Eterno femminino

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Eterno femminino

IdolatriaC’è stato un tempo, definito arcaico, quando l’umanità acerba si faceva strumento della natura e degli dèi, ancora ignara che in ogni creatura animata sopisce in potenza l’energia naturale e la sostanza divina, entrambe da mettere al servizio della ricerca interiore per sviluppare il sé individuale fino all’Io cosmico. Riti idolatrici, magia, liturgie paniche e ctonie nutrivano l’anelito umano al soprannaturale, seguendo la Via del­l’antica Iniziazione ai Misteri.

Gli Etruschi, un popolo che piú di ogni altro del mistero, nelle sue piú larghe accezioni, ha costruito la propria identità storica, ponevano tre condizioni perché la divinità si palesasse: il luogo, preferibilmente ingrottato; una vena d’acqua che scorresse al suo interno o nelle immediate vicinanze, ciò per captare l’energia tellurica di cui l’acqua è veicolo; infine una vegoe, una vergine profantide, attraverso cui la divinità, ctonia o celeste che fosse, poteva rivelarsi mediante parole, epifanie portentose, fenomeni, segni. I Greci avevano piú o meno le stesse opinioni in merito.

Plutarco, oltre che storico e filosofo platonico, era sacerdote di Apollo. Secondo lui: «Il corpo dispone di vari strumenti, cosí pure l’anima dispone del corpo e delle parti di esso; ma l’anima diviene uno strumento del dio. Apollo si serve della Pizia per farsi udire». La Pizia, o pitonessa, aveva il suo delubro a Delfi, nel santuario del dio dall’arco d’argento e della lira, tutore quindi dell’armonia e del verbo profetico. Un accorto procedimento selettivo regolava la scelta tra le fanciulle idonee alla funzione, e un altrettanto severo rituale stabiliva la prassi d’insediamento della designata con modalità e tempi inderogabili.

Nel settimo giorno delle Antesterie, le feste di primavera, aveva luogo la cerimonia di insediamento della Pizia. Lungo le sponde del mare di Corinto un candore di mandorli e azeruole annunciava il tempo delle fioriture, e su per le balze dell’Elicona i salici mettevano germogli che il tiepido sole avrebbe presto dischiuso in foglie dorate. La natura esultava per l’arrivo del dio, che, lasciato il mondo iperboreo, luogo del rigore stellare, tornava a percorrere il cielo del­l’Ellade sul suo carro solare per insediarsi nel suo santuario a Delfi. Mentre nella capitale fervevano feste e baccanali, con il chiasso e l’animazione di spettacoli teatrali, danze e conviti, nella raccolta atmosfera del santuario di Delfi aveva luogo una cerimonia dal tenore drammatico. Veniva iniziata ai Misteri di Apollo la nuova Pizia, secondo un rituale immutato nel corso dei secoli. La vergine adolescente, che non aveva assunto cibo per tre giorni, veniva condotta alla fonte Castalia, sgorgante da una cavità ai piedi del Parnaso, proprio sotto il tempio del dio. La fanciulla si bagnava, purificandosi, quindi la vestivano preparandola alle nozze mistiche. Percorreva con incedere lento la via sacra fino al recinto del santuario. Qui, veniva aspersa di acqua benedetta e la aiutavano a varcare la soglia del naos. Due ierofanti la conducevano poi sorreggendola, avendo lei gli occhi chiusi, e passava davanti all’altare dove ardeva il fuoco perenne, la fiamma eterna la cui vista i suoi occhi non avrebbero potuto reggere, non essendo ancora padrona dei Misteri.

Cosí, alla cieca, sorretta dai due ierofanti, discendeva per una stretta scala giú nell’adito. Poteva allora riaprire gli occhi, ma il luogo era talmente in ombra che doveva faticare molto per riuscire a scorgere i contorni degli oggetti che vi si trovavano. Assuefatta al buio vedeva per prima con un fremito di orrore misto a una strana seduzione la faglia nel terreno, la crepa nella roccia da cui uscivano i fumi inebrianti che lei avrebbe dovuto inalare per cadere nell’estasi in cui si sarebbe congiunta al dio e parlato in sua vece, vaticinando, rivelando agli uomini lo svolgersi dei loro destini. Acri odori narcotici esalavano dalla fenditura, già la stordivano, la facevano barcollare. Scorgeva in un angolo della caverna un braciere in cui ardeva un fuoco, e un uomo chino su di esso che attizzava la brace con piume di uccello.

