Ho incontrato un vecchio compagno degli anni di liceo. Lieti della circostanza, siamo andati a prenderci un caffè, piú per indugiare nella chiacchieratina che per la consumazione in sé.
Devo premettere che questo amico, molti anni addietro, aveva partecipato al nostro gruppetto che allora iniziava appena a masticare l’ “abc” della Scienza dello Spirito, ma subito dopo s’era perso di vista (credo fosse andato a lavorare all’estero). Nel rivederlo oggi, mi sono accorto ben presto che aveva, nei confronti di quelli che si danno da fare con le discipline interiori, quel mix di compatimento avvolto da magnanimità, tipico di chi si sente superiore grazie all’esperienza ruspante della struggle for life, la lotta per la vita, ed è portato a considerare gli studiosi di filosofie spirituali, compresi quelli di Steiner e di Scaligero, come dei simpatici perdigiorno, avulsi dal senso pratico della vita, che, per i pragmatici come lui, sarebbe l’unico ed esclusivo.
Dopo un riassunto a larghe trame degli anni passati e lo scambio delle informazioni d’uso circa i rispettivi Affanni & Malanni, ci siamo lasciati esprimendo la reciproca speranza di rivederci quanto prima. Al che, l’amico salta fuori con una frase cosí chiara ed esplicita da lasciarmi lí per lí senza capacità di controbattere in qualche modo: «Ci rivedremo ancora? Non ci rivedremo piú? E chi lo sa? È già prestabilito. Non possiamo fare altro che subire l’incognita del destino! Oh, a proposito, com’è che lo chiamate voi? Ah sí, il “karma”! Beh, karma o destino staremo a vedere. Secondo me voi vi date molto da fare, parlate di volontà, di spinta evolutiva, ma la nostra realtà è già decisa in partenza».
E con questo bel pensiero, guardando prima a destra e poi a sinistra, ha attraversato la strada, evitando, con movenze da toreador, le auto che sfrecciavano nei due sensi di marcia; è salito sulla sua macchina, che aveva lasciato posteggiata al lato opposto della via, l’ha messa in moto, e agitando sorridente la mano verso di me per un ultimo saluto, si è dileguato, inghiottito dal traffico intenso di quella tarda mattinata di primavera.
Sono rimasto lí sul marciapiedi, non dico perplesso, ma alquanto sovrappensiero (o magari sottopensiero); quella frase, sbandierata a slogan, mi aveva provocato un blackout dei processi interiori, compresi quelli mentali; non ne capivo la ragione e questo mi faceva stare un pochino a rilento. Sapevo però che avrei dovuto ragionarci sopra e – per tutti i diavoli! – prima o poi l’avrei fatto.
È accaduto un paio di giorni dopo (non sono lesto a carburare, però ci arrivo). Che c’entra il destino con il karma? Prima riflessione liberatrice. E subito dopo, la seconda: se davvero l’amico era convinto di quanto sostenuto con tanta verve, perché prima di attraversare la strada aveva guardato a destra e a sinistra? Se il destino (o secondo lui, il karma) ha prestabilito tutto per conto suo, allora – in coerenza – uno potrebbe attraversare la strada anche ad occhi chiusi. Tanto…
Si può scherzare in molti modi, e non tutti sono sempre irriverenti. Ma se lo scherzo viene adoperato con l’intenzione di confondere se stessi e gli altri, allora non è piú uno di quegli scherzi che mi piacciono e divertono; diventa una piccola disonestà. Perciò sento impellente il dover raddrizzare qualcosa che, pur spacciandosi per dritta, in sé è sbilenca. Cosa semplice fintanto che si ha a che fare con degli oggetti, ma diventa complicata con i ghirigori della dialettica.
Cosa ne penso del destino? È una parola che mi rifiuto di capire; ha in sé il senso di “destinazione”, di un arrivo finale posto da qualche parte in un futuro prossimo o lontano, non si sa, ma è una parola altezzosa, gonfia di un’importanza che non le spetta. Ogni essere umano sano di mente e in condizioni ordinarie, quando si mette a fare qualcosa sa perfettamente ciò che sta facendo e dove sta andando. Certo, c’è il problema della morte; garantita quanto ad esito, non possiamo conoscerne il momento e l’ora; questo è tuttavia connaturato all’essere dell’uomo; se cosí non fosse non parleremmo di uomini, ma di qualcosa d’altro.
