Elogio (funebre) della normalità

Considerazioni

Elogio (funebre) della normalità

All’epoca corrente diventa sempre piú difficile fidarsi di qualcuno; abbiamo subíto notevoli, a volte pesanti, disillusioni, per cui ci sentiamo in dovere (il che equivale a credere “di avere il diritto”) di stare in campana e dubitare di Tizio, Caio e Sempronio, specie se bussano alla porta esibendo un tesserino, e dicendosi inviati dal Comune per controllare coibentazioni e dispersioni energetiche.

cellulare in tascaTemiamo le truffe, gli inganni, i raggiri, e se proprio vo­gliamo stilare un elenco, pure qualche centinaio di altre cose. In breve, temiamo tutto. Ma ci consoliamo col pen­siero che in fondo non è colpa nostra, e che se gli “altri” fossero tutti delle gran brave persone (sottinteso: come siamo noi) non avremmo bisogno di camminare per la strada palpandoci ogni tanto le tasche per controllare se portafoglio e cellulare stanno ancora al loro posto.

Pian piano, cosí facendo, si entra in punta di piedi in una concezione del mondo, della vita e del rapporto con gli altri, che non è quella nella quale credevamo, nella quale siamo nati e cresciuti, e nella quale, tutto sommato, ci pareva di poter stare bene. Ora viviamo in una concezione indotta, non voluta, non cercata, sorta al di fuori della nostra coscienza, che in un certo modo l’ha però assunta, in modo semiauto­matico, per riflesso o per condizionamento.

L’umano esistere, giorno dopo giorno, si è scavato una specie di percorso involontario, in­canalato tra argini alti quanto due muraglie, che ne disegnano il corso e guidano la direzione. Entro questi argini scorre il fiume della “normalità” , quella che ci fa sognare d’esser a posto, di poter conservare un buon rapporto con tutti, o almeno con il vicinato, e anche se qualcuno mantiene un comportamento un po’ anomalo, del tipo che posteggia l’auto dove non dovrebbe e non raccoglie gli escrementi del cagnolino, prima o poi gli si potrà dire qualcosa e lo si farà rientrare nella norma. La normalità, come la buona creanza, è una porta sempre aperta a tutti.

Qualcuno ha detto che l’egoismo è un’illusione ottica della coscienza; credo di poter aggiun­gere che pure la cosiddetta normalità è un ulteriore miraggio della medesima. È un mondo che le anime si sono costruite attorno a sé e che a un certo punto ci sembra diventato irrinunciabile. Sono convinto che data l’origine ultraterrena dell’anima, il suo tuffo dentro la materia non sia stato cosa da poco, anzi. Pertanto supporre che necessiti un lunghissimo periodo di assesta­mento tra le contrastanti polarità dell’essere e dell’esistere, è del tutto probabile. Ma il risultato è che, per ora, siamo in una sorta di pareggio vacillante; lo Spirito umano ha tutt’altro che risolto il suo impatto con il fisico-sensibile, e quest’ultimo, pur facendola da padrone per vasti tratti e settori, non è riuscito a piegare a sé le forze dei mondi superiori.

Questo periodo di aggiustamento è tutt’oggi in corso: si chiama “evoluzione”. In particolare, volendo usare la terminologia della Scienza dello Spirito, esso consiste nella transizione dallo stato dell’anima razionale verso lo stato dell’anima cosciente. Con cauto ottimismo, diamo per scontato che gli stadi animici senziente e affettivo siano superati a pieni voti.

Il concetto di normalità nasce come etimologia dagli antichi testi del diritto patrio; quel che è a norma va bene, è socialmente utile; quel che invece è abnorme è dannoso e spregevole. Ad esempio, per i Greci dell’Ellade, il bello era contemporaneamente buono, vero e giusto. Noi però discendiamo dai Latini, e abbiamo pensato bene di smussare un pochino l’esuberanza estetica dei Greci. Oggi, sarebbe un buon argomento da discutere a fondo, anche se non se ne vede l’utilità. Probabilmente è per questo che non lo si discute, né a fondo né in superficie.

