Tanti sono gli anni trascorsi dal fatidico 21 aprile dell’anno 753 a.C., data ufficialmente riconosciuta per la nascita di Roma. Chissà se ce la farebbero a spegnerle con un solo soffio i romani di oggi, resi asfittici dai gas di scarico delle auto in circolazione, dal particolato dei fumi di caldaie e condizionatori e dai miasmi delle tonnellate di rifiuti non raccolti. Quanto ai Romani antichi, troppo seri e distanti dalle problematiche del presente, si finisce quasi sempre per considerarli un popolo troppo razionale, pragmatico, utilitarista, al limite del materialismo piú spregiudicato.
Avvalorano questa impressione i tanti episodi che ne hanno costellato la storia, a cominciare dalla fondazione della città, segnata dal tentativo di infanticidio di Amulio, re di Albalonga, ai danni dei suoi nipoti gemelli, Romolo e Remo, per questioni dinastiche, spacciate per coprire la scivolata carnale della figlia Rea Silvia, vestale, atto di estrema natura sacrilega, punibile con la morte. Ma ecco l’ingegnoso stratagemma: Marte, e nessun altro, aveva sedotto la giovane sacerdotessa di Vesta, caduta in un sonno profondo provocato ad arte dal dio della guerra. Faustolo, pastore, viene incaricato dal perfido nonno di annegare i frutti della colpa di sua figlia, benché commessa con il dio facente parte della Triade Divina romana composta da Giove, Marte e Quirino. Ma il pastore Faustolo – come secoli piú tardi il cacciatore incaricato dalla regina cattiva di eliminare Biancaneve, e che riporta all’infame committente il cuore di un capretto al posto di quello della fanciulla “piú bella del reame” – anche lui mosso a pietà, e forse illuminato dagli Dei sul fatale destino cui erano votati i due gemelli, li mise in una cesta che affidò al Tevere.
Il fortunoso, e fortunato, recupero della cesta e l’allattamento dei due ripudiati da parte della Lupa, inizia la mitica storia di Roma.
Una storia che, sfrondata di ogni facile apologia o vezzo leggendario – come intuiva Massimo Scaligero nel suo trattato sull’antica Roma – fissa nel tempo il ruolo piú che fatale, sacrale, della città quadrata: «L’essenza delle antiche religioni greca e romana, il cui carattere pragmatico è la rispondenza perfetta del mondo sacrale a quello della politica e della civiltà – rapporto vivo e realistico, unione talmente creativa che difficilmente può essere intesa dai moderni nel suo completo valore – consiste non già nella divinizzazione superstiziosa degli elementi della natura, ma nell’assunzione di tali elementi come simboliche e manifeste espressioni della forza divina. Raro è il caso che gli studiosi dell’antica esperienza del “sacro”, inteso nella sua intima significazione di virtú cosmica fluente nell’umano, riconoscano una premessa del genere: per cui la loro indagine, anche quando sia confortata dalla piú doviziosa serie di dati documentari, non giunge a penetrare la segreta dinamica di questo “sacro” che, soprattutto per comprensione della civiltà di Roma e della sua Tradizione, ha un valore originario». E ancora: «Quello che occorre sottolineare, è che l’elemento divino costituente parte essenziale della nascita di Roma, non è che l’aspetto religioso di un dominio degli eventi, della fatalità, ottenuto attraverso il possesso di energie trascendenti che all’antico Iniziato era familiare, come all’ingegnere e al meccanico moderno è familiare il controllo e il dominio delle energie fisiche».
Ecco allora Romolo tracciare con l’aratro il solco perimetrale della futura città e seguendone il tracciato alzare le mura di cinta, e quindi, rasente a quelle, il fosso di circonvallazione: di qua e di là i due pomeri, due spazi di terra che non potranno essere mai arati né coltivati. Le mura sacre, una volta ultimate, non potranno essere manomesse né modificate senza il permesso dei Pontefici. L’intero tracciato viene dedicato al Dio Termine. Remo, saltando il fossato, commette un sacrilegio.