L’impossibilità di darci una risposta e l’incertezza che ne deriva, di contro all’inesorabile caducità della vita fisica, hanno coniato la parola “destino”, con la quale siamo costretti da una parte a bollare la nostra ignoranza in materia, e dall’altra, attraverso il gioco delle emozioni e delle speranze, siamo indotti a supportare quella caterva di ambiguità e congetture che fanno parte della cosídetta “divinazione”, la quale, specie nei periodi di buio interiore, costituisce un fiorente mercato di domanda-offerta fra ciechi brancolanti e avidi saccenti.
Presso gli antichi la divinazione (non occorrerebbe nemmeno dirlo) nasceva da tutt’altri presupposti; voglio dire, c’era una sostanza umana, per quanto in via d’estinzione, particolarmente preparata a leggere, secondo precise ritualità e in determinate forme, gli accadimenti futuri. Ma al giorno d’oggi, tale sostanza si è ormai trasformata del tutto: dove prima si estendevano lussureggianti distese di foreste, prati e savane, ora abbiamo deserti, aridi e desolati; di conseguenza anche la fauna ha dovuto ridursi a quel che in effetti sembra esser divenuta l’anima dell’epoca: un habitat di sciacalli, rettili e volatili spolpaossa.
Il principio della sacralità, di cui ab origine l’entità umana era portatrice, ha dovuto affievolirsi nel corso dei tempi, per dar luogo a uno sviluppo pressocchè incontrollato della funzione cerebrale e mentale. Ciò ebbe a verificarsi a condizione che venisse smarrita la consapevolezza inziatica di cui essa recò, nei primordi, luminosa traccia; quella che le permise, tra altre forme di percezione extrasensoria, anche un determinato sviluppo delle capacità di preveggenza.
Ora tutto si riduce ad una esigua, dimenticata eco, poco rilevabile, e pure questa attiva solo in quanto messa alla frusta da particolari difficoltà esistenziali, da disperazione o da terrore.
Abbiamo quindi inventato la voce “destino”, per dar corpo a tutte le ipotesi possibili e immaginabili senza avere in cambio la minima certezza di un loro verificarsi. E tuttavia adoperiamo con stolida ripetitività tale vocabolo proprio ad indicare, in via definitiva, la causa futura e inevitabile di quanto crediamo incombere sulle nostre teste. È il paradosso del cosiddetto “possibilismo assoluto”: una costellazione di contraddizioni, cui non manca nulla, adattata a riempire un vuoto concettuale con fantasie oniriche, una piú impegnativa dell’altra.
I Greci avevano avuto bisogno di dodici divinità maggiori e di molte altre in subordine, per creare una dimensione metafisica entro la quale far passare la strada della vita umana.
Noi moderni, con la voce “destino” (termine asettico, sterilizzato, repulsivo di religiosismi e misticanze confessionali) abbiamo sintetizzato in una parola tutto quello in cui c’èra da sperare e tutto quello in cui c’èra da temere. Probabilmente non ci siamo riusciti appieno, dal momento che si spera poco e si teme molto; ma questo è un altro paio di maniche; come dicevano gli antichi forensi, «de minimis non curat praetor».
È comprensibile che si tentino le vie della divinazione; basti pensare che il primo in grado di accedervi, a scapito d’ogni altro, diverrebbe di colpo il padrone del mondo. Non occorre nemmeno scomodare forme misteriose di preveggenza o immaginare riti di particolari complessità; chiunque diventasse capace di prevedere ciò che accadrà fra un minuto, o anche fra pochi secondi, conquisterebbe le vette del successo e del primato.