In quale modo viviamo, noi moderni, lo stato di normalità?

Abbiamo capito come esso sia l’incanalatore del fiume delle buone intenzioni, ma spesso gli argini troppo alti, pur mettendoci al riparo da esondazioni e straripamenti, si prendono anche il diritto della costrittività; l’elemento acqueo che per natura sua si sente libero e vorrebbe andare dove vuole, è obbligato a seguire quel determinato corso, e se gli argini non vengono modificati quel corso resterà uguale per sempre.

Un po’ come facciamo coi nobili propositi; difficili da criticare per quanti li coltivano; vi è una naturale fiducia nella bontà dei medesimi; ma questa fiducia, ove non venga concretamente verificata sul campo, protratta nel tempo, diventa fede, e nello spazio, immobilismo. Elementi questi che si oppongono allo scorrere libero richiesto da tutto ciò che è mobile.

Come sono stati accolti, almeno alla prima comparsa, gli innovatori, gli antesignani, gli scopritori? Non certo con il rispetto e l’entusiasmo che le loro rivelazioni meritavano. Ma trattandosi di genialità, anche le norme finiscono per accettare lo strappo della regola e l’umanità, assorbito il trauma, riesce a proseguire imperterrita sullo zatterone-salvagente della normalità.

Cambiare perché non cambiC’è una frase fatta che la dice lunga in merito: «Rinnovare, cambiare, affinché tut­to resti come prima». Nel Gattopardo, Tan­credi pronuncia una frase con lo stesso significato: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» (video).

Dev’essere la proposta per un nuovo tipo di mutazione genetica, modulare e tuttavia resistente alle varianti ambientali: la smart-evolution. Chiamiamola cosí dal momento che dalla televisione al telefonino è tutto uno smart; l’era dell’homo sapiens cede il campo a quella dello smart-man. A questo Darwin non c’era ancora arrivato.

Battuta a parte, mi chiedo cosa s’intenda per normale e quale possa essere il suo opposto: diverso, differente, abnorme, amorfo, diseguale. Niente di tutto questo; sono determinazioni delle quali abbiamo ampiamente abusato e non sono servite a nulla, tranne che a diffondere una epidermica sensazione di progressismo e far sí che Beppo Spazzino venga gratificato della nomina a Operatore Ecologico.

Mi pare invece – l’abbiamo chiamata in causa poc’anzi – che la perfetta contropartita del normale stia tutta nel concetto di evoluzione. Quel che è evolutivo non può mai venir classificato come normale; sarebbe privarlo della sua possibilità di scorrere all’infinito, creando inces­santemente variazioni su variazioni. Non fosse altro perché la normalità, cosí come l’abbiamo conclamata, legittimata e applicata, rispetto a quanto si concentra nell’idea di evoluzione, è materiale completamente inerte, incollata allo status quo, capace soltanto di simulare il cambiamento, e quindi, in ultima analisi, oppositrice camaleontica d’ogni reale dinamismo.

In definitiva, la cosiddetta normalità resta sempre una grande incompiuta. Infatti se fosse compiuta non ci sarebbe piú impulso ad evolvere. In essa, attraverso le epoche, sono stati scolpiti abbozzi di regole psico-etico-comportamentali che di certo, al momento in cui vennero stabilite, potevano ben valere per le piccole comunità primitive che le avevano coralmente individuate e decise. Ma di fronte alla mastodontica e multivariegata società contemporanea, ove in ogni momento si incontrano (e si scontrano) il di tutto con il di piú, la tensione degli ecce­zionalismi inflaziona la complessità, e l’inquietudine scalpita tumultuosa nel groviglio dei turbamenti psicofisici, è da ingenui o da sprovveduti, continuare a stabilire schemi su schemi ricamati dalle statistiche ed elaborati dai cervelloni artificiali.

