Metti un gruppo di amici educatisi al pensiero antroposofico, i quali, illo tempore, abbiano anche ricevuto il privilegio di aver avuto in Massimo Scaligero la prima guida introduttiva al Mondo dello Spirito; metti che abbiano poi scelto di dedicare una sera alla settimana per ritrovarsi e svolgere un lavoro in comune; e metti pure che ciascun partecipante sia profondamente convinto che da questi incontri, abbia prima o poi, a nascere e svilupparsi una nuova forza spirituale, capace di opporsi all’andamento ordinario della vita, della società e del mondo; nel senso che oggi le forze ostacolatrici dominano un po’ da per tutto, ed è ben noto, almeno a questi amici, fin dalla notte dei tempi, l’operare di tali forze contro il corretto svolgersi dell’evoluzione.
L’idea di eseguire uno sforzo corale puntato nella giusta mèta è dunque un’idea preziosa; un’idea di cui c’è bisogno; richiede impegno, coraggio, presenza interiore. Cosa ci può essere di maggior sprone del tentativo di attuarla?
Dopo decenni di incontri settimanali, e un naturale processo di sfoltimento nei ranghi dei sedicenti “operatori esoterici”, dovuto a motivi contingenti di salute e di età, quel che ci si attende, secondo una logica del tipo “pochi ma buoni”, è sempre di qualità superiore all’esito ottenuto. Il gruppetto di amici superstiti ha (o avrebbe) piacere di sentirsi gratificato per alcune cose importanti svolte assieme nel lungo corso degli anni. Il cammino affiancato, gli studi svolti, le meditazioni in comune, e un giusto fluire di relazioni umane – facilitato, si crede, da tutto ciò che si è vissuto nel tempo e corroborato, si spera, dalle vicende che ciascuno ha affrontato – dovrebbero garantire, di là da un risultato spirituale perseguito con determinazione, anche quel senso di aurea fraternitas di cui, nella Scienza dello Spirito, si è sentito dire, ma il cui coinvolgimento sul piano interpersonale spesso rimane impigliato nei reticoli del teorico.
Qualcosa è accaduto. Un intervento c’è stato; nulla appare piú come prima. È una crisi di piena estate. Non si capisce ancora bene di cosa si tratti dal punto di vista dei dettagli, ma è accaduto. A dire il vero, non c’è un momento al mondo in cui non accade qualcosa, ma qui, intendo dire, la situazione è diversa. Ciò che avviene ha sempre un carattere specifico di esteriorità, di generalità, altrimenti resterebbe un fatto circoscrivibile ad uno o pochi singoli. Quando però capita in una comunità ristretta, cresciuta fino a percepirsi un corpus unico dal punto di vista metafisico, se ne ricava una sensazione di disagio che sembra mettere a repentaglio quanto si riteneva costruito. Pare d’essere arrivati ad un capolinea, ad un redde rationem che non dà spiegazioni di sé, ma fa solo fare congetture e valutazioni del tutto personalistiche.
La stasi s’impone, pretende d’interrogare le coscienze dei solidali, quasi a verificare se abbiano fin qui condotto le cose a puntino, oppure ci siano state delle manchevolezze, delle omissioni, in cui il bene che magari si credeva saper fare, è stato non solo dismesso e aggirato, ma a volte deliberatamente ignorato. Con quali giustificazioni, non occorre neppure perder tempo a precisarlo; quelle non mancano, e il loro numero non cessa mai di sorprendere.
«Tot homines tot sententiae», diceva Cicerone; non aveva tenuto conto degli effetti della globalizzazione; all’epoca nostra, una mezza dozzina di persone è capace di emettere un numero di giudizi elevato a potenza rispetto al numero di base.
Come nelle indagini che promettono ricostruzioni ex post, e quindi le ragioni per le quali si è arrivati al dunque, ci si trova cosí di fronte a una marea di pareri che spumeggiano, convergono, si staccano, reclamano sostegni e alleanze, ora irrigidendosi in atteggiamenti solipsistici poco meno che schizzinosi, ora smarcandosi in dichiarazioni altruistiche impossibili da condividere anche con compagni di ventura superfidati. Ovviamente il tutto – tale vien dichiarato – in nome di un idealismo associativo che, in questo caso, si fa – con lieve disinvoltura – coincidere con il traguardevole intento voluto e mirato dalla comune.