Sono convinto che alcune lotte intestine, di cui la storia ufficiale ha reso solo scarse testimonianze – mascherandole, tra l’altro, con gli ingredienti mediante i quali ci hanno fatto credere e studiare, ad esempio, le ragioni della guerra greco-troiana e di quella latino-punica – siano segnate a debito delle correnti misteriosofiche di epoche passate, impegnate all’ultimo sangue, nello sforzo di contendersi determinati segreti, inaccessibili ai comuni mortali, tra cui quello divinatorio.
Il che appare piuttosto ingenuo ad una razionalità odierna, stufa di portarsi appresso il fardello di facoltà cessate; insistere significa deteriorare quanto ne abbiamo avuto in cambio. Ma il potere del mondo sul mondo non smetterà mai di pretendere che un singolo uomo, o un gruppo di uomini, diventi detentore della magia preveggente. Hai voglia a prenderla per una credenza sorpassata! Per quanto ridotta a ideuzza di fondo, qualcuno continua ad accarezzarne il progetto, e per dare incremento ad una ricerca di questo genere, diventa capace di spendere pure ingenti capitali, dopo averli distratti dai bilanci di legittime programmazioni economiche.
Non si prende in minima considerazione: 1°) il fatto che se tale magia si desse, riguarderebbe esclusivamente un’anima del tutto “ripulita” da lusinghe e seduzioni mondane; chi abbia invece scelto di lasciarsi attrarre dalla brama di dominio, si trova in una fase completamente opposta al verificarsi di una simile evenienza; 2°) la divinazione c’è già, esiste da sempre; oggi la chiamiamo immaginazione, o fantasia, o capacità di costruire ipotesi su ipotesi. A volte tali costruzioni reggono, si traducono sul piano pratico; diventano grattacieli, ponti o gigantesche navi da crociera. Questa forma di veggenza, per quanto profana e piena di rischi, si trova alla portata di tutti. Attiene alla natura umana cosí come potenzialmente voluta nell’atto creativo.
Se dopo, invaghiti e ringalluzziti (per non dire accecati) da forze manovrate da avversari privi di scrupolo, fisici o metafisici (leggi: Ostacolatori), abbiamo preso il miraggio dell’oro come benchmark del successo, per cui chi piú ne ha, piú vale, allora anche il Paperone di turno, che vende l’anima per accaparrarsi la sfera di cristallo e “vedere” il futuro al di là dei limiti, può trovare una sua giustificazione. Ma allora siamo in un videogame; siamo fuori della vita; fuori della prospettiva umana. Bisogna accorgersene; bisogna dirlo.
Il male non sta nel tentare di capire il futuro; il male è volersene appropriare per tornaconto personale a scapito altrui. Il bene comune, invece, consiste nel non poterlo fare singolarmente, neppure – ove possibile – estendendolo all’umanità intera. Se all’improvviso, per un colpo di bacchetta magica, venissimo tutti dotati di uguale preveggenza, le cose nel mondo non muterebbero di una virgola; ognuno saprebbe ciò che l’altro sta per fare e si premurerebbe di conseguenza e in conformità. Si ritornerebbe, nonostante la dote acquisita, allo status quo, ove nessuno aveva il potere di indovino. Avremmo semplicemente spostato in avanti le lancette degli orologi di qualche minuto. Dopo un po’, nessuno ricorderebbe la nuova facoltà e finirebbe per dimenticare di averla, allo stesso modo con il quale l’abitudine alla respirazione ci ha fatto scordare la sua necessarietà.
Per cui il permanere ignoto dell’avvenire è per l’appunto la garanzia migliore dell’incolumità morale di chi, assoggettato alla dimensione dello spazio e del tempo, deve cogliere il divenire in sequenze e cadenze sulle quali non gli è concesso metterci lo zampino.
I limiti del determinismo di natura voluti dal Creatore sono pieni di misericordia per le ristrettezze dell’umano, anche se spesso ci torna piú facile interpretare questa benevolenza con l’enigmatico, misterioso volto di un ignoto destino. Ma il non comprendere d’oggi, l’incapacità di leggere il futuro, non è la pietra di fondamento su cui edificare una conoscenza; l’abbiamo sperimentato già molte volte, e abbiamo dovuto fare precipitosamente “macchina indietro tutta”, senza nemmeno un biglietto di scuse per quanti sono stati danneggiati dal miraggio collettivo.