Di recente, a Napoli, il Comandante dei Vigili Urbani ha scritto all’Assessore alla Viabilità, proponendo l’abolizione definitiva dei semafori su due piazze della città normalmente conge­stionate dal traffico. Il funzionario ha rilevato che durante un black out, nel quale le segnala­zioni semaforiche si erano bloccate per alcune ore, tutto era filato via liscio o quanto meno in modo molto piú tranquillo e scorrevole di quando erano in funzione.

Traffico ad Adis AbebaPossiamo dedurre che, forse, i semafori erano stati mal regolati o posti in posizione poco strategica; ma non possiamo dare per escluso che un pizzico di libertà in piú, un momento di sollievo dal mondo delle regole, dalle ordinanze di presidio e d’imposizione repressiva, con le quali abbiamo imbottito la nostra normalità, non cor­risponda per davvero a quel che vive e si agita nel cuore della cittadinanza, automobilisti e pedoni compresi. Ne fa fede il famoso incrocio caotico di Addis Abeba (Video) in cui gli automobilisti si inter­secano senza l’ausilio di segnaletica o semaforo.

A gran voce sentiamo ogni giorno reclamare, se non pretendere, riforme, nuove intuizioni, nuove direttive in tutti i campi del pubblico e del privato che assieme formano l’interagire complessivo e affannoso della società.

Questo sobbollire dovrebbe venir ricordato per chi cura la memoria storica come l’eterno conflitto tra le opposte tendenze che caratterizzano l’essere umano. Spirito e materia non si accompagnano gratuitamente; nell’uomo le due cose congiunte, e lasciate a se stesse senza un individuale apporto, non possono far altro che produrre attriti su attriti. Eppure tale è la nostra avventura.

Che poi la si chiami in modi diversi a seconda del quadro che si sta contemplando, non ha alcuna importanza. Lo scontro è sempre tra Io Superiore ed ego, tra corpo e anima, tra mente e cuore, tra campanile e municipio, tra quel che si è e quel che si vorrebbe essere. Questo alternarsi di fasi, quasi sempre minacciose e cruente, salvo intervalli d’alta diplomazia, in cui restano soltanto quelle minacciose, non ha bisogno di novità per modificarsi; deve sparire. Deve eclis­sarsi per una scossa di sopraggiunta fortificata consapevolezza; deve risuonare in una domanda espressa da ogni singolo, ma comune a tutti nessuno escluso: «Cosa sto facendo della mia vita?».

Il normale, il normativo, il normalizzato è del tutto fuori dell’ambito di una tale domanda. È il consueto gioco del compromesso tra il Principio e le Regole, che diventa ogni giorno piú ana­cronistico; le leggi emanate hanno bisogno d’avere a latere un testo che garantisca loro un corretto inserimento nel reticolo di leggi preesistenti. Si vede quindi che il legislatore, nel promulgare la nuova, ha tenuto in debito conto la validità delle altre, forse dimenticando che i princípi non sono suscettibili di deroga, ma le regole attuative che ne discendono sono d’aiuto solo con la discrezione e l’elasticità proiettata nei singoli casi, da una visione aperta e supra partes.

Tanto per fare una piccola esemplificazione, che ritengo sempre utile, io sono disponibilissimo a compiere una gita turistica in compagnia di un amico il quale, per sua eccentrica natura, è fermamente convinto che due piú due faccia cinque; ma non potrei, nemmeno con la migliore disponibilità, affidargli la compilazione della mia dichiarazione dei redditi. I princípi devono restare princípi; per le regole ci si aggiusta di volta in volta.

