La luce dentro

Considerazioni

La luce dentro

Dubbi e certezzeNon ci servono consigli, suggerimenti o raccomandazioni: noi vogliamo certezze in cui credere. Ma dal momento che non le abbiamo, siamo portati a credere che, delle due, l’una: o le certezze non esistono, oppure stanno rintanate in luoghi talmente impensabili da non riuscire a trovarle.

Accanto a queste due ipotesi poco af­fascinanti ma sufficientemente accreditate, se ne aggiunge una terza che andrebbe te­nuta in considerazione: non saremmo forse diventati incapaci di credere a qualcosa di certo nemmeno quando ce lo troviamo sotto il naso?

Ciò che ancora non si sa costituisce l’ignoto, e per indagare l’ignoto ci sono parecchi metodi, ma essenzialmente si riducono a due: avvalersi delle percezioni, studiarle, capire cosa siano, senza tener conto che la ricerca per forza di cose include la presenza di un nostro apporto individuale e consapevole; o partire proprio da questa presenza e quindi analizzare il metodo che essa istaura con il mondo, ne afferri la correlazione e giunga quindi a chiedersi come sorga in noi l’impulso alla conoscenza in generale e come si attui nel particolare.

La filosofia ha fin qui favorito quest’ultimo aspetto, ma dopo secoli di primato teorico-dottrinale si è arenata sul bagnasciuga delle “rappresentazioni”: io percepisco un colore, mettiamo il giallo; molti altri assieme a me lo vedono; ma quale influenza si creerà in ciascuno? La cosa è del tutto personale e ogni anima reagirà di fronte alla percezione del giallo secondo un diverso criterio: quindi l’universalità, riposta prima nella percezione, ora si annienta di fronte all’interpretazione che ogni singolo sarà portato a darle.

Si apre cosí la via al dominio ‒ ufficialmente mai riconosciuto ‒ delle rappresentazioni; viene preso per oggettivo ciò che non lo è; sorge la moderna scienza fisica, che assieme a quella filosofico-psicologica ha cambiato il mondo del sapere e dell’ordinaria visione delle cose; entrambe hanno dilatato, a volte distorto, le precedenti prospettive, i riferimenti e i supporti sui quali si basavano, piú o meno solidamente, le nostre credenze sulla vita, sull’universo e su un ipotetico Dio, Creatore del cielo e della terra.

Con la scienza della fisica, partendo da quella relativistica per arrivare alla moderna meccanica dei quanti, antiche certezze si sono dissolte a favore di una “ nuvola di probabilità”, e per ora nessuno è in grado di dire se abbiamo guadagnato nel cambio. Perfino l’intuizione di Cartesio, nome d’élite tra i pensatori storici, nota la sua propensione a ragionare, per quel tempo, in termini scientifici, ne esce ridimensionata, a mala pena riconoscibile: non piú “sum” perché “cogito”, ma la facoltà della “cogitatio” rende il mio esistere alquanto possibile. Non “sono” in quanto “penso”, ma pensando di essere è probabile che lo sia per davvero.

Gli universi si sono moltiplicati come le dimensioni; chiedersi se siano in numero infinito è come chiedersi quante serie cifrate possano coesistere pacificamente nell’assieme matematico. Gli esperimenti sulle particelle suggeriscono un facsimile delle origine del cosmo e dell’ordine universale fin qui cono­sciuto: tuttavia, quasi per dispetto, esse si mettono a trasgredire proprio quei princípi di compostezza e regolarità che noi chiediamo alla realtà per essere reale. Una cosa può anche non esistere, ma se io la penso, ecco che mi permette di cogliere le prove del suo esistere: posso calcolarne la posizione, o, in alternativa, la velocità di moto.

Piú ascendiamo nel conoscere e piú qualcosa di sconosciuto ci trascende. Ma d’altra parte non pos­siamo dimenticare che la nostra scienza non è nata proponendosi di svelare i perché dell’universo, partendo dal nostro; ha puntato bensí sul “come” e “in base a quali leggi” i cosiddetti fenomeni naturali accadono e continueranno ad accadere ancora, probabilmente.

