che quando un uomo non è piú in grado di formarsi una concezione di ciò che lo circonda, o di quanto avviene dentro di lui, e se la vita fosse mantenuta soltanto come processo vitale dell’organismo, mediante la respirazione artificiale, l’organismo continuerebbe a vivere nel senso di tale definizione della scienza naturale, e non potremmo pertanto parlare di morte, benché manchi del tutto il cervello.
Questa è un’idea che dovrebbe risultare chiara a chiunque – ammesso che egli considerasse valida una vita senza cervello e trovasse una tale condizione plausibile – per il quale tale spiegazione mostri appunto come la definizione di vita data dalle scienze naturali non sia applicabile all’uomo in tale forma. Poiché nessuno sarebbe in grado di chiamare vita di un organismo – anche di uno umano – la vita dell’uomo stesso, se pure altri aspetti del caso prospettato fossero abbastanza corretti.
Oggi siamo forse alquanto piú progrediti nel campo delle scienze naturali rispetto a dieci anni fa, quando si era quasi imbarazzati parlando della vita in generale, per come la vita nel suo insieme veniva riferita a quella delle piú piccole creature viventi. Tale vita degli organismi piú piccoli era considerata alla stregua di un complicato processo chimico. Secondo tale concezione, se una simile definizione venisse estesa al concetto dell’universo, parlando delle parti piú piccole della vita in atto, si potrebbe parlare solo di conservazione della materia. Dunque oggi, riguardo alle ricerche sul radio, ad esempio, l’idea della indistruttibilità della materia è diventata quanto mai incerta.
Attirerò ora la vostra attenzione sul fatto che le scienze naturali stanno oggi già tentando di parlare di una sorta di indipendenza, almeno per le piú piccole creature viventi. È stato stabilito che le piú piccole creature viventi si propagano per fissione: una si divide in due, due in quattro e cosí via. In questo caso non possiamo parlare di una morte, perché la prima vive nella seconda, e quando queste muoiono, vivono entrambe in quelle successive. Quelli che vogliono parlare dell’immortalità degli organismi unicellulari, hanno cercato di trovare una definizione di morte, e proprio questa definizione sulla natura della morte risulta estremamente singolare. Hanno trovato che la caratteristica saliente della morte è che essa lascia dietro di sé un cadavere, e poiché gli organismi unicellulari non hanno un corpo, essi dunque non possono morire. In effetti, la caratteristica di ciò che concerne l’aspetto piú profondo della vita viene ricercata in ciò che la vita lascia dietro di sé. Ora, appare chiaro senza ulteriori spiegazioni, che quello che la vita lascia dietro di sé passa gradualmente nella materia inerte. Una cosí inerte materia diviene pertanto, nella morte, l’organismo esterno della piú piccola e piú complicata creatura vivente. E dunque, se vogliamo considerare l’importanza che la morte ha per la vita, non dobbiamo guardare a ciò che viene lasciato, a quello che si riduce a materia inerte, ma dobbiamo cercare la causa, i princípi della vita, nella vita stessa, mentre essa è qui.
Ho detto che non si può parlare nello stesso senso della morte per le piante come per gli animali e per l’uomo, perché allora non viene preso in considerazione un importante fenomeno. Esso è anche riscontrabile in alcuni animali inferiori, ad esempio negli effimeri, e consiste nel fatto che la maggior parte delle piante e degli animali inferiori hanno la peculiarità che non appena è completato il processo di fruttificazione, ed è stata creata la possibilità di un nuovo essere vivente, la morte del vecchio ha inizio. Nella pianta il processo regressivo, il processo di estinzione, inizia nel momento in cui assume la potenzialità di dare inizio a una nuova vita, a una nuova pianta.
Si può pertanto affermare con certezza, riguardo alle piante nelle quali il processo avviene, che la causa che estingue la vita in esse rivive nei nuovi esseri viventi, che non lasciano la vita nel vecchio essere. Attraverso semplici riflessioni ci si può convincere che è cosí. Ci sono alcune piante che durano nel tempo, che fioriscono sempre di nuovo e che portano frutti; e sulle quali accade che alcuni diversi tipi di piante, come parassite, si innestino su un vecchio fusto. Ma potete rendervi conto, in quel caso, che esse acquistano la possibilità di ricreare se stesse spingendo alcune parti di sé nel regno dell’inanimato, nella morte, ovvero si circondano della corteccia. Possiamo ben dire, di una pianta che si circonda di una corteccia, che essa può sopportare la materia senza vita e continuare a vivere, che essa ha un surplus di vita, e che a causa di questa superfluità essa non rinuncerà ‒ rifiutando ciò che è necessario per il giovane organismo ‒ alla sua stessa sicurezza, eliminando da sé la morte. Quindi si può anche affermare che ogni essere vivente che ha in sé la possibilità di portare avanti una nuova creazione, si trova di fronte alla necessità di continuare a ricreare la vita in sé, persino trasformando la materia inorganica, inerte. Questo può essere adeguatamente osservato sia nell’animale che nell’uomo.
C’è quindi una separazione tra vita e morte nell’essere stesso. C’è uno scambio tra un membro vivente che si sviluppa in una direzione, e un continuo insinuarsi all’interno di un altro membro che si sta sviluppando in una direzione di morte. Se adesso vogliamo avvicinarci al piú intimo essere dell’uomo da questo punto di vista, dobbiamo senz’altro riportare alla mente qualcosa di ciò che è stato spesso detto, ma che non è mai superfluo, perché ancora non appartiene a quanto ordinariamente riconosciuto come verità.
