L’azione si svolge in Spagna, a Siviglia, al tempo piú pauroso dell’Inquisizione, quando ogni giorno nel paese ardono i roghi per la gloria di Dio e con grandiosi autodafé si bruciano gli eretici. Egli vuole, almeno per un istante, visitare i Suoi figli proprio là dove hanno cominciato a crepitare i roghi degli eretici. Nell’immensa Sua misericordia, Egli passa ancora una volta fra gli uomini in quel medesimo aspetto umano con il quale era passato per tre anni in mezzo agli uomini quindici secoli addietro.
Egli scende verso le “vie roventi” della città meridionale, in cui appunto, durante la vigilia soltanto, in un “grandioso autodafé”, alla presenza del re, della corte, dei cavalieri, dei cardinali e delle piú leggiadre dame di corte, davanti a tutto il popolo di Siviglia, il cardinale Grande Inquisitore ha fatto bruciare in una volta, ad majorem Dei gloriam, quasi un centinaio di eretici.
Egli è comparso in silenzio, inavvertitamente, ma ecco ‒ cosa strana ‒ tutti Lo riconoscono. Il popolo è attratto verso di Lui da una forza irresistibile, Lo circonda, Gli cresce intorno, Lo segue. Egli passa in mezzo a loro silenzioso, con un dolce sorriso d’infinita compassione. Il sole dell’Amore arde nel Suo cuore, i raggi della Luce, del Sapere e della Forza si sprigionano dai Suoi occhi e, inondando gli uomini, ne fanno tremare i cuori in una rispondenza d’Amore. Egli tende loro le braccia, li benedice, e dal contatto di Lui, e perfino dalle Sue vesti, emana una forza salutare. Un vecchio, cieco dall’infanzia, grida dalla folla: «Signore, risanami, e io Ti vedrò», ed ecco che cade dai suoi occhi come una scaglia, e il cieco Lo vede. Il popolo piange e bacia la terra dove Egli passa.
Il popolo si agita, grida, singhiozza; ed in quello stesso momento ecco passare accanto alla cattedrale, sulla piazza, il cardinale Grande Inquisitore in persona. È un vecchio quasi novantenne, alto e diritto, dal viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come una scintilla di fuoco, splende ancora una luce. Ha visto tutto. Aggrotta le sue folte sopracciglia bianche e il suo sguardo brilla di una luce sinistra. Egli allunga un dito e ordina alle sue guardie di afferrarLo. Le guardie conducono il Prigioniero sotto le volte di un angusto e cupo carcere nel vecchio edificio del Santo Uffizio e ve Lo rinchiudono.
Passa il giorno, sopravviene la scura, calda, afosa notte di Siviglia. L’aria odora di lauri e di limoni. In mezzo alla tenebra profonda si apre a un tratto la ferrea porta del carcere, e il Grande Inquisitore in persona, con una fiaccola in mano, lentamente si avvicina alla prigione. È solo, la porta si richiude subito alle sue spalle. Egli si ferma sulla soglia e considera a lungo, per uno o due minuti, il volto di Lui. Infine si accosta in silenzio, posa la fiaccola sulla tavola e Gli dice: «Sei Tu, sei Tu?». Ma, non ricevendo risposta, aggiunge rapidamente: «Non rispondere, taci. E che potresti dire? So troppo bene quello che puoi dire. Del resto, non hai il diritto di aggiungere nulla a quello che Tu già dicesti una volta. Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a disturbarci, lo sai anche Tu. Ma sai che cosa succederà domani? lo non so chi Tu sia, e non voglio sapere se Tu sia Lui o soltanto una Sua apparenza, ma domani stesso io Ti condannerò e Ti farò ardere sul rogo, come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi, si slancerà domani, a un mio cenno, ad attizzare il Tuo rogo, lo sai? Sí, forse Tu lo sai» aggiunge, profondamente pensoso, senza staccare per un attimo lo sguardo dal suo Prigioniero.
