Che sia questione di fraternità
l’economia di questa civiltà
che all’acme somma dell’ipocrisia
si autodefinisce umanità.
Per farsene un’idea e averne prove
forse non è da chiedere pareri
e soluzioni a chi sa destreggiarsi
tra compromessi, appalti e vitalizi,
giocando in Borsa o rifacendo i denti
la pelle, il soma, a cifre immensurabili,
o vendendo petrolio e derivati
al costo di un rarissimo elisir,
mentre è solo un tellurico essudato,
risultante materico del caos.
Forse casi piú veri e piú toccanti
conviene ricercarli tra gli esclusi,
gli emarginati dalla società,
quelli che non potendo piú imbrogliare
le carte, condannati alla virtú,
fanno il gioco piú onesto e piú pulito,
fino a renderlo un atto umanitario,
non avendo migliore alternativa.
I boss della camorra, detenuti
nella fu corte di Poggioreale,
riciclata a struttura detentiva
ufficiale prigione in quel di Napoli,
investono un milione ciascun mese,
in contanti, denaro quindi anonimo,
per caricare credito esigibile
sui libretti di banca personali
dei compagni di cella e di istituto
perché, secondo loro, questo serve
a creare benessere e consenso
tra i carcerati, in modo che la pena
venga alleviata dalla carità,
che non offende, visto che si esercita
tra segregati nelle stesse mura,
e condannati dalla stessa legge.
Di questa originale fratellanza
approfitta lo spaccio interno al carcere,
che provvisto di ogni bendiddio
fornisce agli internati questo e quello,
grazie a un giro di credito gestito,
manco a pensarlo, dalla malavita.
Mentre fuori banchieri e professori
di economia, finanza, gente astuta,
a sentir loro geni del denaro,
maghi del trafficare e speculare,
i libretti li svuotano, e l’incauto
che affida loro beni e capitali
si ritrova a contare fallimenti
ben piú letali, in quanto velenosi
titoli derivati, fondi tossici,
valori compromessi dai magheggi.
Ci salverà dalla miseria nera
il genio degli avanzi di galera.
Il cronista