Se ci atteniamo alle concezioni abitualmente note ‒ come faremo oggi nella prima metà della conferenza ‒ e poi procediamo nella questione della vita e della morte dal punto di vista della Scienza dello Spirito, dobbiamo ricordare che ciò che viene preso in considerazione qui è certamente riconosciuto molto poco oggi, dato che ha a che fare con una verità altrettanto nuova per l’uomo odierno di un’altra verità, che ora viene considerata scontata, ma che era nuova e perfino sconosciuta per il mondo di tre secoli fa. Ho spesso sottolineato che oggi è considerato scontato dal ricercatore delle scienze naturali, o da chi basa le sue osservazioni sulle concezioni delle scienze naturali, ed è ormai riconosciuto, che “tutto ciò che vive è nato dal vivente” (naturalmente, parlo qui con i limiti che questa frase contiene nel mondo delle scienze naturali. Ad esempio, non dovremmo affrontare la questione della generazione primordiale, poiché si può notare subito che l’analoga frase qui menzionata può anche essere utilizzata nel mondo della Scienza dello Spirito).
Non molto tempo fa il grande studioso di scienze naturali, Francesco Redi, dovette far fronte con tutta la sua energia a quanto causato da questa sua frase: «Tutto ciò che vive è nato dal vivente». Perché prima dell’apparizione di questo naturalista del XVII secolo era considerato del tutto possibile, non solo negli ambienti profani ma anche a livello scientifico, che i nuovi organismi fossero generati dal fango in putrefazione di un fiume o da una materia organica in decomposizione. Si credeva questo per i vermi e i pesci. L’idea che il vivente possa svilupparsi solo dal vivente non è dunque antica, infatti pochi secoli fa Francesco Redi ha sollevato una tale tempesta di contestazioni che è a malapena sfuggito al destino di Giordano Bruno. Quando consideriamo come cambiano le “mode del tempo”, possiamo renderci conto del destino di quelle verità che dobbiamo annunciare ora come nuove. Perché questa verità, “solo la vita può generare la vita”, provocò a quei tempi una tempesta di collera. Coloro che si sentono impegnati a trarre dal pozzo del sapere verità simili in diversi àmbiti, non vengono piú consegnati alle fiamme del rogo oggi. Non è piú di moda. Ma vengono presi in giro. Un uomo che comunica tali cose è ridicolizzato. Coloro che si impegnano a proclamare cose riguardanti lo sviluppo spirituale, sono condannati a subire una morte spirituale. Ma il destino della verità summenzionata consiste anche nell’essere diventato un fatto evidente, una cosa scontata, per colui che è capace di giudicare.
Quale errore fu dunque la causa del fatto che questa verità, “la vita può provenire solo dalla vita”, non fosse riconosciuta? Un errore piuttosto semplice da osservare! Gli scienziati guardavano ciò che era immediatamente davanti a loro senza cercare di comprendere il fatto che l’origine di una creatura vivente si trova in un seme lasciato da un’altra creatura vivente, cosí che un nuovo organismo vivente di un certo tipo può solo formarsi perché un precedente organismo vivente ha lasciato dietro di sé un seme dello stesso genere. Vale a dire che essi hanno guardato l’ambiente dell’organismo in via di sviluppo, ma in realtà avrebbero dovuto considerare ciò che era stato lasciato da un altro organismo vivente che si era sviluppato in quell’ambiente. Cosí è stato fatto attraverso i secoli, fino al tempo di Francesco Redi. Si potrebbero cogliere molti dettagli interessanti su libri che avevano altrettanto peso nei secoli VII e VIII come gli scritti autorevoli del piú moderno studioso di scienze naturali di oggi, e in cui è stato annotato e classificato esattamente come, ad esempio, i calabroni si sviluppino dalla carcassa in decomposizione di un bue; le vespe dalla carcassa di un asino ecc. Tutto questo è in effetti accaduto. Esattamente nello stesso modo in cui gli errori sono stati fatti in quei tempi, si fanno oggi errori riguardo all’anima e allo Spirito dell’uomo. Come mai?
Un essere umano viene al mondo e si osserva il suo sviluppo individuale, a cominciare dalla nascita e fino all’età avanzata. Si vede come si sviluppino la forma, le diverse capacità e i talenti (parleremo piú precisamente di questo sviluppo in una conferenza successiva). Ma se vogliono conoscere la natura della forma umana, la natura di ciò di cui ci stiamo occupando, gli scienziati si pongono la domanda: «Quali sono le trasmissioni ereditarie? Da quale tipo di ambiente l’uomo è nato?». Questo è lo stesso metodo applicato se si osserva il fango che circonda il verme che si muove in esso, ma non sull’uovo. In ciò che si forma come disposizione, come particolare capacità di un uomo, deve essere fatta una precisa distinzione tra ciò che è di specifica provenienza dai genitori, dai nonni e cosí via, e un particolare nucleo che chi osserva veramente non mancherà di riconoscere. Solo colui che si avvicina allo Spirito e all’anima come i naturalisti che precedettero Francesco Redi, potrà negare che c’è un nucleo nell’uomo che si presenta chiaramente e che non può essere ricondotto a quanto ereditato da genitori, nonni ecc. In ciò che si sviluppa in un uomo dobbiamo dunque distinguere ciò che proviene dall’ambiente da quanto non può mai essere prodotto da quell’ambiente.