«Non dicevi Tu allora spesso: “Voglio rendervi liberi?”. Ebbene, adesso Tu li hai veduti, questi uomini ‘liberi’» aggiunge il vecchio con un pensoso sorriso. «Sí, questa faccenda ci è costata cara» continua, guardandolo severo «ma noi l’abbiamo finalmente condotta a termine, in nome Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma adesso l’opera è compiuta e saldamente compiuta. Non credi che sia saldamente compiuta? Tu mi guardi con dolcezza e non mi degni neppure della Tua indignazione? Ma sappi che adesso, proprio oggi, questi uomini sono piú che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo stati noi ad ottenerlo, ma è questo che Tu desideravi, è una simile libertà? Ora infatti, per la prima volta, è diventato possibile pensare alla felicità umana. L’uomo fu creato ribelle; possono forse dei ribelli essere felici? Tu eri stato avvertito, avvertimenti e consigli non Ti erano mancati, ma Tu non ascoltasti gli avvertimenti. Tu ricusasti l’unica via per la quale si potevano render felici gli uomini, ma per fortuna, andandotene, rimettesti la cosa nelle nostre mani. Tu ci hai promesso, Tu ci hai, con la Tua parola, confermato, Tu ci hai dato il diritto di legare e di sciogliere, e certo non puoi ora nemmeno pensare a ritoglierci questo diritto. Perché dunque sei venuto? Sai Tu che passeranno i secoli e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati? “Nutrili, e poi chiedi loro la virtú!”. Oh, mai, mai essi potrebbero sfamarsi senza di noi! Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi, ma essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: “Riduceteci piuttosto in schiavitú, ma sfamateci!». Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno essere liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli. Essi sono viziosi e ribelli, ma finiranno per diventare docili. Ci ammireranno e ci terranno in conto di Dei per avere acconsentito, mettendoci alla loro testa, ad assumerci il carico di quella libertà che li aveva sbigottiti, e a dominare su loro, tanta paura avranno infine di essere liberi! Ma noi diremo che obbediamo a Te e che dominiamo in nome Tuo. Li inganneremo di nuovo, perché allora non Ti lasceremo piú avvicinare a noi. E in questo inganno starà la nostra sofferenza, poiché saremo costretti a mentire. Ecco ciò che significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco ciò che Tu ricusasti in nome della libertà, da Te collocata piú in alto di tutto. In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo. Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. Non c’è per l’uomo rimasto libero piú assidua e piú tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. Ma l’uomo cerca di inchinarsi a ciò che già è incontestabile, tanto incontestabile, che tutti gli uomini ad un tempo siano disposti a venerarlo universalmente. Perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto di trovare un essere a cui questo o quell’uomo si inchini, ma di trovarne uno tale che tutti credano in lui e lo adorino, e precisamente tutti insieme. E questo bisogno di comunione nell’adorazione è anche il piú grande tormento di ogni singolo, come dell’intera umanità, fin dal principio dei secoli. È per ottenere questa adorazione universale che si sono con la spada sterminati a vicenda. Essi hanno creato degli Dei e si sono sfidati l’un l’altro: “Abbandonate i vostri Dei e venite ad adorare i nostri, se no guai a voi e ai vostri Dei!”. E cosí sarà fino alla fine del mondo, anche quando gli Dei saranno scomparsi dalla terra: non importa, cadranno allora in ginocchio davanti agli idoli. Tu conoscevi, Tu non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, ma Tu rifiutasti l’unica irrefutabile bandiera che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi senza discussione dinanzi a Te. Tu volesti il libero amore dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé, liberamente, che cosa fosse bene e che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine. Ma non avevi Tu pensato che, se lo si fosse oppresso con un cosí terribile fardello come la libertà di scelta, egli avrebbe finito per respingere e contestare perfino la Tua immagine e la Tua verità? Sappi che io non Ti temo. Sappi che anch’io fui nel deserto, che anch’io mi nutrivo di locuste e di radici, che anch’io benedicevo la libertà di cui Tu allietasti gli uomini, che anch’io mi ero preparato ad entrare nel numero dei Tuoi eletti, nel numero dei potenti e dei forti, con la brama di “completare il numero”. Ma mi ricredetti, e non volli servire la causa della follia. Tornai indietro e mi unii alla schiera di quelli che hanno corretto l’opera Tua. Lasciai gli orgogliosi e tornai agli umili, per la felicità di questi umili. Ciò che Ti dico si compirà e sorgerà il regno nostro. Ti ripeto che domani stesso Tu vedrai questo docile gregge gettarsi, al primo mio cenno, ad attizzare i carboni ardenti del rogo sul quale Ti brucerò, per essere venuto a disturbarci. Perché se qualcuno piú di tutti ha meritato il nostro rogo, sei Tu. Domani Ti arderò».
L’Inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo che il suo Prigioniero gli risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha visto che il Prigioniero l’ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi con il suo sguardo calmo e penetrante, e non volendo evidentemente obiettare nulla. Il vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile. Ma Egli, tutt’a un tratto, si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano. Ed ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito; egli va verso la porta, la spalanca e Gli dice: «Vattene e non venire piú. Non venire mai piú, mai piú!», e Lo lascia andare per le vie oscure della città.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij
Selezione dal 5° Capitolo de I fratelli Karamàzov.