Anche il gesto di Romolo, se inteso nel senso comune di un delitto passionale, dà adito a un giudizio sommario di condanna: si tratta, secondo il codice naturale, di un crimine, condannabile in base alle leggi umane. Ma ben altre forze intervengono nel rito della fondazione, come scrive ancora Scaligero: «Volendo accennare a questo mistero della fondazione di Roma, non è possibile soffermarci a dare un’idea sia pure sommaria del valore essenziale annesso dagli antichi e in modo particolare dai Romani, all’azione del rito. Ci basti dire che, alla stessa maniera che un moderno con operazioni e mezzi meccanici si rende padrone della distanza, dà forma alla materia e organizza la sua stessa vita esteriore, cosí il Romano antico, attraverso la tecnica del rito, resa perfetta grazie al connubio regale-sacerdotale che implicava l’azione di una volontà autocosciente, ‘solare’, e il corpo di una forza dinamica, mediatrice, ‘lunare’, stabiliva un contatto ascendente con forze magnetiche del cosmo e attraverso queste psichicamente agiva. Esisteva una scienza di tale azione: essa, a differenza di quella meccanica che pone tutti gli uomini su uno stesso piano (in quanto il mezzo meccanico può essere manovrato sia dal sapiente che dall’ignorante), richiedeva una dignità spirituale che non era da tutti; esigeva la presenza di qualità psichiche, in senso dinamico ed eccezionale, epperò connesse a una moralità superiore che non aveva nulla di dissimile da quella del mistico, del sacerdote. Ciò tuttavia per il Romano non significava che la vicenda si dovesse limitare al mondo contemplativo e misterico (come nell’antica ritualità dei popoli mediterranei, nell’orfismo e nel pitagorismo) ma che da un piano spiritualmente “superumano” occorreva parlare per dare senso all’umano, al reale, alla vita di ogni giorno, all’organicità politica. Era dunque un senso altamente religioso dell’esistenza quello al quale si conformava il rito: ed erano esseri privilegiati, ossia piú interiormente complessi, lungimiranti, “Iniziati”, coloro cui era affidato il compito di dare forma e direzione agli avvenimenti, attraverso la rigorosa tecnica del rito».
Romolo regnò 33 anni. Un evento prodigioso segnò la sua morte, se di morte si trattò, per come avvenne il suo trapasso. Il primo re di Roma stava parlando in Campo Marzio all’assemblea delle Fratrie, il consesso pubblico delle tribú civiche. Il luogo, denominato Palus Caprae, era una spianata tra il colle Quirinale e il Campidoglio. Vi confluivano due piccoli torrenti: l’Aqua Sallustiana e l’Amnis Petronia, che defluivano poi verso la riva orientale del Tevere. Ad un tratto, il cielo si oscurò, una spessa tenebra avvolse tutto, la terra sussultò, una fortissima spirale d’aria vorticando dall’alto catturò il re, sollevandolo e facendolo scomparire dalla vista. La folla, presa dal terrore per l’inusitato fenomeno, si diede alla fuga. La manifestazione di panico collettivo, denominata “Populifugia”, venne da allora ricordata con una celebrazione annuale.
Consultando gli annali, si apprese che il fenomeno dell’oscurità repentina e totale e del turbine di vento erano fenomeni che rientravano nella tradizione antica, secondo la quale le anime degli uomini illustri, per un processo di divinizzazione, venivano rapite in cielo senza che il corpo nel quale albergavano andasse incontro al processo di decomposizione come accadeva ai comuni mortali.
Una volta metabolizzato psichicamente da parte del popolo romano il fenomeno dell’assunzione in cielo di Romolo, assimilato nel consesso iperuranio al dio Quirino, si presentò il problema di come e con chi sostituire un uomo che, oltre ad essere il fondatore della città, ne era altresí il nume tutelare. Ci voleva qualcuno che ne possedesse, se non le virtú guerriere e politiche, almeno il carisma spirituale, il senso della giustizia e godesse del favor Dei, che fosse cioè benvoluto e assistito dagli Dei.
Dove trovare un uomo simile? Nella cerchia dell’Urbe, dopo molte ricerche, non se ne riusciva a trovare nessuno. Poi, dalla vox populi che circolava, venne fuori il nome di Numa Pompilio, un sabino di Cure: non mangiava carne, non beveva alcolici e aveva in orrore le armi. Quanto alle donne, le rispettava, non dava scandalo, ma testimoni attendibili gli attribuivano la frequentazione di una misteriosa fanciulla, con la quale si incontrava di notte, ai margini del bosco, presso una fonte. I due, si diceva, parlavano, parlavano per ore. Veramente, precisavano, era soprattutto la fanciulla a parlare, anzi piú che parlare sembrava ammaestrare Numa Pompilio. Che l’ascoltava, come rapito da un incantesimo.
Allora, proviamo a immaginare in ambito nazionale un Presidente della Repubblica rapito anima e corpo in cielo per le sue virtú di statista, e un Presidente del Consiglio edotto con arti magiche e procedure misteriche sulla pratica del buon governo da consulenti del calibro della ninfa Egeria.
Altri tempi, qualcuno potrebbe osservare, altri uomini e donne. Ma cosí facendo potrebbe mancare il punto chiave del problema, il vero nodo della questione, rappresentato dal fatto che quello di cui si tratta era un altro popolo. Il termine latino populus derivava da una metafora vegetale, quella di un bosco fitto di pioppi, un albero che cresce dritto nel fusto argenteo, facendo dei tronchi quasi un sol corpo serrato. Cosí i Romani vedevano il loro popolo: un coacervo di individui pronti a cedere parte del proprio bene personale per alimentare e difendere quello piú vasto e importante della civica utilità. Mai, nell’epoca di cui parliamo, quella di Romolo, e soprattutto di Numa, un comune cittadino assurto a una carica pubblica avrebbe anteposto il proprio interesse a quello dell’Urbe, delle sue leggi e istituzioni. Un patto, piú che sociale, sacrale, stabiliva il rapporto tra l’uomo comune e l’autorità di governo, sia nel ristretto ambito privato sia, e ancor piú, in quello pubblico. Un accordo che, se veniva infranto, sortiva le reazioni piú apparentemente eccessive da parte del contraente danneggiato. La reazione di Romolo alla provocazione del fratello, di saltare il sacro recinto del pomerio, potrebbe sembrare esagerata, alla luce dell’attuale pensiero, ma risulta giustificabile nella realtà oggettiva di quel tempo.