Diverso è il discorso per le discipline che si rivolgono alla ricerca interiore, e che un tempo venivano classificate come “filosofie dell’anima”. Da un paio di secoli le nuove derivazioni hanno bellamente soppiantato le precedenti, ma purtroppo perdendo di vista l’assunto iniziale. Alle prime in ordine di tempo va ascritto il merito d’aver introdotto il concetto dell’Io (ultimo valido presidio del pensiero occidentale), pur attraverso un’esasperata soggettivizzazione del sentimento di sé, ma alle altre, sembra inevitabile imputare il demerito che questo povero “Io”, creaturina neonata, sia stato trascinato, senza riguardi e direi anche con una certa foga, nei labirinti di molteplici “sotto-io”. La sua prerogativa essenziale, che avrebbe dovuto essere quella di riflettere un mondo d’iperuranica luminosità, si è frantumata in un’angosciata ricerca di se stesso per tortuosi ipogei e abissi marini, dai quali – dicono ‒ “è probabile” siano emerse le prime ancestrali forme di vita biologica capaci di riconoscersi per tali e di organizzarsi in conseguenza.

Da una parte i risultati delle scienze sono riusciti a farci sognare universi autotrofici in espansione multilevel, riducendo contemporaneamente (magari non volendo in modo diretto) la nostra Terra a una bazzecola planetaria; dall’altra, l’essere umano è stato reso oggetto di ricerche e approfondimenti che hanno messo in evidenza vastità interiori talmente complesse e inesplorate da far capire a filosofi, analisti e psico­terapeuti, d’essere ben lungi dall’avere un quadro d’insieme se non completo almeno significativo.

L’Io che ne esce è un viandante sperduto nella notte. O è in grado di rispondere a San Paolo che lo interroga sull’oscurità del cammino, oppure deve rinunciarvi, immergendosi con grande alacrità in tutto ciò che gli faccia dimenticare lo spessore dell’apostolica domanda.

L’universo si è ingigantito, l’umano si è rimpicciolito: sono percezioni oggettive o sono nostre rap­presentazioni? Il risultato certo è per ora uno solo: stiamo, per un certo verso, meglio di prima, ma per contro, ci sentiamo interiormente peggiorati. Sempre che questo “sentirsi interiore” sia ancora avvisabile e non sia scaduto a oscura pratica di stregoneria metropolitana.

In una situazione cosí particolare, in cui qualunque discorso su un’ipotetica direzione evolutiva può venire accolto solo se in abbinamento a un concorso a premi, o associato a un reality di massa, con un genere umano che, non comprendendo i motivi dei propri guai, annaspa a 360 gradi cercando soluzioni tanto mirabolanti quanto improbabili, l’evenienza di una strada risolutiva, percorribile da chiunque (e perciò altamente democratica) capace di portare a tutte le anime e in tutte le latitudini, se non il bene assoluto, almeno il viatico della serenità e di una fratellanza libera da remore e riserve, dovrebbe venir accolta, come minimo, con un entusiasmo epico, con un osanna di tripudio, traboccante di gioia e gratitudine infinite.

Ma invece non è cosí. Sul finire del XIX secolo, e negli immediati decenni successivi,Rudolf Steiner Rudolf Steiner elaborò la sua Antroposofia; la offerse al mondo intero. Alcuni dei Suoi seguaci sostengono che egli dette la vita alla causa dello Spirito, ma lasciamo pure da parte l’en­fasi discepolare, che semmai richiederebbe un altro tipo d’indagine. Desidero qui solo porre l’accento sul fatto che una vera soluzione a tutti i problemi ‒ ma possiamo anche chiamarli con il vero nome di “drammi” della marea umana, dei quali lo scorso secolo e gli anni correnti forniscono una quanto mai inconfutabile testimonianza, il cui bagliore di veridicità è tale da ridestare anche il piú stordito dei materialisti ‒ è qui nelle nostre mani: esiste!

Da 120 anni l’Antroposofia ci è stata donata, consegnata, affi­data. Nulla di essa l’Autore volle per sé: era ed è destinata al mondo, all’umanità che ogni giorno lo calpesta, all’umanità che verrà e che forse ‒ a questo punto è lecito indicare l’Antroposofia come elemento di possibile distinzione – si comporterà diversamente da come fatto fino ad oggi.