C’è un vecchio aforisma usato con una certa frequenza nei nostri discorsi, con il quale si sostiene: «Nessuno è profeta in patria». Ci siamo mai chiesti perché? Perché non si può essere profeti in casa propria? Sono venuto a conoscerne la ratio in circostanze che allora mi parvero occasionali, da una persona che evidentemente ci aveva riflettuto sopra molto piú di me.
Chi è Profeta? Colui che ha letto nel futuro e lo predice. Cos’è la Patria? L’insieme di uomini, di fatti, di cose che si legano a un determinato territorio e ne costituiscono la storia; rappresentano tutto il “passato”, ciò che viene conservato nella mente e nel cuore di una data comunità.
Ora, se da essa salta fuori uno che – papale papale – si mette a raccontare cose che lui sa, in quanto sperimentate di persona, ma per tutti gli altri sono cose che non esistono, cose di un altro mondo, cose che non piacciono ma anzi turbano, irritano e spesso offendono il Testo Unico delle credenze popolari, pare evidente che costui non avrà vita facile tra la sua gente. Non dico che questa interpretazione sia l’unica esatta, ma per me è stata la sola a farmi esclamare (interiormente): «Accidenti! Questa non l’avevo pensata! Eppure era evidente!». Mi è sembrata una versione da accogliere come la migliore nel suo campo; se un giorno ne troverò un’altra piú buona, la sostituirò senz’altro; ma intanto vale questa.
Un altro esempio: Antonio Gramsci fece una considerazione su un particolare momento della vita politica della nazione, che in seguito è stata recepita in senso allargato per indicare i pericoli di una situazione che avrebbe dovuto essere transitoria, e che invece ristagna nel tempo: «Laddove il mondo vecchio se ne va e quello nuovo stenta ad arrivare, avviene un crepuscolo in cui si generano mostri».
Naturalmente, se vogliamo ora ricondurre quanto esplicitato sul destino e sul karma al senso piú o meno recondito delle due frasi richiamate, dobbiamo compiere un piccolo sforzo interpretativo, sempre tenendo presente che esso non pretende nulla di conclusivo, si limita a offrire un possibile spunto di lettura sinottica.
Parlando di profeti e di patrie ci troviamo di fronte a due mondi contingui, il vecchio e il nuovo. Vale a dire, la conservazione, la prassi, gli usi e i costumi ed anche il folklore, se vogliamo, mentre dall’altra giungono le nuove idee, le nuove abitudini, il rinnovamento tecnologico, i mutamenti operativi, le ristrutturazioni, le riforme e quant’altro. Ben che vada, ci sarà uno scontro da gestire; ci sarà un periodo di assestamento da dover sopportare e digerire. Non si può escludere a priori che non ci saranno dei ritorni di fiamma del passato, i quali non cercheranno certo soluzioni diplomatiche, ma creeranno ulteriore confusione e disordini. Del resto, chi sente di doversi eclissare, per non dire morire, e far posto a qualcosa di ben altro-da-sé – a meno che non sia illuminato da inveterata saggezza – è umano che si difenda con le unghie e con i denti.
Non si tratta però soltanto di vedere da una parte le forze decadute del passato e dall’altra quelle nascenti del futuro; si tratta di capire che ci stiamo in mezzo e che prima o poi dovremo decidere. Si tratta di capire che in ciascuno di noi, in ogni attimo di vita, c’è una spinta in avanti, verso il nuovo, e contemporaneamente ce n’è un’altra che ci trattiene, ci ributta indietro verso il passato. Per farlo, per tirare fuori da noi stessi una decisione che diviene sempre piú impellente (anche perché molti cercano di rimandarla sine die, o insabbiano il problema in attesa che un monsieur Godot ce lo venga a risolvere), bisogna prima imparare a guardare l’orizzonte, anzi gli orizzonti; perché ce ne sono due, almeno cosí appaiono dal momento che proprio noi rappresentiamo il punto che li diverge e, contemporaneamente, li unifica.