Sui motivi, o meglio sulle cause, che possano aver influito in seno al modesto circolo (intendo, “numericamente” modesto) non è di alcuna utilità parlarne; sono questioni, come dire, orizzontali; corrono veloci, vorrebbero apparire consistenti, significare tutto e di piú, e invece lasciano ogni cosa come stava prima, o peggio. Perché se è vero che grande può essere la pena di un’anima afflitta, non meno greve è lo stato in cui essa, dopo una lunga stagione di relativo equilibrio, viene a scoprirsi orfana delle precedenti certezze.
Lo scompenso richiede un urgente recupero della posizione perduta; in sostanza, questo va rimarcato, non si ricerca un significato recondito nelle pieghe dell’accaduto, ma invece ci si dà un gran da fare, di solito affrettato e scomposto, per far saltar fuori un espediente in grado di eliminare l’incidente di percorso, chiamato anche, da qualcuno, “una grossa seccatura”.
Gli amici che un tempo vollero ritrovarsi per lo Spirito, scelsero liberamente di farlo, e per molti anni questo fu fatto ad un livello esattamente proporzionato alle rispettive sensibilità interiori. Per cui, una volta posti davanti all’imprevedibile, non ci si può rassegnare e subirne pedestremente l’inspiegabilità. Il fatto poi che le contumelie, le accuse, i rimorsi e le recriminazioni, non facciano parte della vita dello Spirito, ma appartengano in toto al cammino delle anime, non viene preso nella dovuta considerazione né ricordato con sufficiente responsabilità.
Qui nasce il problema.
Giusto che sia cosí; non c’è frutto senza albero, non c’è crisi senza anima. E, contemporaneamente – non c’è crisi che non si dia per una reazione di profondità. Una tale premessa, riconosciuta per attivazione cognitiva, restituisce allo stato di salute animico la possibilità del recupero.
L’anima si incarna, si riveste di corporeità; deve compiere il suo cammino; deve crescere, svilupparsi, modificare se stessa in base alle esperienze acquisite dentro la fisicità e, almeno per i primi tempi, in uno stato di completa dipendenza da essa. Le crisi sono quindi motivazioni di sviluppo, richieste di rafforzamento, indispensabili all’adempimento dell’ulteriore percorso. Ma sono anche pericolose e distruttive, perché il cammino verso la zona franca, ovvero verso la libertà, non è garantito, né potrebbe esserlo senza ledere la nostra autonomia. Nella fase incipiente, questa viene messa alla prova di fronte a vari aut aut, ma accadono per offrirle la possibilità di slancio e oltrepassare la terra di nessuno, del cosiddetto “libero arbitrio”, con l’intuizione che al di là ci sia qualche cosa di molto piú confacente al crescere individuale che non l’inconclusiva chiamata a scegliere tra due o piú soluzioni. Scelta in ogni caso contingente: pertanto relativa e provvisoria.
Focalizzare il momento della crisi: equivale a muovere il proprio pensare, a livello meditativo, e farlo penetrare dentro l’accadimento, nel cuore di quel che sta succedendo; spassionatamente, senza accompagnamento di sentimenti o volizioni protesi a risolvere, se non peggiorare, la situazione in corso, sostenuti dall’illusione di annientare il problema. Credere di poter far sparire le cose dalla nostra vita, anche allontanandole momentaneamente (nella remota speranza che esse si scordino poi di ritornare) è la vera ragione per cui queste puntualmente (secondo un cronometro cosmico molto piú efficiente del miglior cronografo) arrivano, si abbattono sulle anime, sulle teste degli improvvidi pensatori, sotto forme di destino; appunto “destinate” a rimanere ambigue e misteriose, mancando ogni premessa per un loro riconoscimento, in essenza e valore.