È difficile trovare parole adatte a spiegare i motivi per i quali la figura del dott. Steiner e la sua opera siano state cosí profondamente ignorate, trascurate e avversate da una moltitudine di uomini, appartenenti a culti, scienze e filosofie diverse. Ma evidentemente doveva andare in tal modo; doveva essere rispettato il gioco degli equilibri occulti che si svolge dietro i trompe l’oeil delle evidenze. Eppure io stesso, che per natura rimango indifferente anche alle follie del Guinness dei Primati, stupisco e non riesco a capacitarmi dell’incomprensione generale che il mondo ha riservato all’Antroposofia. Forse la ragione principale, se proprio ne dovessi trovare una, sta nel fatto che soltanto cosí, nella freddezza e nella ostilità dei piú, qualche Spirito umano veramente capace di cogliere il senso del pensiero steineriano ha avuto la possibilità di crescere, di perfezionarsi e in alcuni casi di uscire allo scoperto, consapevole di quel che sarebbe divenuta la sua vita da quel momento in poi. Nuotare controcorrente, in acqua, richiede fatica e tenacia; nella vita, bisogna aggiungerci anche il coraggio che nasce dalla certezza delle proprie convinzioni.

Nel tentativo di dare una motivazione ragionata al mancato pieno riconoscimento del testamento spi­rituale di Rudolf Steiner, mi sono imbattuto in un secondo fattore, piú complicato da affrontare, in quanto non riguarda gli indifferenti e gli oppositori al Maestro; potrebbe invece riguardare i suoi seguaci o quanti amano definirsi tali. Tento di articolare tale argomento nella parte che segue.

Durante un seminario tenutosi molto tempo fa, avente per titolo “Il Vangelo della Coscienza”, si arrivò ad un punto in cui qualcuno del pubblico interruppe l’oratore e chiese coram populo: «Come si fa ad avere una certezza ? Come si fa a sapere che è proprio una certezza e non altro?».

Ricordo la risposta del conferenziere; evidentemente non era ferrato solo su cose teoriche. Forse le parole non sono le medesime di quelle che riporto e i concetti non sono nella sequenza esatta, ma il discorso fila bene oggi come allora.

«Come sai di avere fame? Con lo stomaco? Bene. Come sai di essere innamorato? Con il cuore? Bene. E come sai d’avere un dubbio? Con il pensiero, sí? Allora usa il pensiero!»

«Ma – replicò il convenuto – il pensiero mi dice tante cose che al momento vanno bene, poi però, magari l’indomani, lo stesso pensiero mi dice che non erano del tutto giuste. Sicché io non ho la certezza…».

«Tu sei convinto che lo stesso tuo pensiero a volte ti pone dei dubbi e a volte te li risolve?».

«Sí, certo».

«Bene. Vedi allora che adesso, almeno in questo, hai una certezza!».

In seguito lo stesso relatore ebbe ad aggiungere: «Ogni essere umano è uno Spirito incarnato. Se fosse solo Spirito, avrebbe solo certezze; non gli sarebbe stata nemmeno necessaria l’incarnazione. Ma venuto qui sulla Terra come Spirito d’Uomo, le certezze deve conquistarsele una ad una. Non trova tutto pronto. Scendere nella dimensione fisica dell’esistere non è venire a una mensa già imbandita. C’è tutta un’evolu­zione da compiere, e l’arrivo di uno Spirito sulla Terra segna sempre l’inizio di un nuovo percorso. L’anima dell’uomo incomincia a provare un impulso irresistibile alla conoscenza; capisce che essa è prima d’ogni altra cosa, conoscenza di sé. La forza dello Spirito opera nel pensare umano come Luce immanente e ininterrotta, per formulare pensieri, per interiorizzare concetti e idee. I contenuti dei pensieri possono essere giusti e possono essere sbagliati. L’uomo è libero di creare tanto gli uni quanto gli altri. Se sbaglia e persiste nell’errore, prima o poi s’imbatterà in una richiesta di correzione che egli potrà adoperare per una eventuale rettifica. Ma la Luce che gli è balenata non è mai sbagliata; sbagliato può essere solo l’uso che il soggetto fa di quella Luce. Lo Spirito conosce la verità; sa sempre dove essa sta di casa. L’uomo deve scomodarsi a cercarla. In tale impegno, che non può che essere totale e continuativo, egli ha la possibilità di ritrovarsi e di riconoscersi come portatore dello Spirito sulla Terra: che è la sua Luce, la sua Verità, la vera essenza dell’umano».

Questa faccenda della Luce dello Spirito intesa come Luce della Verità ha ridestato in me un forte interesse; sentivo che era una strada tutta da percorrere, o quanto meno da capire oltre l’espressione dialettica. Da dove viene un’idea? È una domanda interessante che non avevo mai provato a chiedermi; un’idea, un’intuizione, un concetto …da dove vengono? Come sono prima di “brillare” nella testa di un uomo?