Per quanto riguarda l’aspetto esteriore di una pianta o di un animale vivente, troveremo sempre che il nuovo essere che nasce è in realtà portato a svilupparsi secondo la specie dei suoi predecessori. Prendiamo gli animali piú evoluti. Quanto possono avanzare? Per quanto è conforme alla specie, e per questo sono pianificati. Certamente molti diranno: «Ma allora un cavallo, un cane o un gatto non hanno una loro individualità?». E penseranno che si potrebbe ben descrivere l’individualità di un gatto, di un cavallo e cosí via ‒ persino scrivere una loro biografia ‒ come potremmo fare di un essere umano. Se qualcuno ama farlo, lo faccia, però non dovremmo considerarlo reale ma solo simbolico, come quando ad esempio viene dato un compito scolastico agli alunni, come è accaduto a me e ai miei compagni di scuola, quando abbiamo dovuto scrivere la biografia delle nostre penne! Si potrebbe certo anche parlare della biografia di una penna. Ma per quanto riguarda la realtà, non si tratta di fare analogie e confronti, ma di tener conto di ciò che è essenziale. Quello che è individuale nell’uomo non è quello che lo rende parte di una specie, ma quanto fa di lui un individuo del tutto distinto da quello che qualunque altro uomo è. Ogni uomo sta lavorando alla formazione di quanto è individuale in lui, proprio come la pianta lavora alla formazione della specie. Ogni sviluppo, ogni progresso nell’istruzione o nell’evoluzione storica, dipende dal fatto che l’uomo faccia un passo avanti oltre la semplice specie nello sviluppo dell’individualità.
Se in ogni uomo non ci fosse uno Spirito individuale, un nucleo animico che si sviluppa in modo spirituale, come l’animale si sviluppa nella sua specie, non ci sarebbe la storia. Si potrebbe allora parlare solo di un’evoluzione della razza umana, ma non di una storia o di uno sviluppo culturale. Per questo le scienze naturali parlano dello sviluppo della specie, di un tipo di evoluzione nel cavallo, ma non di una sua storia.
Nello sviluppo di ogni uomo dobbiamo vedere uno Spirito e un nucleo animico che ha lo stesso significato della specie per un animale. La specie nel regno animale corrisponde all’individuale nell’uomo. Ora, nel regno animale, ogni creatura che tende verso ciò che riguarda la specie ripete la specie dei suoi antenati, e può solo svilupparsi sulla base della natura fisica del seme dei suoi antenati; cosí la parte individuale di ogni singolo uomo non può derivare da qualunque cosa sia qui nel mondo fisico, ma solo da qualcosa di natura spirituale. Vale a dire che un nucleo spirituale che entra nell’essere alla nascita dell’uomo, non deriva semplicemente dalla specie “uomo”, dato che l’uomo deriva da un antenato spirituale, da un essere che ha progredito, che non appartiene individualmente alla specie “uomo”, in realtà a nessuna “specie”, ma all’individualità umana stessa. Se quindi nasce un uomo, nasce con lui un singolo nucleo che non è collegato ad altro che a quella singola sostanza umana. Mentre l’animale ricerca la sua specie, l’uomo ricerca il proprio essere umano individuale. Nel senso che questo nucleo individuale, quando compare alla nascita, è stato qui prima, proprio come il germe della specie era lí per l’animale. Dobbiamo guardare al passato per lo Spirito e la sostanza animica, che è il nucleo spirituale ‒ non fisico ‒ di questa individualità che si sta sviluppando spiritualmente. Solo un uomo che non può intendere che l’anima e lo Spirito non si sviluppano dall’organismo umano generale, negherà che le conclusioni appena esposte siano corrette.
Cosí, ogni singola vita umana porta in sé la prova che è già esistito prima. Siamo dunque condotti da una vita umana individuale a un seme spirituale individuale, e da questo ad un altro seme spirituale; ovvero siamo guidati dalla nostra vita individuale a una precedente vita individuale, e in seguito, naturalmente, alla nostra prossima vita. Un’osservazione imparziale della vita umana dimostra che questo è altrettanto vero quanto la verità proclamata nella sfera delle scienze naturali. Supponiamo che chiunque con una mente scevra di pregiudizi dica: «Nulla si può sapere di questo», allora, se esaminerà ripetutamente questa sua conclusione, potrebbe finire dicendo: «Non posso fare altro che accettare una tale conclusione; se non lo faccio, pecco contro ogni considerazione logica». Nonostante ciò, tuttavia, questa verità sulle ripetute vite terrene è ancora poco riconosciuta; ma questa verità che lo Spirituale può derivare solo dallo Spirituale certamente contraddistinguerà la vita culturale umana e sarà piú rapidamente accettata rispetto all’altra verità che è stata esposta. Verrà il tempo in cui gli uomini si renderanno conto che le opinioni sono cambiate in questo senso, proprio come non crediamo piú che gli organismi inferiori, i pesci ecc. possano provenire dal fango.
Se seguiamo nel corso della sua vita questo singolo nucleo dell’essere umano e lo osserviamo come era alla nascita, esso appare, in un certo modo, in un duplice aspetto; e questo piú particolarmente durante la crescita dell’essere umano, nella giovinezza. Esso appare come qualcosa che richiede uno sviluppo progressivo dell’intero uomo. E colui che può veramente osservare la vita intima della fanciullezza, che ha imparato a osservare il bambino non solo all’esterno ma anche nell’interiorità, e che ricorda ciò che lui stesso ha sperimentato a suo tempo, ammetterà che qualcosa non era in lui fino ad una certa età, ma è apparso solo in seguito come sentimento di efficienza, come sensazione di vita, come un contenuto di vita che si manifesta in modo estremamente elevato. Ciò che portiamo in noi come nucleo individuale del nostro essere, opera non solo sulla forma vivente esteriore, ma continua a lavorare anche nello sviluppo e nelle piú elementari funzioni della vita. Quando l’uomo arriva a una certa maturità e ha l’opportunità di intraprendere molte cose nel mondo esterno, allora questo singolo nucleo del suo essere opera in modo da arricchirlo, farlo adattare al mondo esterno e raccoglierne le esperienze. Quando dunque osserviamo questa correlazione tra il nucleo individuale dell’essere umano e quello che avviene nel corso della sua vita ‒ non solo attraverso ciò che impara e sente ma anche attraverso esperienze come la felicità e la sofferenza, il dolore e la gioia ‒ vedremo in questa stessa vita spirituale la medesima correlazione, su un piano superiore, di quella tra il nuovo embrione della pianta che si sviluppa dal fiore della vecchia pianta, e la vecchia pianta la cui vita viene portata via dal nuovo seme.
