Non piú vacanze ai tropici, non piú
lampade uva e liquidi abbronzanti.
Ancora qualche lustro e gli europei
da Lisbona agli Uràli, dalla Grecia
al Capo Nord, passando per l’Irlanda,
avranno pelle scura come i popoli
dell’Africa, dell’India e del Perú,
del Borneo, di Manila e d’Iguazú:
cotti non solo dalla tintarella
ma abbrustoliti nei pigmenti esposti
agli incerti di tante migrazioni,
di esiti forzati, spostamenti
tra continenti, sottoposti all’alea
di mescolanze e intrecci biogenetici.
L’uomo che sortirà dalla mistura
di sangue, geni, linfe e cromosomi
volgerà al moro come gli antenati
che occupavano il mondo occidentale
dopo il grande Diluvio universale.
Cosí ci fanno credere gli esperti
del Museo della Scienza in quel di Londra.
Dopo tanto ponzare ci raccontano
che l’ordinaria civiltà dei popoli
alterna il soma degli umani in base
a meccanismi genici, per cui,
a dirne una, le tribú scozzesi
sembravano africani, mentre giú,
in Egitto, mostravano epidermidi
candide e rosee come porcellana:
Nerfertiti, ad esempio, ricordava,
nei toni della pelle, Biancaneve.
Ma non si ferma qui la teoria
dei ‘sapienti’ britannici, per cui
a un ciclo del diverso un altro segue
che uniforma le specie. Ne deriva,
dopo la differenza, l’uguaglianza.
Saremo tutti scuri, per la gioia
di chi propone il melting pot dei popoli.
Ma non potremo allora approfittarne
alloggiati in hotel a quattro stelle,
con smartphone e moncler ultimo grido.
Non ci sarà chi pagherà le spese
di tante insostenibili pretese
della specie che, a furia di mischiarsi,
avrà il colore della terracotta
alla precarietà ormai ridotta.
Sarà cosí l’universale affronto
di non sapere a chi mandare il conto.
Il cronista