Tutto era confuso, indistinguibile nei dettagli. Dal braciere si alzavano odori di foglie aromatiche bruciate in sottili vapori azzurrognoli. Erano fronde di lauro, la pianta cara ad Apollo, arse dalla brace. Uno dei sacerdoti chiedeva allora di aspirarli, e la fanciulla, cosí facendo, accresceva il suo torpore. L’uomo che agitava le piume sulla brace, raccoglieva poi la cenere che si era depositata sui bordi del braciere, versandola in una bacinella dove foglie di lauro maceravano nel­l’acqua della fonte sacra. La PiziaLa fanciulla doveva masticarle, e intanto i due sacerdoti la sorreggevano per farla salire sul tripode posto a perpendicolo sulla crepa nella roccia da cui montavano le esalazioni inebrianti. Ma non era solo ebbrezza ciò che la fanciulla avvertiva inalando qui fumi. Le pareva che venissero dal regno oscuro dei morti, da un luogo dove il tem­po non esisteva, e che scorressero in un fiume vorticoso passato, presente, futuro, tutto con­fuso in un vortice. E lei, con l’aiuto del dio, avrebbe dovuto leggere in quella corrente, afferrarne le rivelazioni, comunicarle attraverso l’oracolo. Era seduta sul tripode. La nebbia, vaporando dal baratro, la stordiva, e uno dei sacerdoti per rianimarla doveva ogni tanto versarle dell’acqua sul capo. Le pareva di sprofondare, di essere inghiottita in quel pozzo senza fondo, ma era solo un mancamento dei sensi. Vi si abbandonava, vinta, disposta a ogni volere estraneo al proprio.

Era a quel punto che il sentore di morte e di vuoto si colmava di una strana luce, e un’energia sconosciuta si impadroniva della sua anima, trasportandola in una dimensione onirica che le dava effimero sollievo. Ma poi quella sensazione liberatoria si portava a un’acme per lei insostenibile, cresceva fino possederla con violenza, a scuoterla nelle fibre piú segrete del suo essere. Una specie di agonia coinvolgeva tutto il suo corpo, e dalle viscere sentiva montare un rigurgito possente, un suono fatto di sangue e linfe sconvolti da una forza invincibile. Era la maneisa, il delirio profetico, un flusso che le si aggrumava nella gola, sembrava volerla soffocare, e la costringeva a spingerlo fuori con tutto il suo irresistibile vigore, finché non prorompeva nella voce di Lui che parlava. Apollo vinceva allora il Pitone e la storia umana di tutte le epoche, trascorse e di là da venire, si dispiegava alla visione della mente di lei.

Nella Grecia insulare, a Delo, sorgeva un altro importante santuario di Apollo. L’isola è la propaggine emersa di una estesa catena vulcanica sottomarina con sorgenti carsiche in profondità. Per manifestarsi, il dio si serviva di sacerdotesse iperboree, le “deliadi”. Vergini, dotate della capacità innata di profetare, una volta soggiogate dal furor divinus da Lui ispirato. Ovvia e lecita la domanda: perché solo donne? E, insistendo, perché in piena innocenza adolescenziale, finanche culturalmente sprovvedute, disarmate?Bernadette Con tanti spiriti sapienti a portata di mano, allora come oggi, come sempre, perché pro­prio, ad esempio, un’anima tra­sparente come Bernadette?

Un Etrusco avrebbe rispo­sto: ma perché è una vegoe, e un Greco: perché è una profantide, una pizia, e un Roma­no: perché è una sibilla. Il suo è un carisma sorgivo, è una pre­destinata, una illuminata. Ecco perché quando gli inquisitori clericali chiesero a Bernadette chi fosse un peccatore, la piccola Soubirous rispose: «Chi ama il male». Non disse: chi fa il male. Dentro la figlia di un mugnaio disoccupato vibrava dalla nascita, da prima ancora, l’eterno femminino, quel favor dei che ogni donna possiede in potenza, per dote, non semplicemente genetica.