Si può immaginare l’esistere come una linea sulla quale il puntolino del nostro sé percorre giorno dopo giorno un pezzetto di strada. Potrebbe trattarsi di un rettilineo, e come tutte le rette, anch’esso senza limiti. Tuttavia, il sapere acquisito ci dice di no: nulla sappiamo prima della nascita, nulla sapremo dopo la morte. Allora la retta che supponevamo si trasforma di colpo in un segmento; lungo quanto vuoi, ma sempre segmento, con inizio e fine. Dall’Alfa all’Omega, dalla culla alla bara, tanto per capirci.
Chi la vede in questo modo, cosa può dire del destino? Alle spalle c’è il passato, i ricordi (quelli che sono rimasti); davanti, il tempo che resta (sconosciuto), gli avvenimenti che accadranno (ignoti), e il modo d’incontrarli (da stabilire). Il destino sarà buono se gli eventi saranno favorevoli; sarà ostile e malvagio, se invece capiteranno cose spiacevoli e prove difficili da superare.
L’umanità di questo tempo è in parte Penelope e in parte Telemaco: entrambi dalla riva fissano il mare; forse da là giungerà la soluzione che la donna porta nel cuore e il giovane nella mente: «Fanno bene », dice il filosofo Massimo Recalcati, rivolgendosi in particolare a Telemaco, perché «presto o tardi qualcosa, dal mare, arriva sempre».
Resta comunque l’incognita di un destino che potrebbe (perché no?) in qualche modo dipendere da un passato remoto dei primordi di cui nulla sappiamo, come altrettanto (perché sí?) da un futuro imperscrutabile di cui conosciamo meno ancora e verso il quale possiamo proiettare soltanto aneliti, speranze e progetti.
Ben diversa è invece la posizione di chi ha maturato il concetto di karma (termine sanscrito che non è possibile circoscrivere mediante un gruppo di parole o frasi, anche se non sono pochi quelli che danno per scontata una spiegazione stringata del medesimo). L’unica cosa in comune tra il senso del destino e il concetto di karma è che entrambi appartengono alla vasta categoria degli “stati di coscienza”; ed è del tutto inutile volere far primeggiare l’uno sull’altro. La realtà del mondo sensibile, pur presentandosi staccata, esterna a noi, oggettivamente valida e conoscibile in quanto tale, è determinata da quanto abbiamo maturato – e soprattutto elaborato – mediante esperienze e riflessioni sopra le medesime.
Se però questa realistica visione costringe l’arco temporale della vita ad inscriversi in un segmento, o porzione di retta, allora c’è poco da fare: o ti limiti ad un esistere sconosciuto e incomeprensibile, nel quale è inutile affannarsi, portare un barlume di consapevolezza (e questo pesa in un certo modo sulla vita dell’anima), oppure devi dirti che l’Alfa e l’Omega di quel segmento (che poi è il tuo segmento ) stanno lí appositamente per essere valicati, e non per far da tappo alla poca voglia di conoscenza.
Per restare nel paragone geometrico della teorica linea esistenziale, la visione karmica è sí, lineare anch’essa; ma non è rettilinea; le si addice piuttosto la forma di anello circolare, ove il limitato e l’illimitato possono trovare coesistenza; in cui il puntolino del nostro sé, che avanza in progressione, viene continuamente a trovarsi esposto a cose, fatti, circostanze e situazioni le quali, per lo scorrere rotatorio del moto, gli si presentano sempre per nuovi ed esteriori, ma in realtà sono intrecci, miscugli, combinazioni di vissuti precedenti.
Per “vissuti precedent”, non occorre scomodare la fenomenologia della reincarnazione (anche se, come si può capire, nell’ipotesi del karma essa ha un ruolo fondamentale); è sufficiente considerare ciò che ci viene dal nostro partecipare al mondo e su cui la coscienza ha offuscato le luci della memoria.