Sopravvissuti a una interminabile guerra che si era conclusa con la distruzione totale della loro città, i Troiani, guidati da Enea, si erano fatti strada, peregrinando nel Mediterraneo alla ricerca di una terra dove insediarsi, con il Palladio in un pugno e la spada nell’altro, ottenendo pacificamente asilo o conquistandolo con la forza dove negato. Si doveva sopravvivere per compiere il destino assegnato.
Ogni azione che mettesse a rischio il compimento del disegno voluto dagli Dei, andava contrastata. Remo, attentando col suo gesto inconsulto e sacrilego alla fondazione della città prescelta per concretare quel destino di grandezza, aveva meritato il castigo sommario. La regione dove Enea e i suoi erano approdati, oltre ai Latini, con i quali l’eroe s’imparentò, sposando Lavinia, la figlia del re, era abitata da Etruschi, Umbri, Falisci, Sabini, Equi, Marsi e Volsci. Dopo i primi contrasti, i nuovi arrivati s’integrarono con quelle popolazioni. L’episodio del Ratto delle Sabine indica quale grado di integrazione gli esuli troiani, naturalizzati italici, avessero realizzato. Tanto che il primo re di Roma, Romolo appunto, divise il potere regale con Tito Tazio, un sabino. Quel popolo di pastori e montanari covava, sotto la ruvida scorza rusticana, la finezza di un elevato carisma spirituale, per cui i loro sovrani, pur non disdegnando il lavoro dei campi e dell’allevamento, divinavano, compivano prodigi e guarigioni, intrattenevano rapporti con esseri elementari e creature celesti, come appunto Numa, figlio di un re sacerdote, contadino e pastore all’occorrenza, e pur tuttavia intimo di una ninfa. Proprio di uno come lui i Romani, designati alla creazione di un impero universale, avevano bisogno.
Molti di questi re pastori, e piú ancora di re sacerdoti, hanno fatto parte della leggenda per secoli. Congetture, ipotesi, fantasie. Dello stesso Numa si è arrivati persino a mettere in dubbio l’esistenza. Fino al 2005, anno in cui si sono verificate due importanti scoperte archeologiche. La prima nell’area dei Fori a Roma. Qui, contigua alla Casa delle Vestali, è stata individuata una struttura che gli esperti, dopo attente valutazioni, hanno senza incertezze identificata come la cosiddetta “Regia”, ovvero la reggia di Numa, che del culto di Vesta e delle Vestali era stato l’istitutore, oltre alla creazione di tante altre istituzioni religiose, civili e politiche che avevano gettato le basi di una città che si avviava a dominare e ordinare il mondo.
L’altra scoperta nello stesso periodo avveniva a Montelibretti, l’antica Eretum sabina, al confine tra la provincia di Roma e quella di Rieti. Nella necropoli messa alla luce, in una sepoltura certo regale, i ricercatori rinvenivano, accanto alle ossa di due personaggi, un lituo, il bastone ricurvo usato dagli auguri e dai sacerdoti per la divinazione e per rituali magici ed esorcistici. In particolare il lituo era utilizzato per tracciare sul terreno il templum, lo spazio delimitato in cui l’augure poteva leggere le corrispondenze tra la dimensione terrestre e quella celeste di astri e pianeti, traendone auspici e voti.
Le due scoperte, avvenute per strana coincidenza nello stesso periodo, non solo accertavano in via definitiva l’esistenza dei re sacerdoti sabini, ma traevano fuori della leggenda la figura di un Iniziato al quale Roma, cosí come si è poi affermata nella storia, deve gran parte della sua grandezza e civiltà.
Chi visita la Roma antica e percorre la Via Sacra dal Campidoglio al Colosseo, tappa ineludibile di una diversa concezione della grandezza e della civiltà umana, si fermi a gettare uno sguardo a quello che resta della assai modesta dimora di un re, che mise la sua sapienza al servizio dello Stato perfetto e dell’Uomo divinizzato. E accanto, scorgerà i resti della Casa delle Vergini, che immolavano la loro femminilità per tenere acceso il Fuoco perenne, offrendo il fiore della castità per guarire il male della città e del mondo. Quanto ci mancano, quel grande re e quelle caste fanciulle!
Ovidio Tufelli