Se estendiamo questa osservazione all’albero, possiamo dire: anche lí la vita è stata comunque portata via, in quanto l’albero si trasforma in legno nel regno vegetale, e al suo posto qualcosa nell’albero si muta in morto prodotto senza vita: la corteccia inorganica che circonda l’albero. Allo stesso modo vediamo, quando guardiamo piú attentamente la vita umana, non solo uno sviluppo progressivo, ma ciò che permette all’essere spirituale dell’uomo di avanzare e crescere, che permette di unirsi al mondo esterno; e man mano che cresce, lo vediamo entrare in conflitto con la precedente condizione; vale a dire, è in conflitto con il proprio Io. Ciò accade perché potrebbe, nella sua giovinezza, formare e sviluppare organi secondo quanto gli è necessario, mentre nell’ulteriore corso della vita tale processo non è piú possibile; deve ora continuare a vivere in una ‘indurita’ condizione di vita. Cosí vediamo che quando la nostra vita si arricchisce attraverso lo sviluppo nel corso del tempo, quando prendiamo in noi ciò che è nuovo e che perciò arricchisce il nucleo individuale del nostro essere, entriamo in conflitto con ciò che avvolge quel nucleo, con quanto abbiamo costruito intorno ad esso, e che è in procinto di crescere. Finché cresciamo, e per il fatto che ancora cresciamo, non prendiamo in noi alcun processo spirituale di morte. Solo quando riceviamo ciò che è esterno a noi, entriamo nel processo spirituale di morte. Questo accade effettivamente durante tutta la vita, anche se è meno evidente nell’infanzia che nel seguito dell’esistenza.
Quindi possiamo dire che nella sfera spirituale, nell’essere interiore dell’uomo, si svolge una spiritualità crescente e morente. Ma in cosa consiste il verificarsi di un tale processo? Lo possiamo capire bene una volta che lo esaminiamo in una forma inferiore, e prendiamo sotto osservazione qualcosa nel campo della vita ordinaria, in modo da formarci, per cosí dire, concezioni e idee riguardanti le sfere superiori dell’essere. Prendiamo per esempio la fatica. Parliamo di fatica sia nell’animale che nell’uomo. Dobbiamo prima farci un’idea della natura della fatica. Non posso citare ora tutte le idee che sono state raccolte in materia, ma osserveremo l’intero processo della fatica in relazione al processo vitale. Possiamo dire che l’uomo si stanca perché usa i suoi muscoli, e pertanto forze fresche devono essere riportate ai muscoli. In questo caso potremmo dire che l’uomo si stanca perché usa i suoi muscoli attraverso un lavoro di qualche genere. Tale definizione appare molto plausibile a prima vista, solo che non è vera. Ma il fatto è che oggi lavoriamo con idee che riguardano esclusivamente la superficie delle cose, non vogliamo penetrare nelle profondità. Pensiamo allora, se i muscoli potessero veramente affaticarsi, cosa avverrebbe con i muscoli del cuore? Essi non si affaticano affatto; lavorano continuamente giorno e notte, e lo stesso avviene con altri muscoli nel corpo umano e in quello animale. Questo dà la nozione che non è corretto dire che nel rapporto tra lavoro e muscolo c’è qualcosa che possa spiegare la stanchezza.
Quando si stancano un animale o un uomo? Quando il loro lavoro non è causato dall’organismo o da un processo vitale, ma viene dallo stesso mondo esterno; vale a dire dal mondo con il quale un essere vivente può entrare in relazione attraverso i suoi organi. Cosí, quando un essere vivente esegue il lavoro in piena consapevolezza, gli organi in questione si affaticano. Nel processo vitale non c’è nulla che possa causare affaticamento. E quindi il processo vitale, gli organi vitali nel loro insieme, per stancarsi devono essere messi in contatto con qualcosa che non appartiene loro.
Posso solo richiamare l’attenzione su questo fatto importante, il cui sviluppo può presentare alcuni punti di vista estremamente fruttuosi: dunque, solo ciò che viene portato ad un essere vivente per mezzo di un processo consapevole, di un incitamento alla consapevolezza, può causare stanchezza. Sarebbe di conseguenza assurdo parlare della fatica delle piante. Possiamo allora dire che in tutto ciò che può affaticare un essere vivente, deve essere in effetti presente qualcosa di estraneo ad esso, deve esservi introdotto qualcosa che non appartiene alla propria natura.
Si può perciò affermare che ogni disturbo del processo vitale che si verifica per la fatica, riporta al fatto, anche in una sfera alquanto inferiore, che ciò che abbiamo nella nostra vita animica non nasce semplicemente dalla nostra vita fisica, ma piuttosto dal fatto che essa sia realmente in contraddizione con le leggi di quella vita. La contraddizione tra le leggi della vita della coscienza, quelle della vita e del solo processo vitale, spiega ciò che è presente nella stanchezza: di questo potete convincervi se lo considerate piú attentamente. Per questo motivo possiamo dire che la stanchezza è un’espressione che testimonia che ciò che accade in un processo vitale deve essere estraneo ad esso per essere in grado di disturbarlo. Ora, il processo vitale può veramente riequilibrare, attraverso il sonno e il riposo, ciò che viene consumato con la fatica. Quello che viene consumato è compensato da qualcosa di nuovo, che entra in sostituzione dei processi vitali.