Quante volte ci è capitato di star male per aver ingerito qualcosa in cui risiedeva la causa dell’alterazione? E quante volte, sollecitati dalle domande del medico, abbiamo dovuto ammettere che «Beh, forse sí, può essere, non ricordo…». Ovviamente non si tratta soltanto di cibi e di bevande; cause interiori, rimorsi, problemi insoluti, propositi abbandonati, varie incombenze di responsabilità mai portate a conclusione, creano un onere debitorio altrettanto gravoso; nel tempo tendono far sí che il soggetto, senza esserne cosciente appieno, si diriga senza saperlo verso una situazione recante in sé la possibilità di “sblocco”, e quindi di remissione del dovuto.
Il karma non è un qualcosa da assegnarsi a priori a una dimensione sovraumana posta al di fuori della nostra portata, come in modo fatale e sbrigativo si fa invece con il destino. Il karma si forma lentamente, si riempie goccia a goccia, attraverso i momenti delle nostre vite; raccoglie con estrema pazienza tutte le omissioni effettuate, tutte le occasioni sprecate; non gli occorrono quelle in cui avevamo (forse) il diritto di dire: «Io non potevo sapere»; gli bastano quelle alle quali, coscientemente chiamati, ci siamo negati, ritenendo poterlo fare per nostro diritto di libera scelta.
Definire il destino un concetto, è una svista grossolana; se fosse un concetto avrebbe in sé la vita del Mondo dello Spirito. Il destino va piuttosto attribuito al vasto insieme delle “rappresentazioni”, anche perché il senso semi-recondito del suo teatralismo salta spesso fuori, specialmente nelle opere artistiche, là dove la rappresentazione è forma abituale del suo darsi, e dove, per la gioia delle anime in sviluppo embrionale, viene assaporato come un melodramma: vedi il film “Le Onde del Destino” o l’opera verdiana “La Forza del Destino”. Si potrebbe dunque affermare che la rappresentazione del destino equivale al concetto di karma cui sia stata estirpata la fondamentale consapevolezza: quella che fa di un’anima “senziente/razionale/affettiva” un’anima cosciente.
Le varie concezioni del mondo e della realtà umana succedutesi nel tempo, sono ravvisabili quali “stati di coscienza” di volta in volta raggiunti e di volta in volta perduti, perché superati. Questa dinamica è il motore dell’evoluzione universale; ma quel che importa veramente è il modo in cui l’anima impara a reagire di fronte all’elemento del nuovo che avanza e del vecchio che tarda a ritirarsi. Geometria e matematica non fanno difficoltà ad immaginarvi un fluente continuum: che la retta sia ininterrotta o si componga di una serie infinita di segmenti, è uguale ai fini teorici. Ma per quanti sono chiamati a vivere l’alternanza delle transizioni nello spazio e nel tempo, le cose non sono altrettanto semplici. È un bel dire “l’anima viene messa alla prova”, ma le anime sono ricoperte di pelle, e la prova cade sempre sulla propria pelle.
Ecco allora l’importanza di raggiungere un grado di contemplazione interiore capace di distinguere il chiarore dell’alba, là dove sembra esservi soltanto un crepuscolo stagnante, con tutto quel che segue. Non per niente, a tale proposito, ho tirato in ballo la frase di un uomo della politica, che, a prima vista, nel nostro discorso, non funge esattamente da cacio sui maccheroni. Diventa tuttavia comprensibile e si spiega in buona logica, se ci si rivolge alla radice di quel pensiero per capire da quale contesto sia sorto.
Tra quel che se ne va e quel che sta per arrivare c’è sempre un interregno, una zona morta, una “terra di nessuno”; queste sono alcune frequenti caratterizzazioni di quel “crepuscolo”, cosí in voga tra gli zombie del genere horror, che, evidentemente, tendono a travalicare fumetti, schermi e monitor. Ma potremmo azzardare anche qualche riflessione sul “Crepuscolo degli Dei”; per quanto eccelsa e inneggiante alla circolarità del karma (vedi “L’Anello del Nibelungo”), la musica di Wagner ha scelto di narrare la potenza di un Walhalla nel suo rovinoso declino piuttosto che rivolgersi con pari forza e fiducia ad un radioso avvenire, il cui arrivo sia però pensabile come indipendente da influssi extraumani.