Inserire pertanto una legge nuova, di per sé anche ottima, nell’ordinamento giuridico di un paese, smisuratamente gonfiatosi in decine di anni di prosopopea burocratica e d’inettitudine alla vocazione politica, e nel quale, dal punto di vista economico, la difesa dell’interesse dei poten­tati ha solo sfiorato, in campagne elettorali, le esigenze dei meno abbienti, produrrà ulteriori caos, disordini e contumelie se lo ius non viene contemperato dalla res; situazione pesantemente attuale, da cui i maggiori responsabili troveranno comunque scampo, accusandosi ancora una volta a vicenda, e dimostrando a quanti potrebbero credere, la marginalità, anzi, l’occasionalità, del loro coinvolgimento. In questi casi, o sono le regole a mangiarsi il principio, oppure è il principio a schiacciare le regole; evidentemente le une e l’altro stavano in piedi senza avere le forze necessarie per difendersi.

Se nel dettaglio, la nascita, quasi sempre sofferta, e l’inserimento di un principio giuridico nel contesto vigente, si presentano estremamente problematici, proviamo ora a pensare a quanto risulti essere delicato e difficile il passaggio dell’anima ordinaria a quella di anima cosciente.

Dirlo a parole ci vuol poco; si può pensare che sia una questione di semplice crescita, come accade per il corpo; quando avevo dieci anni non mi passava neppure per la testa l’idea delle risorse che avrei dovuto tirar fuori in qualche modo per arrivare alla maggiore età. E questo vale per tutto il trascorso; siamo invecchiati per lo piú in modo automatico, senza un particolare accorgimento, finché i primi disturbi della vecchiaia non incominciano a farsi sentire, bussando insistenti (che indiscreti!) alla nostra porta.

Questa è dunque l’epoca dell’anima cosciente; l’abbiamo sentito, letto e ripetuto molte volte. Ma siamo certi di sapere che cosa voglia da noi il processo evolutivo in questo particolare tratto del percorso? Siamo certi di poter partecipare alle sfide che l’epoca attuale ci pone davanti? Quando parliamo di lavoro, socialità, giustizia piuttosto che di migranti, di sicurezza pubblica o di testamento biologico? È imbarazzante scoprire che o non abbiamo nemmeno uno straccio di soluzione da proporre, oppure ne abbiamo alcune che solleverebbero un putiferio generale non appena tentassimo di illustrarle.

E cosa significa trovare una soluzione giusta ai problemi estremamente spinosi e indifferibili che incombono in vari modi sulla nostra testa? Forse per trovarli non bastano la rettitudine, la vita onesta, le generosità spicciola e tutto quel contorno che serve a render solido e pasciuto il nostro senso di responsabilità normalizzata. C’è qualcosa d’altro che sta venendo su dall’oriz­zonte, e gli uccelli cessano di volare.

Il Colombre e altri racconti«Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata, tran­quilla, ma ancora piú grande è l’attrazione dell’abisso». Con questa frase Dino Buzzati intese dare l’incipit al suo libro, Il Colombre e altri racconti; non credo che pensasse al passaggio tra due stati di coscienza, ma al tempo in cui lessi queste parole, mi fecero uno strano effetto; capii che avrei in seguito dovuto incontrare un momento di vita di cui l’attualità mi veniva ora anticipata, sia pure nell’astrattezza del surreale.

Volendo ricercare i motivi della crisi, epocale e spirituale, che l’umanità intera sta oggi attraversando, la citazione di cui sopra si fa puntuale e indicativa; mette in risalto come ci siamo rappresen­tati la normalità e vi ci siamo adagiati dentro, lieti della formula standard “pigrizia + ipocrisia = serenità”. Da una parte essa ci garantisce lavoro, casa, famiglia (il buon lavoro, la dolce casa, la cara famiglia); dall’altra rivela una minacciosa tendenza interiore, per lo piú sconosciuta, da cui emerge un’ombra, la stessa che Stevenson immaginò rivestendone il personaggio di Mr. Hyde. Chi pratica un po’ l’Antroposofia intende a cosa riferirsi.