Nella vita umana individuale appare dunque un processo interno di esaurimento, per la ragione che l’uomo entra in relazione con il mondo esterno. Il vecchio, che era presente in germe, si muta nel nuovo. Il risultato è espresso dal fatto che il singolo nucleo vitale è trasformato durante la vita individuale, ma deve anche per questo sbarazzarsi di ciò che è diventato legno, di quanto si è cosí trasformato dalla sua nascita in poi. La causa della morte è la richiesta di una nuova vita da parte dell’anima umana, proprio come nell’organismo animale la disposizione alla stanchezza può essere causata solo dalla sua entrata in rapporto di scambio con ciò che è nuovo ed estraneo ad esso.
Possiamo dunque dire che il processo di morte, della morte graduale, è quanto viene meglio compreso se si prende in considerazione il suo opposto, in cui l’anima è in relazione con l’organico, e che si esprime con l’affaticamento. Quindi, abbiamo davvero il seme della morte nel nostro piú intimo essere durante l’intera nostra vita individuale. Non potremmo tuttavia svilupparci ulteriormente, non potremmo progredire di un solo passo, se non associassimo la morte alla vita. Cosí come la fatica è connessa con l’esecuzione del lavoro esteriore, allo stesso modo lo è l’abbattimento, l’eliminazione del rivestimento esterno, con l’arricchimento e il piú elevato sviluppo del nucleo vitale individuale. Il processo animico e spirituale della vita e della morte rappresenta con grande chiarezza ciò che potremmo esprimere in questo modo: noi acquisiamo la forma piú evoluta, il piú alto sviluppo della nostra vita, attraverso il benefico atto di sbarazzarci di ciò che eravamo prima. Nessuno sviluppo sarebbe possibile se non potessimo eliminare il vecchio, perché progrediamo attraverso e con quanto abbiamo trasformato in nuovo nella nostra anima e nel nostro Spirito. Quali forze agiscono in questo? Le forze che sono i frutti della nostra vita passata! Possiamo certamente sperimentare i semi di quei frutti e possiamo sperimentare le nostre osservazioni sulla vita, possiamo fare molto altro nella vita, ma non ci è possibile organizzare queste cose in noi stessi né portarle veramente fino alla nostra veste esteriore. Poiché non costruiamo la nostra veste esteriore con ciò che impariamo in una sola vita ‒ o per lo meno solo in misura limitata ‒ lo costruiamo secondo ciò che siamo diventati nella nostra vita precedente.
Possiamo quindi solo costruire la nostra vita utilizzando ciò che abbiamo acquisito nella nostra vita passata, e possiamo continuare a evolvere eliminando il vecchio da noi ‒ come l’albero fa con la sua corteccia ‒ e passando attraverso la morte. Con quello che portiamo con noi attraverso la morte, siamo in grado di costruire la nostra vita successiva, perché è ciò che contiene in sé le stesse forze che hanno costruito la nostra crescita spirituale quando progrediamo in modo vivace e lieto nella nostra fanciullezza. È della stessa natura. Lo abbiamo assorbito dalle nostre esperienze di vita, e con esso ci costruiremo un organismo vivente futuro, una futura veste corporea, che porterà al suo interno, come germe di un fiore futuro, ciò che abbiamo acquisito in una vita. Per quanto riguarda un tale genere di cose, la domanda che viene ripetutamente posta è: che aiuto è, dopo tutto, per l’uomo, sapere delle ripetute vite terrene, se non è in grado di ricordare le sue vite precedenti, se il ricordo delle sue vite precedenti non è presente in lui?
Appartiene infatti alla natura dell’odierna cultura spirituale di non essere ancora in grado di meditare e di riflettere sulle questioni dell’anima e della vita spirituale cosí liberamente come sulle cose della vita naturale. Ma dobbiamo rendere chiaro a noi stessi che è possibile sviluppare idee e concezioni sulle questioni dell’anima e della vita spirituale, esattamente allo stesso modo. Possiamo farlo, solo se osserviamo la cosa con maggiore attenzione, se ci chiediamo quale deve essere la posizione della memoria umana in generale. Qual è la natura della memoria umana? C’è un momento del tempo, nella vita umana personale, che può portare molto facilmente ad acquisire un’opinione su tali questioni. È quanto segue. Sappiamo tutti che c’è un tempo, nella vita normale dell’uomo oggi, di cui non c’è memoria piú oltre nella vita. È il momento della prima infanzia. Nella vita normale dell’uomo di oggi, egli ricorda fino ad un certo punto della sua infanzia, poi la memoria scompare.
Anche se è chiaro per lui che è il suo Io spirituale, o la sua individualità, che ha costruito la sua vita, tuttavia gli manca la capacità di protrarre la sua memoria oltre quel punto. Colui che esamina molte vite dei bambini, sarà in grado di fare un’osservazione da loro. Naturalmente può essere dimostrato solo riguardo alla vita esteriore, ma nonostante ciò, è corretto. Dall’osservazione dell’anima di un bambino scopriamo che il ricordo risale proprio fino al momento in cui sorge in lui l’idea di “Io”, la concezione del proprio sé. Questo è un fatto esteriore importante. Nel momento in cui il bambino, di propria iniziativa, non dice piú: «Carlo vuole questo» o «vuole quello», ma dice «io voglio», da quel punto del tempo in cui inizia la concezione cosciente dell’Io, comincia anche il ricordo. Da cosa deriva questo fatto notevole? Deriva dal fatto che è necessario qualcos’altro per ricordare, oltre ad entrare in contatto ripetutamente con un oggetto. Possiamo entrare in contatto anche spesso con un oggetto, senza sentire necessario ricordarlo. Vale a dire che la memoria ritiene solo attraverso un processo dell’anima del tutto definito, un processo di vita interiore spirituale ben definito, di cui possiamo diventare consapevoli se prendiamo in considerazione quanto segue.