Gli antichi lo sapevano, era una realtà scontata. Ed è quella virtú eterica che attrae l’uomo, a prescindere dall’avvenenza fisica della donna. Dentro ogni costituzione femminile arde un fuoco ‒ divino per chi crede, un carisma fisiologico per l’agnostico ‒ di cui la stessa portatrice è ignara, per lo meno inconscia della sua reale, ma elusiva, imponderabile natura.

Ne dà un’illuminante spiegazione Massimo Scaligero in Graal Saggio sul mistero del Sacro Amore: «Il mistero celato nella figura della donna come portatrice della reintegrazione, o come distruttrice, è intuibile in base alla nozione metafisica dell’Androgine: una verità segreta che si disvela come illuminazione decisiva, in tale direzione, è il carattere femminile della figura del­l’Androgine, o dell’essere originariamente maschio-femmina, portatore della sintesi animica delle forze solari-lunari. La configurazione metafisica dell’Androgine è femminile: nella donna sopravvive la piú alta possibilità di una magia reintegratrice, in virtú della sua specifica struttura animico-corporea. Ciò non significa che l’essere androginico originario fosse conforme a caratteri di femminilità – che sarebbe una contraddizione sostanziale – ma che la donna, per il rapporto del suo essere animico con l’involucro corporeo, attua inconsciamente la natura dell’androgine, in quanto in lei l’ente androginico dell’anima ha, rispetto alla corporeità, un’autonomia che l’uomo non possiede: l’anima dell’uomo è piú inserita nella struttura fisica che quella della donna. Questa diversità di rapporto si trasmette al corpo eterico che, essendo nella donna maschile, ha una consonanza androginica con la rispondente parte dell’anima, come non è possibile al corpo eterico dell’uomo, piú aderente e perciò asservito alla corporeità fisica».

Tale condizione di privilegio animico-misterico è, per alcune donne, finanche un turbamento, essendo consapevoli di tanta facoltà rigenerativa e, all’uopo, lenitiva. La donna è portata a consolare, proteggere, ordinare, armonizzare la realtà morale e materiale che le compete per karma, per le varie evenienze casuali, per scelta o necessità affettiva. Purché ne sia consapevole e allo stesso tempo se ne renda disponibile. La sua libertà passa la penibile trafila delle rinunce e delle dedizioni, per la finale esaltazione del suo ruolo morale e sociale, e nel rispetto dell’ineffabile quid che la pervade.

Quando un uomo tormenta o persino uccide la sua compagna, le cronache parlano di raptus dovuto a una privazione sessuale, a una frustrazione fisiologica piú che psicologica, ma nessuno riconosce quanta parte del gesto efferato derivi dalla voluta, estinta donazione di quel quid eterico di cui la donna è portatrice.

La donna e la lunaUn’essenza cosmica, secondo Scaligero, ancora nel summenzionato libro: «Si è detto che la chiave dell’accordo è la connessione occulta del­l’uomo con un sistema di equilibri cosmici, di cui la Luna è supporto e simbolo. La donna sulla Terra continua a mantenere un antico rapporto con la Luna: ella è detentrice della connessione, in quanto il principio trascendente che nella Luna compenetra e domina la materia inferiore, è presente in lei come elemento costitutivo dell’ani­ma, operante sino alla struttura fisica. Tale struttura, veduta nel suo mero apparire sensibile, è illusoria, ma è parimenti simbolo di ciò che l’anima umana ha perduto e dimenticato: perciò l’uomo, nel guardare la donna, ha il presentimento di avere dinanzi l’essere che gli può restituire il mondo superiore perduto: sente affiorare attraverso la figura di lei la speranza della resurrezione di un grado di beatitudine e di purità, di cui l’esistenza attuale è privazione. Oltre il suo apparire sensibile, può essere presentito nella donna un potere soprannaturale che può uccidere o revivificare, secondo il rapporto che il principio interiore dell’uomo riesce a stabilire con esso. Questo valore occulto della donna è decisivo per l’impresa di reintegrazione, ove sia sottratto alla concezione della strumentalità dell’essere femminile per operazioni di magia di tipo afroditico, proprie e determinate scuole d’Oriente e d’Occidente, presumenti possedere la conoscenza di simile valore occulto. In effetto non la posseggono».