Il ricambio c’è sempre stato; ne abbiamo bisogno; non è una cosa misteriosa alla quale non abbiamo mai assistito; giorno notte, estate inverno, caldo freddo, luce buio sono semplici manifestazioni naturali. Ma vi sono altri cambiamenti, per i quali la mancata preparazione trasforma in dramma il passo della variante. Un mutamento generazionale, un rinnovo culturale, un movimento religioso, bastano (e avanzano) per immaginare il putiferio che combinano quando dal livello teorico scendono in campo e vogliono inserirsi nel tessuto della vita sociale, specie nel caso in cui quest’ultimo non sia pronto ad accoglierli.
Non c’è niente al mondo di maggiormente impreparato ad afferrare il senso di un cambiamento radicale, di un rinnovo strutturale, di una richiesta proveniente dal profondo dell’anima, di quanto non lo sia il materialismo. È la caratteristica della nostra epoca: il simbolo del rifiuto al Divino, di una forsennata angosciosa ricerca di vie alternative allo Spirito. Ogni progresso, ogni dinamismo, ogni aspirazione, o sono svolti e sviluppati contro il Logos, o vengono respinti, se non a priori, quantomeno subito dopo.
Per essere lui stesso un mostro, il materialismo non può fare altro che generare altri mostri. Vivendo l’ambiguità dell’interregno, e guardando alla possibilità di rinnovo solo dal punto di vista della convenienza e del profitto di parte, il materialismo – pur non ammettendolo – vuol continuare nel suo crepuscoleggiare. Non riconosce per sua la dimensione dello squallore e della caligine, anzi, gioca spesso la carta dialettica di lamentarsene, di volersene disfare; eppure in essa il materialismo vive e (si prova tristezza a dirlo) prospera alla grande.
Il materialismo è costretto a valorizzare l’incognita del destino, per spiegarsi in astratto quello che non può dirsi in concreto. Vede nell’uomo una semplice prosecuzione del dato di natura pervenuto casualmente al top della catena antropogenica. La possibilità di un rinnovo oltre se stesso, la conquista di un libero pensare, la sacralità dell’autonomia del singolo, la discodifica di ogni qualificazione interiore, non preventivamente autorizzata da organismi-controllori, sono considerati un attentato grave alla struttura della società stessa.
L’individualità viene stroncata sul nascere per dar luogo ad un collettivismo in cui la mascherata del variopinto e la recitata riconciliazione con il “diverso” celano la tetraggine di una umanità costretta – da forze inumane – al plumbeo grigiore dell’uniformismo di massa.
Il karma indica all’uomo la strada per diventare sempre piú libero, sempre piú individuo, commisurandone pesi e contrappesi. Il destino prescrive all’uomo tutto ciò di cui egli necessita per imbrigliarsi nell’illusione di considerare la libertà un’utopia priva di fondamento, tanto fantastica quanto irraggiungibile, o tutt’al piú raggiungibile attraverso il processo storico e selettivo di comunità ateisticamente organizzate.
Non solo: il karma propone a ciascuno percorsi esistenziali di fatica e di sudore in vista di un traguardo per il quale ogni sforzo è ripagato ampiamente. In effetti si tratta di nuotare controcorrente; non perché un volere soprannaturale provi piacere a infierire sui poveri subordinati, ma per il fattore, ben piú legato alle nostre attitudini e comportamenti, in cui ognuno è chiamato a riempire le falle che ha lasciato aperte lungo il suo cammino.
Il loro numero è di gran lunga maggiore di quanto possiamo supporre. Nonostante tutta l’obiettività di cui ogni tanto siamo capaci, non ci è dato di scorgere la loro totalità oltre un determinato passato. A questo ci pensa il karma, riproponendoci, quali avvenimenti futuri, i temi omessi, interrotti o raggirati, nelle particolari circostanze e situazioni che, di fronte al loro verificarsi, ci fanno puntualmente esclamare: «Ah, questa proprio non me l’aspettavo!».
Chi non vuol sapere del Karma, non conosce l’imparzialità delle sue leggi né la virtú della loro funzione equilibratrice. Deve allora chiamare in soccorso il Destino e augurarsi che sia quello propizio.
Angelo Lombroni