Ricordavo al proposito quanto affermato da Rudolf Steiner all’inizio del Cap. VI della Filosofia della Libertà: «Cosa sia un concetto non può essere detto con parole. Le parole possono soltanto rendere attento l’uomo al fatto che egli ha dei concetti».

Ora potevo reinterpretare, e in sostanza integrare in modo diverso, questa frase, abbinando il suo significato al concetto di Luce. Tutto quello che riguarda il pensiero nel suo scorrere metafisico, ossia prima che la nostra coscienza sappia d’averlo, è Luce, pura Luce spirituale. Essa arde e scende fin nella parte piú materiale del nostro organismo (cervello) ove lampeggia ancora una volta, per un attimo, e muore. Muore per noi, per amore dell’uomo, per diventare nostro pensiero, sentimento, atto volitivo che sia. Dal suo morire scocca la scintilla della conoscenza. L’uomo avverte che in questo sacrificio d’amore divino risiede il paradigma di qualsiasi amore terrestre.

Chi sa rendersi conto di questo fatto, incredibile e grandioso allo stesso tempo, non solo ha le chiavi per intuire in che cosa consista veramente la conoscenza e l’impulso umano a perseguirla, ma sperimenta parimenti, come intimo e possente riferimento spirituale, tutto l’Amore che, dalla Sua Eternità, il Divino offre all’uomo, e che l’uomo ricercherà poi, attraverso il ripetersi delle vite terrene, in persone, ideali, affetti o dedizioni, ogni volta credendo che là, all’interno di una di queste promesse, si celi quel che ha provato vivendo per un istante il Mistero dell’Amore. Che è l’eco di quel soffio di Vita dal quale è nato e che, oggi ancora, lo fa andare incontro al suo destino.

Noi non sappiamo cosa sia un concetto, ovvero non conosciamo ancora la sua valenza sovrasensibile; sappiamo soltanto coniare l’espressione dialettica che ogni volta chiama in causa lo Spirito per sopprimerlo, in quanto oggettivato nell’impiego di una determinata necessità soggettiva. Cosí per le idee, cosí per le intuizioni; e cosí pure per la parte di pensiero non ancora coinvolta nel processo dialettico, ove il quid di Luce spirituale sopraggiungente viene a materializzarsi nel processo cerebrale.

Questa incapacità di osservare una cosa nel suo stato d’origine, fintanto che essa non lo perda abbas­sandosi al livello dell’uomo e si trasformi in una possibile percezione-oggetto, non ci ricorda forse quella misteriosa particolarità che i moderni fisici teorici attribuiscono alle loro “particelle”? Non ammettono loro stessi la stranezza di un qualcosa di cui si sa che c’è, solo nel momento in cui viene scrutato con una strumentazione adeguata? E non basta; anche in tal caso, il piano del suo esistere continua a rimanere in­verificato e inverificabile, ma in compenso possiamo avere, come prova, le probabilità della sua posizione, o in alternativa la velocità di moto.

Brancolando tra certezze mancanti di fondamento e fondamenti privi di certezza, come ce la caviamo? Ragioniamoci sopra. Quando posso io vivere appieno l’idea della libertà? Quando non ce l’ho piú; quando sono prigioniero di qualcuno o di qualcosa; o mi arrabatto in cosí gravi pasticci da avere l’impressione di non poterne uscire; allora sí che la libertà ha per me un significato profondo, chiaro ed esplicito. Checché se ne dica, questo significato io lo trovo solo nella perdita, nella privazione della libertà. Per volere la Luce bisogna partire dal buio.

SigfridoL’eroe wagneriano Sigfrido non conosceva la paura; non sa­peva cosa fosse; ma allora l’appellativo di eroe è fuori luogo, perché eroe è colui che, vincendo la propria paura, trova il coraggio. Se possedessi solo il coraggio e non la sua inversione, che coraggio sarebbe? Non vinci te stesso se prima non ti accorgi d’esser vinto.

Passo dopo passo arriviamo ai giorni in cui l’umanità ha saputo vincersi cosí compiutamente da buttar via tradizioni obsolete, moniti arcani e discipline pseudo-iniziatiche del corpo e della psiche; in tutto ciò non ha trovato nulla di utile per connettere computer, smartizzare telefonini, produrre risparmio energetico e neppure stirare le rughe, senza bisturi, dal volto delle signore di una certa età. Questi sono i nostri giorni: se paghi le bollette, la luce arriva. Non sarà quella giusta ma ci va bene cosí.