Questo gli antichi lo sapevano, conoscevano la segreta virtú trascendente della donna che dalla condizione di mulier e virgo, fanciulla vergine, passava a quella di mater genetrix, fertile grembo procreativo. Tale facoltà di generare la vita ha causato spesso il fraintendimento tra carnale e spirituale cui la stessa donna è andata soggetta. Fino a restringere il proprio ruolo esistenziale e morale all’accrescimento della vita ovunque si presentasse la necessità di fondare una società umana, istituire un popolo e una civiltà.

Ripercorrendo la storia, vediamo che la donna ha spesso dovuto coartare la propria natura misterica con il sacrificio delle innate facoltà sublimative all’utile contingente. Come quando le donne sabine, regnando Romolo, vennero rapite dagli irsuti fuoriusciti da Albalonga e usate per generare quel futuro popolo di dominatori che tali non sarebbero mai diventati senza quel­l’iniziale rituale predatorio, passato per fatum.

Nicolas Poussain «Il ratto delle Sabine»

Nicolas Poussain «Il ratto delle Sabine»

Il Ratto delle Sabine, immortalato da pittori e sto­riografi, è il drammatico cli­ché del fraintendimento tra eterno femminino e facoltà procreativa della donna. Il relativismo dei tempi attuali ha spinto all’acme quel­l’equivoco fino a renderlo un insanabile dissidio tra carnale e spirituale, connotando ogni dimensione e ambito della civiltà umana, dallo scientifico al sociale, passando per l’arte e le relazioni interpersonali. Come le istanze libertarie del Sessantotto, che facevano dire alle donne: «Il corpo è mio e lo gestisco io», mentre per l’uomo si chiamò in causa il Vecchio Testamento, rivendicando, con il monito “Nessuno tocchi Caino!”, una specie di aggiornato habeas corpus per il primo e piú spietato fratricida di sempre.

Gli Anni di Piombo hanno fomentato ambigui postulati e ideali di libertà e di emancipazione annegati nel vasto e infido mare del materialismo consumistico. Ciò non impedisce che a scadenze imprevedibili se ne recuperino i relitti. Ecco allora che qualcuno propone, aggiornandolo, lo slogan riferito all’assassino figlio di Eva: “Nessuno tocchi Carmen!”. Il riferimento è proprio alla disinibita e vitale sigaraia immortalata da Bizet nell’omonima opera. Una gitana tutto pepe che, tra un ballo e un flirt con chi capita, finisce accoltellata a morte. Ebbene, in ossequio al pensiero unico imperante, trattandosi di un femminicidio reso spettacolo, la cosa deve essere cambiata, e dunque si propone un finale edulcorato secondo il nuovo decalogo femminista: un lieto fine al suono del bolero andaluso, con l’accompagnamento di nacchere ed esultanti esclamazioni di “Olé! Siamo dunque in pieno equivoco corpo-anima, con la donna ridotta a strumento catalizzatore di moti e istinti passionali e vieppiú carnali, che esce però illesa e trionfante dai provocanti volteggi e sensuali ammiccamenti. Carmen non deve morire, ma essere recuperata per animare col suo charme il rutilante mondo dei media, aggregata magari a un nuovo partito politico che si erge a paladino dei diritti delle donne, sbalzando sul distintivo di appartenenza il cosmetico motto: «Perché voi valete!».