Bisogna distinguere tra la percezione di un oggetto o di una esperienza, e la concezione o l’idea di quell’oggetto o di quella esperienza. Nel processo di percezione abbiamo qualcosa che può sempre ripresentarsi se ci troviamo di nuovo davanti all’oggetto; ma nell’esperienza abbiamo qualcos’altro. Quando entriamo in contatto con qualcosa, e abbiamo ricevuto un’impressione attraverso l’occhio o l’orecchio, ne abbiamo accolto in noi qualcosa di piú che un’impressione interiore: ciò che accogliamo in noi è quanto resta nella concezione o nell’idea e che può incorporarsi nella memoria. Questo, però, deve prima sorgere nell’essere. So che quello che ho appena detto sarà messo molto in dubbio dai fedeli seguaci di Schopenhauer, da parte di coloro che sostengono che la nostra concezione dell’universo sia solo una nostra idea di esso. Ma questo avviene a causa della confusione tra percezione e idea. Entrambe devono essere differenziate in modo decisivo.
L’idea è una cosa che viene riprodotta. Non importa quanto spesso l’esperienza esteriore possa sorgere: se non riceve l’impressione interiore dell’idea, non può essere incorporata nella memoria; quando invece si afferma che l’idea non è altro che quello che si presenta alla percezione, dobbiamo solo renderci conto del fatto che l’idea di un ferro caldo, non importa quanto caldo, non brucerà di certo nessuno, mentre l’esperienza sensoriale lo farà. Abbiamo qui la differenza tra idea e percezione sensoriale. Perciò possiamo dire che l’idea è un’esperienza sensoriale rivolta verso l’interiorità. Ma con questo essere rivolta all’interiorità, con questo presentarsi dall’esterno dell’oggetto, in rapporto reciproco con l’interiorità dell’uomo e attraverso cui l’impressione interna è provocata, occorre prendere in considerazione qualcos’altro. Qualunque cosa venga sperimentata interiormente nella nostra vita sensibile, essa si incorpora nel nostro Io attraverso ogni impressione sensoriale e attraverso tutto ciò che possiamo sperimentare nel mondo esterno. Può anche verificarsi che una percezione sensoriale non venga incorporata nell’Io: è impossibile che un’idea proveniente dal mondo esterno sia trattenuta nella memoria, se non viene ricevuta interiormente nella sfera dell’Io. Ovvero, in ogni concezione che ci formiamo da un’esperienza sensoriale, e che può essere ritenuta nella memoria, l’Io è il punto di partenza. Un’idea che entra nella nostra vita animica dall’esterno, non può in alcun modo essere separata dall’Io. So bene di parlare in modo figurato, ma quanto ho detto è una realtà, come vedremo nel corso delle prossime conferenze.
Possiamo pensare che l’esperienza dell’Io presenti qualcosa come la superficie interna di una sfera vista dall’esterno; quindi le esperienze sensoriali si presentano, e il riflesso personale di queste esperienze all’interno della sfera dà origine all’idea. Per questo, però, l’Io deve essere attivo in ogni singola percezione sensoriale. L’esperienza dell’Io è in tutto ciò che può essere ritenuto nella memoria; è in realtà come uno specchio che riflette le esperienze all’interno di noi; ma l’Io stesso deve essere attivo. Da questo comprendiamo che finché il bambino non riceve le percezioni delle idee in modo che esse diventino concetti, finché si avvicinano al bambino solo dall’esterno come percezioni sensoriali e vengono sperimentate soltanto esteriormente tra l’Io e il mondo esterno senza essere trasformate in un’esperienza dell’Io, finché il bambino non ha alcuna concezione dell’Io, allora nessuna riflessione dell’Io, per cosí dire, gli rivela ciò che è intorno a lui. Per il tempo in cui questo dura, si può notare che il bambino immagina in quello che lo circonda molte cose che gli adulti non capiscono. Solo attraverso la memoria di ciò che è accaduto in passato, può emergere quanto l’Io ha già acquisito, cosí da essersi impresso nella memoria. Quando appare all’Io una percezione, l’Io si pone davanti alle idee come davanti ad uno specchio; ma tutto ciò che si trova prima del tempo della percezione dell’Io, non può essere richiamato alla memoria. Pertanto l’uomo entra in contatto con il mondo esterno sempre in modo che il suo Io sperimenti tutti gli eventi con lui; il suo Io è sempre presente. Ciò non implica che tutto debba entrare nella sua coscienza, ma solo che le sue esperienze non restano solo come percezioni sensoriali, ma si trasformano in idee.
Possiamo quindi dire che il nucleo piú intimo dell’uomo – dal cui centro egli ha sviluppato quanto è stato ora descritto come ciò che passa da incarnazione a incarnazione – è velato dalla concezione dell’Io, per come essa è insita solitamente nell’uomo. L’uomo si pone davanti alla propria memoria con il suo attuale sviluppo. Si spiega cosí dunque chiaramente il fatto che la sua memoria si estenda solo al mondo dei sensi.
Può forse esservi una prova, attraverso l’esperienza stessa, che questo possa mutare da come è adesso? Possiamo parlare di una “estensione della memoria” fino alle precedenti incarnazioni? Ciò è evidente dalla semplice definizione, se la cogliamo, di quanto sta dietro il centro individuale dell’Io, che celiamo a noi stessi com’era. Se cominciassimo a coglierlo, potremmo anche percepire la nostra piú intima natura ed essenza; vedremmo ciò che l’uomo fa nella vita umana, non solo quello che fa con gli altri, ma nella propria vita individuale. C’è quindi la possibilità di guardare indietro, a come era l’Io? Sí, certamente c’è. Si trova nella vita interiore dell’anima di cui ho parlato prima, nella conferenza introduttiva. Se un uomo si impegna davvero allo sviluppo della sua anima attraverso una disciplina severa e metodica, in modo che le forze dormienti in lui comincino a risvegliarsi e l’anima si estenda oltre se stessa, egli può ottenere questo solo acquisendo, con una certa rinuncia interiore, idee diverse da quelle in cui l’esperienza dell’Io è immediatamente presente.