Da molti l’Antroposofia di Rudolf Steiner è stata rifiutata, da pochi è stata accolta; il fatto quantitativo non è in questione. Nell’Antropo­sofia ci sono sempre state figure di riferimento, di uomini e donne notevoli, che hanno saputo, voluto e potuto esprimere la loro forza spirituale; nessuno può dire quante o quanti essi siano; molti di questi spiriti agiscono nel completo silenzio e nell’anonimato piú assoluto. Ma da quei pochi che ho conosciuto personalmente, ho ricavato l’impressione che abbiano una marcia in piú rispetto a tutti.

Che significa “avere una marcia in piú”? Mi viene risposto: «È semplice! Basta non perdere colpi».

Devo allora domandarmi: «Cosa sono questi colpi?».

Qui nessuno me lo sa dire con precisione. Le risposte sono tante, ma vaghe, imprecise, parziali. Esempi: “ho avuto un colpo di fortuna”; “quel tale ha fatto un colpo di testa”; “c’è in corso un colpo di stato”; “mi sono preso un colpo al ginocchio”; “è questione di colpo d’occhio”…

Comincio a credere che il concetto di “colpo” sia una di quelle evanescenti particelle che esistono al di sopra e al di là di noi. Possiamo richiamarle in specifiche determinazioni, ma prima di allora non si lasciano afferrare. La verità vi farà liberiC’è tuttavia un sistema per uscire dall’impasse di questa assurda trafila: restituiamo il senso di “Luce della Conoscenza” alla Verità. La Verità è sempre lontana, irraggiungibile, ma ogni conoscenza parte da noi, e piú si va avanti e piú essa rischiara la via. Andiamo a verificare come e quanto tale valorizzazione funzioni nel convalidare la nostra sete di certezza.

Se nel pensare si accende in noi una Luce, allora sappiamo che è la Verità. Se nulla si accende, la Verità non c’è; o meglio, resta separata da noi in una dimensione cui non abbiamo per ora l’accesso e della quale, salvo presupposizione intuitiva, nulla conosciamo.

Ora mi sono messo nella situazione di spiegarmi cosa intendo per accendersi di una Luce interiore. Mi pare doveroso. Per Luce interiore intendo qualunque fatto, esterno o interno, capace di provocare un atto conoscitivo, il quale istantaneamente arricchisce l’anima (coscienza, individualità) di una forza convincente. Tale valore sfida l’usura del tempo e dello spazio, ossia dei limiti imposti dalla fisicità terrestre allo Spirito umano.

Citazione: «…il pensiero che possa darsi come oggetto non va compreso, ma percepito. Si sperimenta come luce predialettica. Tale luce reca in sé il potere del principio».

Questo insegnamento di Massimo Scaligero (Tecniche della Concentrazione Interiore) è rimasto impresso a lungo in me come ricordo silenzioso; quindi al di là del suo risuonare nei momenti che io credevo solenni del mio meditare, non pensavo vi fosse altro da aggiungere.

Invece quell’“altro” c’era. Eccome c’era! Ne sortí un completo rovesciamento della mia concezione di sperimentatore meditante.

Scoprii che quel pensiero «che possa darsi come oggetto» è un ben singolare pensiero! È energia scaturente che si manifesta allo stato puro nella coscienza (qui l’anima non basta piú) di chi è consapevole non soltanto di star compiendo un esercizio, ma anche di star attuandone il contenuto.

Ciò che in tal caso potrà darsi come oggetto è la Luce, è la Verità, è la Conoscenza (ovviamente è il momento iniziale in cui il potenziale conoscitivo si presenta). Tant’è vero che subito dopo Massimo puntualizza, con la Sua millimetrica precisione, che un tale pensiero non va “compreso”, ossia lavorato intellettualmente, ma va semplicemente percepito: «Si sperimenta come Luce predialettica». È la Luce predialettica, o Luce del Pensiero non ancora ridotto a pensato, perciò allo stadio sorgivo di pura Essenza.

Dunque ci siamo! Se mi pongo nelle condizioni di aprirmi senza riserve donandomi totalmente all’eser­cizio, la Luce arriva e mi compenetra fino al midollo. Lo faceva anche prima, ma io non c’ero; ora invece ci sono, ho fatto in modo d’essere presente all’avvenimento mentre avviene.