Ma quel fuoco segreto, l’afflato divino che arde nell’anima delle donne, scambiato per semplice voluttà, si è trasformato in ardore incendiario: chi minimamente le tocchi o le sfiori rischia ormai, se non il carcere, la gogna mediatica, o una sventagliata di schiaffi, come è toccato al super stalker americano, il cineasta Weinstein, aggredito da un ardente difensore del sesso debole in un ristorante del Nebraska. Se l’azione punitiva compiuta dall’ignoto schiaffeggiatore statunitense venisse emulata negli altri paesi del mondo, per evitare di essere maltrattate, molestate o peggio stuprate, le donne non avrebbero piú bisogno di spray al peperoncino, di frequentare corsi di arti marziali o, piú avvilente, di ridursi a indossare lo speciale slip antistupro ideato da una quindicenne indiana, Seenu Kumari. Seenu KumariIl marchingegno, che si rifà all’antica cintura di castità, debitamente evoluto in senso cibernetico, è dotato di una videocamera e di un allarme con GPS collegato con parenti, amici e centrali di polizia.

Chi visiti Roma, o vi risieda in pianta stabile ma sia refrattario al radon, in piú distratto dai mille problemi che affliggono la Capitale, dedichi una sosta di qualche minuto alla Casa delle Vestali. Percorrendo la Via Sacra nel senso Campidoglio-Arco di Tito, se la trova sulla destra, a metà del percorso. Oggi è un dimesso reliquiario di rocchi e nobili pietre sparse intorno alla piscina delle abluzioni purificatorie. Da maggio a giugno il residuo candore dei marmi si accende del rosso vivo dei papaveri, e nell’impluvio della vasca sacra, sull’acqua paludosa, sboccia il fiore di loto, di un candore apotropaico, con venature di tenue violetto. Pegni del sublime. Nel Collegio, istituito da Numa, segnalato ormai solo dalle tracce di perimetri muschiosi corrispondenti alle antiche costruzioni, le fanciulle dedite al culto della dea Vesta, la greca Hestia, si votavano alla castità e al mantenimento perenne del fuoco sacro, lo stesso che Romolo aveva acceso nei focolari delle Fratrie, al tempo della fondazione della città. Numa era un grande iniziato ai Misteri italici e possedeva quindi la conoscenza del potere magico-misterico della donna, della sua capacità di preservare, oltre che sollecitare, le forze, al tempo celesti e ctonie, della vita. Il fuoco, che le Vestali dovevano tenere sempre acceso, assicurava la tutela divina sulla esistenza stessa di Roma, e ne avrebbe giustificato il destino di grandezza e di futuro dominio su altri popoli. Se si fosse spento il fuoco di Vesta, sarebbero venuti meno il favore degli dèi e il destino di grandezza.

Se il fuoco delle Vestali si spegneva, era la fine di Roma. E ciò non doveva succedere, poiché il destino di Roma non era solo quello transitorio e caduco del potere materiale, che pure Roma esercitò, tolte le umane debolezze e devianze, con efficienza ed equanimità, portando ai popoli la giustizia. Ma oltre alle strade, i teatri, i templi, i tribunali e l’erario pubblico, Roma veicolò il Verbo del Cristo, nato nell’ambito del suo vasto Impero. E non è questa materia di religione ma dello stesso mistero che destina la donna a esserne tramite e testimone. Ne siano coscienti gli uomini, e ancor piú le donne.

Onoriamo perciò, noi futuri androgini, quel mistero che, in particolari evenienze e luoghi, designa gli strumenti e gli operatori umani a testimoniarne la forza riparatrice del male, l’amore che redime.

Tra questi testimoni del divino che sollecita la materia e gli esseri a spiritualizzarsi, eccelle la donna. La sua dolcezza, la sua grazia, la sua pietà possono chiedere agli dèi l’impossibile. Per l’intera umanità.

Per troppo tempo uomini e donne hanno sciupato questa opportunità di redenzione. Presi nel laccio della brama, hanno utilizzato le altissime forze della generazione per soddisfare il desiderio del possesso fisico dell’altro, ispirati da quel Suggeritore che deifica la materia e irride ogni tentativo di sublimazione. Ma la Donna ha pronto il piede che ne schiaccerà la testa. Sarà Lei a vincere il Serpente. È scritto.

 

Ovidio Tufelli