L’esperienza dell’Io pone tutto ciò a cui partecipa dinanzi al nucleo del proprio essere. Per la formazione dell’anima, l’uomo deve pertanto appropriarsi delle idee in cui l’esperienza dell’Io non è presente. Per questo motivo gli esercizi interiori dell’anima cui una persona si dedica, devono essere fatti in un modo assolutamente preciso. Ciò che egli acquisisce nella sua vita animica, dipende dal contenuto della meditazione, e deve interiorizzare qualcosa che sia certamente accettabile per la natura interiore dell’anima, ma che non si riferisca a qualcosa di esteriore.
Cosa c’è che non sia collegato a qualsiasi cosa esteriore? Solo la meditazione. Ma la meditazione è normalmente applicata al mondo esterno, quindi non è utile a colui che vuole salire ai mondi superiori. Bisogna perciò sviluppare una vita delle idee che, in immagini e simboli posti costantemente davanti all’anima, esalti nell’Io un’attività tale da formare idee che mai avrebbero potuto formarsi prima, se si fossero volute acquisire le verità del mondo secondo il senso comune. L’anima deve dunque assumere in sé immagini e simboli che non appaiono quando percepiamo il mondo esterno attraverso l’esperienza dell’Io.
Quando osserviamo questo, abbiamo la seguente esperienza, di cui possiamo solo dire qualcosa di definito indicando quella condizione in cui una persona entra ripetutamente, cioè la condizione del sonno. Quando si addormenta, tutte le idee, tutte le amarezze, il dolore e cosí via, che ha sperimentato durante il giorno, affondano in un’oscurità indefinita. Tutta la sua vita cosciente scivola verso una indefinita oscurità, e ritorna quando si sveglia nuovamente al mattino. Occorre confrontare la vita della coscienza al risveglio e nel sonno. Finché un uomo incamera in sé solo impressioni coscienti della vita esterna dei sensi, riporta con sé al mattino solo quello che aveva la sera nella sua coscienza. Si sveglia ogni volta con lo stesso contenuto nella propria coscienza: ricorda le stesse cose, pensa gli stessi pensieri e cosí via. Ma quando si impegna, nel modo specificato, a una disciplina interiore in cui l’Io non è esteriormente attivo, la posizione è diversa. Può certamente notare un suo primo passo avanti, che consiste nel sentirsi, al risveglio, arricchito dal sonno; sente che quello che aveva immesso in sé prima di andare a dormire gli ritorna con un contenuto piú ricco. A quel punto potrà dire: «Ora ho visto nel Mondo spirituale ciò che non è celato all’Io, e come frutto di questo, immetto nella vita della mia coscienza qualcosa che non ho acquisito dal mondo delle sensazioni, ma l’ho riportato con me dal mondo del sonno».
Questi sono i primi passi dei progressi ottenuti da chi conduce una vita spirituale dell’anima. Ora, la possibilità di ulteriori passi può colmarsi adesso, anche durante la vita di veglia, di un contenuto non permeato delle precedenti esperienze dell’Io, sebbene l’Io sia presente. L’esperienza dell’Io deve avvenire, riguardo a un tale contenuto, proprio come avviene con il contenuto di tutte le esperienze fisiche. Se prendiamo questo in considerazione, dobbiamo affermare che solo colui che è in grado di guardare oltre l’Io, può guardare nel contenuto spirituale di un essere umano.
Chi percorre un tale cammino, si avvicina spesso a sviluppare particolari sentimenti. La natura di questi sentimenti indicherà anche di quale natura siano. Quindi dobbiamo imparare ad essere liberi dal desiderio, e soprattutto a superare la paura e l’ansia per quanto riguarda gli avvenimenti futuri. Dobbiamo imparare a dire in modo calmo e spassionato: «Non importa ciò che mi accadrà, lo accetterò» e non dobbiamo solo dire questo a noi stessi come un concetto freddo e astratto, ma esso deve far parte dei nostri piú intimi sentimenti.
Non dobbiamo divenire fatalisti per questo motivo (un fatalista pensa che tutto succeda per conto proprio), ma dobbiamo utilizzare tale facoltà per intervenire nella vita. Se siamo in grado di instillare nell’Io un assoluto equilibrio riguardo ai sentimenti e alle sensazioni, questo porta con grande forza il nostro essere spirituale a separare l’Io da quelle percezioni che sono già presenti nella nostra coscienza. Cosí rimaniamo saldi entro il mondo dell’Io, pur ricevendo un nuovo mondo di esperienze interiori dell’anima. Questo rende allora possibile per noi vedere, nella sua vera forma individuale, il nucleo piú intimo dell’essere umano, che certamente si sviluppa dalla nascita in poi come ciò che origina da una vita precedente, ma che non poteva essere riconosciuto prima nella sua vera realtà. Dobbiamo vederlo prima per come è, per come attualmente è in realtà, e per come si manifesta. Possiamo quindi ricordare adesso qualcosa cui non avevamo mai rivolto i nostri occhi. Proprio come il bambino non trattiene nella sua coscienza ciò che ha avuto luogo prima dello sviluppo della sua percezione dell’Io, cosí l’uomo non può riportare alla memoria quelle esperienze delle sue nascite precedenti che non si basano su una conoscenza del nucleo interno dell’essere umano, sui sentimenti e sulle sensazioni dell’anima e del nucleo spirituale che è in ogni uomo.