Focalizzare il momento cruciale della crisi, equivale a capire dov’è localizzato il male, quanto è cresciuto, e quali sono i rimedi da mettere in atto senza ulteriori indugi. Anche qui ci si deve tuttavia intendere bene: quel “senza ulteriori indugi” non significa buttarsi a capofitto in un folle pragmatismo, nel quale sembra lecito tentare il tutto per tutto. La logica del mondo (quella che non ha nulla a che fare con la Logica dello Spirito) afferma che a mali estremi vengano opposti estremi rimedi, che se il gioco si fa duro, i duri scendano in campo, e, perfino nei testi di procedura giuridico-burocratico-amministrativa, ricorre insistente la postilla “nel caso di necessità e urgenza”, a giustificare il fatto che – in alcune occorrenze – è meglio agire prima e pensare dopo.
Ma se avessimo per davvero previsto le modalità risolutive, nella loro estensione e potenzialità, i problemi cesserebbero di manifestarsi; le crisi perderebbero il valore karmico di essere portatrici di forze non ancora individualizzate, ma tuttavia producenti nell’anima l’effetto complementare di quel che appaiono alla percezione esterna. È la tecnica del contro-bilanciamento; lo scambio vero avviene nella misura in cui due nuclei di coscienza s’incontrano. In linea generale, uno dei due è sicuramente umano.
Gli avversari schierati hanno la buona educazione di non affannarsi tra paludamenti e paramenti per ostentare il loro disinteresse per le Verità dello Spirito. Ma tra i devoti, tra quelli che si definiscono Seguaci della Via, una franchezza del genere appare del tutto superflua. Se si ama lo Spirito, dicono, non ci sono problemi. Io amo, tu ami, egli ama, e noi… noi amiamo. Come coniugazione funziona.
I guai cominciano con l’introduzione delle metodologie da osservare; perché, su questa terra, anche l’amore richiede le forme manifestative che gli sono proprie, e non sempre si trova quella migliore, quella che non lascia dubbi e che dura nel tempo; spesso si trovano dei surrogati, dei succedanei dell’amore, che però non hanno (né potrebbero avere) la forza, la qualità e l’estensione del valore spirituale; eppure anche qui, dicono gli amici del gruppo, la cosa non è difficile, o se lo è, essa comunque è alla nostra portata; abbiamo avuto la fortuna di aver avuto Maestri illuminati e Guide avvedute; costoro ci hanno illustrato tutto, passo per passo. Non è possibile sgarrare! Basta eseguire sempre la stessa procedura con cui l’impegno è fidelisticamente iniziato.
In effetti, il ritualismo non nasce a caso.
Anche il diavoletto di nome Malacoda, ebbe un tempo timore di un’affermazione di questo tipo, cosí ottimisticamente umana e colma di grande fiducia nelle proprie possibilità. Al che, suo zio, il diavolo Maggiore, gli insegnò subito come e dove metterci lo zampino. Lo slancio dell’anima quando è nobile e puro, sale ad altezze vertiginose; salvo poi a ricadere nella fase immediatamente successiva: forse è per questo che il “vissuto” ha tra i suoi sinonimi anche quello di “precipitato”. Eppure i capitomboli servono. Fanno tornare alla fase in cui deve essere prevista almeno una condizione affinché l’idea concepita cessi di vagare nei giardini fioriti dell’astratto, e venga quindi all’impatto, nella terra come nel mondo; si mostri a tutti per quel che è. Con riferimento a gruppi consociati di persone, e al concerto delle loro sicuramente oneste intenzioni, tale modalità si chiama esecutiva, o piú semplicemente “organizzazione”.
La domanda corretta, la domanda da fare, filtra quindi tra un caleidoscopio di ragioni, una piú inessenziale dell’altra, ma tuttavia partecipanti in coro, almeno per un minimo tratto, ad una sorta di credibilità sostenibile: «Tra coloro che hanno scelto di riunirsi con l’intento di far vivere un’entità spirituale, può essere che sorga l’inghippo sul come una tale entità abbia a verificarsi? Ovvero: questa attuazione si svolge da sé per un motu proprio indipendente, grazie all’apporto dei ripetuti lavori della comunità, oppure può venire turbata, vincolata, per non dire osteggiata, dalla qualità delle posizioni individuali maturate nel tempo e quindi da una conseguente disomogeneità dei componenti il gruppo medesimo?».