Con una chiave di lettura del genere si possono allora ripensare i fatti umani della quotidia­nità, non per inorridire o scandalizzarsi, ma semplicemente per comprenderli. E capire che siamo fatti della stessa pasta. La storia di uno diventa la storia di tutti. In tal caso, la compren­sione non ha niente a che vedere con quella “normalmente” usata; sarà nuova, sconfinata, senza limiti, capace di mandare a ramengo gli argini del normale, del perbenismo, delle faccine moraleggianti e del “volemose bene” a tutti i costi proprio là dove scarse lucine di virtú tremano in penombra. Ciascuno saprà leggere nella vicenda dell’altro la propria testimonianza.

L’evoluzione è la direttrice di marcia del cammino dell’uomo; il cammino è volontario, ma se ciascuno lo percorre a suo piacere, non è piú un cammino; da molto tempo si è capito che la distinzione tra un percorso e un vagare senza meta è che il primo contiene un progetto, un volere, un’idea scelta ab origine. L’altro non ha nulla, solo un reticolo di normalismi astratti in cui spanarsi.

Non c’è una sola cosa di questo mondo che non ce lo suggerisca di continuo tanto nella filosofia quanto nella scienza; noi restiamo liberi di aderire al nostro progresso, cosí come siamo liberi di non curarcene, ma in realtà, facendolo, noi diventiamo l’ostacolo, il primo ostacolo, a che il progetto si realizzi.

L’anima ordinaria vorrebbe poter restare ordinaria; ma il controsenso che ne deriva è implicito. A vent’anni non puoi indossare gli abiti da dodicenne; vai avanti e t’accorgi che parti di te, parti intessute della la tua vita, devono restare indietro, inesorabilmente. Si delinea quindi il conflitto tra anima antica e coscienza attualizzata; e la corteggiata normalità, a nulla servendo, entra in crisi.

Si potrebbe affermare che cosí accade da sempre e che il conflitto tra il vecchio resistente e il nuovo avanzante, è cosa evidente, basta guardarsi in giro.

Ma la prefazione de Il Colombre, non punta sul “guardarsi in giro”, punta sul guardare dentro se stessi e chiedersi nel momento in cui il dramma viene a galla, da che parte vogliamo stare. Abbiamo deciso di mettere il nostro karma sul cammino evolutivo, o stiamo ancora pensando di poter usufruire di qualche soluzione alternativa? I politici sostengono che ci sono parecchie possibilità in fatto di alternative. Basterebbe questo perché un lampo intuitivo ci illumini a capire che la verità è da tutt’altra parte.

Ciascun singolo essere è diventato, di per sé, un politico, e continua a rimestare il crogiolo delle menzogne di cui uno dei principali ingredienti è il mantenimento dello stato di normalità, sempre celato nel presupposto. In questa brodaglia esiziale, abbiamo dimenticato quello che l’uomo potrebbe (e dovrebbe) fare perché l’evoluzione si dia.

Ecco una novità che riguarda direttamente l’avvento dell’anima cosciente: da questo momento in poi o l’evoluzione avanza col concorso umano, o non c’è piú evoluzione.

Sviluppo minerale pianta animale uomoUn pensiero tanto bello quanto semplice.

Ogni organismo vivente è caratterizzato dallo sviluppo, dalla crescita, da una tendenza endoge­na a creare di continuo le metamorfosi necessarie ai suoi stadi di vita; la sua verità, la sua bellezza e la perfezione del suo ruolo attingono al principio per cui è nato; un’intuizione dello Spirito Divino, sulla quale non c’è nulla da dire, se non un tacito ringraziamento, espresso magari in umiltà, che non guasta.

Lo sviluppo vale per ogni ordine della natura. Nel minerale è difficile ravvisarlo, ma nel vegetale e nell’animale, l’operare delle forze formatrici, è evidente; nell’uomo tali forze conducono addirit­tura alla libertà, ovvero alla facoltà in cui il divino concede la massima donazione di Se stesso privandosene in favore dell’uomo, affinché egli possa diventare la prima Sua creatura in grado di intuire il mistero dell’origine e il segreto della destinazione.