Colui che veramente sperimenta questo, che apprende soprattutto ad acquistare per se stesso una visione retrospettiva delle esistenze precedenti, guardando al futuro con equanimità e accettazione, vedrà che le precedenti vite terrene non sono semplicemente una sequenza logica, ma dimostrano di essere una realtà per una memoria nata a nuovo, divenuta ora vivente.
Perché questo si verifichi, tuttavia, una cosa è necessaria. La possibilità di esaminare il passato può essere acquisita solo se vi è una mancanza di brama, una equanimità e una piena accettazione del futuro. Nella misura in cui siamo pronti a sperimentare il futuro nei nostri sentimenti e sensazioni, e siamo in grado di escludere che le pregresse esperienze dell’Io incidano sulle future, siamo allora in grado di esaminare il passato. Quanto piú l’uomo sviluppa una tale equanimità, tanto piú egli si avvicina al punto in cui le precedenti vite terrene diventeranno una realtà per lui.
Questo sembrerebbe dar ragione all’obiezione che spesso si fa, che per la vita umana ordinaria non può esservi alcun ricordo. Ma questa obiezione è come se ci fosse portato un bambino di quattro anni, e si dicesse: «Questo bambino non sa contare», e di conseguenza si concludesse che anche l’uomo non sa contare! A ciò si potrebbe solo replicare: «Aspetta che il bambino abbia dieci anni, allora sarà in grado di contare; e dunque, l’uomo sa contare». Il ricordo delle vite precedenti è una questione di sviluppo! Pertanto è necessario che si impari a pensare a questo con la forza di una logica conclusione che possiamo considerare come il punto centrale della conferenza di oggi. Vedremo in seguito che un vivente nucleo animico spirituale può esistere nell’uomo, e che lo portiamo attraverso la morte a una nuova vita, cosí come l’abbiamo portato attraverso la nascita in questa vita.
Dunque la Scienza dello Spirito non si volge in modo semplice, ma in modo sostanzialmente corretto, a ciò che è eterno nell’uomo per quanto riguarda la “vita” e la “morte”. E possiamo dire che la conclusione logica sulla morte e sulla vita in relazione all’essere umano afferma risolutamente che in questa individualità umana esiste anche la possibilità di acquisire la memoria delle vite passate. Le persone non possono piú dire che non potendo ricordare le nostre vite precedenti, esse sono inutili! È forse utile per noi solo quello che possiamo ricordare? Portiamo in noi i frutti delle vite passate; sviluppiamo in noi stessi, nella vita attuale, senza averne coscienza, ciò che abbiamo portato dalle vite anteriori; e quando cominciamo a guardare indietro alle nostre precedenti vite terrene, ritroviamo intatta la loro memoria. Possiamo allora dire a noi stessi che cosa è stato bene che in passato non riuscissimo a ricordare.
La memoria del passato può essere solo conquistata nel modo che ho caratterizzato riguardo ai sentimenti e alle sensazioni verso la vita futura, ma non è tutto; essa può essere resa durevole soltanto dall’atteggiamento animico che è stato descritto. Se essa fosse suscitata con mezzi artificiali, o se l’uomo, nello stesso tempo, dovesse condurre una vita di desideri e appetiti permeati dall’egoismo, allora la sua anima e la sua vita spirituale perderebbero il loro equilibrio e diventerebbero un inganno. Perché alcune cose si accordano, altre si respingono.
Ciò che è eterno nell’uomo e viene alla vita attraverso la nascita, va dalla vita ai mondi spirituali attraverso la morte e riappare in nuove incarnazioni. Conseguenza di questo è il fatto che possiamo evolverci in forme piú evolute di reincarnazioni se utilizziamo i frutti della vita precedente. Oggi ho voluto sottolineare le relazioni con il nucleo dell’essere umano e le sue idee. Quando avremo certezza di ciò, non daremo piú come risposta alla domanda sulla natura della vita e della morte: «La natura della morte si impara dal cadavere». Dobbiamo piuttosto dire: «Abbiamo cercato nel piú profondo essere dell’uomo quello che deve produrre una nuova vita; ma perché possa nascere una nuova vita, il vecchio deve gradualmente morire e infine spegnersi del tutto, proprio come la vecchia pianta quando è passato un anno muore, in modo che la nuova pianta possa trarre vita da essa».
Colui che osserva in questo modo il mondo della morte, non considererà ciò che rimane come un cadavere, ma guarderà ad ogni essere per quelle caratteristiche della vita che vengono portate verso una nuova vita. Anche se Shakespeare fa affermare al tenebroso principe danese ciò che a molti appare evidente dalle convinte asserzioni della scienza odierna:
L’imperioso Cesare, morto e diventato argilla,
potrebbe turare un buco per tener lontano il vento.
Oh, quell’argilla, che aveva tenuto soggetto il mondo,
potrebbe rattoppare un muro per impedire il soffio dell’inverno!
Se invece trasformeremo una tale osservazione del processo di morte, guarderemo all’uomo dal punto di vista della Scienza dello Spirito, al nucleo spirituale dell’essere umano, che sperimenta la nascita e la morte attraverso ogni nuova vita. Otterremo allora la certezza – non considerando ciò che resta come ossigeno, carbonio e azoto, ma cercando il vivente che sperimenta, il vero nucleo dell’essere umano – che possiamo opporre alle parole di Shakespeare quest’altro punto di vista:
Il piú umile uomo sulla terra
è figlio dell’eternità
e supera, in ogni nuova vita,
l’antica morte.
Rudolf Steiner
Berlino, 27 Ottobre 1910, O.O. N° 60