Quali dubbi potrebbero assalirmi data la circostanza? Quali incertezze? Nulla; zero assoluto. La Luce della Verità (o Potere del Principio) non concede spazio alle ombre, alle sfumature, alle confusioni. Quand’anche un’unica incertezza si affacciasse in quel particolare momento, significherebbe che l’esperimento si è interrotto; l’anima non filtra piú la Luce, ho lasciato che si richiudesse. Una lastra di vetro, che s’intorbidi oltre una certa misura, impedisce il passaggio alla luce del giorno. Non è la luce a mancare. Ma certa­mente chi se ne sta dietro può anche pensare che fuori sia ancora notte fonda.

Persa la Luce, tutte le incertezze, gli equivoci, le ansie e le paure sono legittime.

Ma non lo sono là dove, per uno o pochi istanti, la mia interiorità ha verificato che ogni forma di energia-pensiero nascente in quanto Luce, viene a morire in me, in te, in ogni coscienza d’uomo, per donarci un chiarore, una traccia, un segno nel buio della tenebra terrestre.

Chi ritenga d’aver bisogno di ulteriori prove, può rileggere i primi versetti del Vangelo di Giovanni.

Quanto segue ora non è frutto di mio studio: è stato svolto da una di quelle persone che, a mio parere, sono decisamente inoltrate nel loro cammino interiore. Ben volentieri ne ho condiviso la disamina e mi fa piacere poterla qui presentare a sostegno dell’intero articolo:

 

In principio era il Verbo«La Luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’ac­colsero» (Gv 1,5).

Per “accogliere” il testo greco del Vangelo, nella stesura originaria, usa il verbo “katalambàno”; tra i suoi svariati significati i traduttori hanno privilegiato “accogliere”. Devono aver pensato: se diciamo che le tenebre non l’accolsero (la Luce) è come dire che la respingono, e quindi il senso torna.

È vero, da un punto di vista lessicale il senso torna; ma non torna se non si conosce nulla di Antroposofia, se non si cerca innanzi tutto lo Spirito, se non si dà peso alla Luce della Verità.

In primissima battuta, katalambàno vuol dire “tiro giú da…”: viene indicato un preciso movimento, un’azione tutta interiore. Le tenebre non ce la fanno a tirar giú la Luce; non ci riescono anche se ci provano. E ci mancherebbe! Se ci riuscissero, cesserebbero di essere tenebre; il loro compito di contro-forze sparirebbe con loro. Ma l’Uomo non è solo tenebra; non è tutto materia. L’anima non è una semplice cassa di risonanza dell’esperienza sensibile: l’Uomo è anche Spirito! Questa nostra parte cosí essenziale e cosí misconosciuta è perfettamente in grado di tirar giú, trarre a sé, far propria, la Luce. Anzi, non attende altro che ci diamo una mossa.

Volendolo dire in termini adeguati ai tempi attuali, daremo all’antico katalambàno il valore di “interioriz­zare”. Si tratta dunque di interiorizzare la Luce, quella Luce. Lo Spirito umano è qui per questo, per la Luce; per ricongiungersi con quella forza di vita spirituale che fu Luce cosmica e da cui ebbe origine ogni esistenza. Ma se tutto questo bel preambolo viene disatteso, rimane lettera morta, o peggio, sepolto sotto macerie di dubbi linguistici, cavilli filologici, e quant’altro, che resta della Luce?

Resta un vecchio testo evangelico, metaforico, ermetico, molto discutibile, e in certi passaggi addirittura ambiguo. Resta un’Antroposofia, bella, geniale opera di pensiero filosofico-spiritualistico, un po’ astratta, ma piena di buoni propositi. Ti fa star bene e ti spiega tante cose, ma purtroppo lascia il tempo che trova. Resta la meditazione di Massimo Scaligero, piuttosto ardua da cogliere nel suo significato preciso. Per cui, si vocifera, le meditazioni vanno fatte con disciplina e devozione ma è opportuno evitare la tentazione di volerle penetrare intellettivamente.

Come sciogliere questi pregiudizi, sorti non dall’opposizione dichiarata allo Spirito da parte di mate­rialisti, atei e probabilisti indifferenziati con tendenza al nichilismo, ma da quella parte, numericamente minoritaria, che ha scelto di aderire all’Antroposofia?