Come può il concetto del normale consistere di fronte a un affresco di questo genere? L’evoluzione è uno scatenarsi apocalittico di forze cosmico-universali che oggi soltanto l’uomo, con il suo ingresso nello stato d’anima cosciente, può trasformare in forze di amore, di gioia e di verità.

Naturalmente, nell’eternità, nella loro essenza spirituale, esse lo sono già, ma non nel fisico-sensibile; là è attesa l’opera dell’uomo che possa dapprima umanizzare e poi rendere spirituale il mondo e la realtà in cui vive.

La nostra scienza cerca la formula dell’energia assoluta e non riesce neppure a scorgere l’idea che tale energia è racchiusa nell’anima di ogni uomo, se egli si avvede quanto sia giusto e meraviglioso poterla spalancare e volgere lo sguardo interiore a quel che ci sta attorno, ci circonda e ci trascende.

Mi sembra doveroso, per concludere, spendere alcune parole per celebrare, entro i limiti di cui merita, questa normalità che stiamo abbandonando, o che saremo comunque costretti ad abbandonare; di cui ci siamo serviti fin qui, spesso senza scrupoli, e qualche volta con una dose di riserva recondita, nel tentativo di formulare un testo unico per i nostri intricati patemi relazionali, che se non sono riassunti nella difesa ad oltranza dei nostri interessi immediati, non vanno molto piú in là. Ora, nel momento delle esequie, possiamo cominciare a dircelo, almeno sussurrando sottovoce come una confessione liberatrice, da fare a se stessi.

 

«Cara Normalità,

dolce e fedele amica delle mie illusioni; temporanea convalidatrice dei miei multi dreams psicopatologici sui quali ho supposto bene (?) fondare un quieto vivere; culla serena del mio infantilismo senescente e decrepito, che non vuol sentir parlare di messa a riposo, di badanti e ospizi, cosí come le odierne banche e istituzioni, entrate nel letargo della fatiscenza, non vogliono saperne di commissariamento né di gestione controllata. Se non proprio a norma, è normale che cosí sia. Invece dobbiamo oggi lasciarti, anche se non comprendo bene perché, costretto, dicono, da cause di forza maggiore, del tipo evoluzione, crescita interiore, presa di coscienza ecc.

Sarà vero, voglio crederci, e quindi sofferente per la dipartita, mi adeguo; con il tuo ricordo nel cuore andrò avanti e affronterò tutte quelle problematiche spinose che ci sono da affrontare, che, dicono, aggrappato alla tua zavorrosa presenza, non sarei in grado di fare. Ne elenco alcune a pro memoria per l’Ordine del Giorno:

 

  • BIOTESTAMENTO: no all’eutanasia, sí all’evitare accanimenti terapeutici.
  • BULLISMO SCOLASTICO: non è accaduto nulla, sono ragazzate e lasciano il tempo che trovano.
  • CRIMINALITA’ ORGANIZZATA: che c’entra la mafia?
  • Lumicino tombaleGOVERNO: al momento opportuno faremo la nostra parte.
  • MIGRANTI: prima pensiamo ai vivi poi penseremo ai morti.
  • SKINHEADS: una goliardata malgestita.
  • GERUSALEMME: una scelta necessaria per la pace.
  • VIOLENZA SULLE DONNE: una cosa orribile! Ma anche loro però…

 

Inutile dilungarmi troppo; la lista è lunga e faremmo notte. Chiudo questo sentito addio ponendo sulla tua tomba un lumicino di speranza: se con te siamo arrivati a questo punto, in cui pazzia e menzogna, stupidità e ar­roganza, spudoratezza e malafede, gareggiano accanitamente tra loro per contendersi il primato, forse d’ora in poi – senza di te – le cose cambieranno. O no?».

 

Angelo Lombroni