Attraverso una fitta ragnatela di pretestuosi arabeschi, di ghirigori dialettici, di altarini intonacati e complici paraventi, si cerca di nascondere la pochezza della motivazione, mascherare l’instabilità del fonda­mento; l’incapacità di dare al pensiero la libertà senza la quale non è veramente pensiero.

Tutti i mali dell’odierna umanità si riferiscono alla paralisi spirituale; convergono in una tenace acquiescenza alle proprie infatuazioni animiche, e quindi all’impossibilità di concepire una libertà diversa da quella che non sia agognata nelle catene della schiavitú.

 

Di mano mia aggiungo che le recriminazioni addotte per evitare di interiorizzare la Luce costituiscono uno spregio nei confronti di coloro che hanno strenuamente lottato affinché tutto questo non accadesse, e per quanti continuano a farlo senza uso di stendardi e proclami.

Ciò detto, la Luce deve essere interiorizzata; la Forza-Pensiero deve essere interiorizzata; l’insegna­mento della Scienza dello Spirito deve essere interiorizzato. Altrimenti c’è il rischio di vanificare quanto, bene o male, abbiamo fatto fin qui.

Mentre nel processo ordinario la Luce muore per balenare come pensiero, per darci certezza di quel che proviamo, ma senza che l’uomo sia consapevole di ciò che si verifica nell’intimo del proprio essere, la Luce che riusciamo a interiorizzare nella centralità dell’anima, si riaccende proprio là, all’interno di quella che chiamiamo coscienza; si revivifica come Luce della Verità, e illumina il livello oscuro della menzogna perenne.

Chi vuole la certezza e respinge l’Antroposofia, nel senso che può anche seguirla con scrupolosa devo­zione, ma non si cimenta a portar dentro di sé quel che di Luce splende negli insegnamenti e negli esercizi, deve, per forza di cose, cercare altrove, fuori di sé, nel mondo, ciò che in realtà porta già in se stesso, come potenzialità innata, congenita; quella che, in quanto Spirito Umano, lo distingue da ogni altra forma vivente.

Forse questa è l’altra chiave di lettura per comprendere il motivo per cui il pensiero di Rudolf Steiner, che ha plasmato l’Antroposofia, ha fin qui suscitato nei suoi studiosi un interessamento troppo fievole, troppo poco avvincente perché il senso ultimo del Suo messaggio potesse davvero compenetrare e risplendere in ogni anima d’uomo.

L’Antroposofia stessa è quel che Essa può realisticamente attuare nel mondo attraverso lo Spirito umano, non quello che resta chiuso nei libri, nelle riunioni, nelle conferenze, o viene inghirlandato da coroncine meditative.

Si è tuttavia liberi di respingere, di scartare come inutile se non dannosa, un’offerta conoscitiva di tale portata; come d’altro canto, si è liberi di aderirvi, o credere di aderirvi, portandosi dietro le proprie debolezze, le riserve, aggiungendovi pure l’inerzia esistenziale, nella speranza che l’Antroposofia compia il miracolo.

Ma non ci si deve illudere: sono entrambi due modi di opporsi allo Spirito, alla Verità, alla fonte d’ogni nostra certezza.

Finché ci si attende che la Luce splenda da fuori, nessun percorso interiore, nessun cammino spirituale, può dirsi cominciato. E non ci sarà certezza del vero che tenga.

 

Buon NataleData la coincidenza con la festività del Natale, rientra nella consuetudine scambiarsi gli auguri. Voglio farlo, in virtú dei contenuti qui espressi, in modo atipico, al di là dei convenevoli e delle formalità di rito.

Perciò rivolgo a tutti gli amici, curatori, collaboratori e lettori dell’Archetipo, questo cordiale augurio: facciamo vivere l’idea del Natale (che è la Luce stessa del Natale) tirandocela dentro e riaccendendola dall’interno delle nostre coscienze, consa­pevoli che sono cresciute e guidate dal pen­siero di Rudolf Steiner. Facciamolo nella certezza di poter concepire la Luce sempre cosí: un atto (ri)conoscitivo della nostra libera volontà individuale.

La Luce dentro non è un’invenzione poetica né un’esaltazione mistica: è la pos­sibilità concreta che l’Antroposofia offre a chiunque, di conseguire la certezza in tutto quello che va man mano incontrando come conoscenza nella vita e nel mondo.

Buon Natale!

 

Angelo Lombroni