È una domanda interessante che merita un’adeguata risposta.
Prima però si rende necessario chiarire un punto, forse poco rilevante ma non del tutto trascurabile. Qualcuno potrebbe voler conoscere il fatto o i fatti che hanno provocato la crisi. Si dirà: «Come esprimere un giudizio di merito senza conoscere in dettaglio tutti i particolari che hanno concorso a far sorgere l’evento?».
Effettivamente si deve ammettere che anche l’attività giudiziaria svolge una procedura di questo genere: ci sono gli indizi, ci sono le prove, e da queste (non sempre, ma a volte anche sí) vien fuori la sentenza.
Voler però estendere tale prassi anche in un settore squisitamente umano, interiore, psicologico e, ancor prima, spirituale, cosí delicato come può esserlo un gruppetto di persone dedito a coltivare i princípi della Scienza dello Spirito, è tuttavia un pensiero, mi si conceda il termine, demoralizzante. Rivela che poco o niente di quel che sta succedendo è stato colto nella sua essenzialità. Si desidera scendere subito nei particolari, e si rimane poi impigliati nella pania per sempre. Perché una cosa è voler conoscere i dettagli onde poter formulare un giudizio conoscitivo, tutt’altra cosa è volerli pesare per imbastire sommariamente un giudizio moralistico.
Si può additare una singola persona; se ne può dire nome e cognome; si possono chiamare in causa lo stato di debolezza interiore, la depressione motivata da stress personale, da una esistenza troppo a lungo esposta a situazioni traballanti in fatto di affetti, di salute, di problematiche logistiche e finanziarie. E dopo? Avremmo capito qualcosa di piú su quel che è accaduto? Sul perché sia accaduto proprio in un gruppetto, cosí ben affiatato da credersi di rappresentare, in tutta modestia, l’espressione territoriale piú avanzata di quella evoluzione dello Spirito propugnata da Massimo Scaligero e voluta da Rudolf Steiner?
Io credo di no. Ne sono convinto. Piú volte mi sono trovato in una situazione di crisi (ora parlo di esperienze vissute singolarmente), piú volte credevo di aver individuato la persona, l’oggetto, la situazione cui poter attribuire colpe e responsabilità, e dopo aver agito di conseguenza secondo la logica elementare terrena, a volte allontanando, a volte licenziando, a volte cambiando, mi sono ritrovato nell’infima situazione d’aver perduto la baracca con tutti i burattini. Tutto questo per la ragione (plausibilissima, ti dicono, se non essenziale e irrimandabile) di non aver sostenuto il peso di una situazione onerosa e di aver invece voluto sbarazzarmene subito in modo drastico e violento, per non subirlo un attimo di piú.
Ti dicono anche: «Questa sarebbe vigliaccheria bella e buona!» (intendendola in realtà brutta e cattiva) ma nell’uso enfatico di frasi preconfezionate succedono questi ermetismi d’incongruenza. Se un arto è in cancrena, va amputato, costi quel che costi. La battuta ha solo un pallido riferimento alla verità. Per essere autenticata fino in fondo, bisognerebbe prima chiedere all’arto la sua eventuale disponibilità a farsi amputare. Oppure, allargando al massimo l’orizzonte del vivente, chiedere ad un singolo uomo se sia disposto a sacrificarsi per l’umanità intera.
Ciò avviene nell’intimo delle singole coscienze, avviene all’interno dei gruppi, società e consorzi, riconosciuti o ignorati, come avviene per l’intera popolazione planetaria. Non si scappa. Soltanto, quando accade, sul palco degli eventi, dove si eseguono le sentenze, non si pongono interrogazioni di riguardo, non si sondano disponibilità, non si richiedono fattive collaborazioni. Si esegue, punto e basta.
Ci si convince (ma chi è che ci convince?) che l’amputazione dell’arto infetto, la soppressione di quel tal bandito o fuorilegge, il massacro di un popolo o il genocidio di una etnia, sia un prezzo ragionevole affinché gli altri (quantomeno quelli che hanno deciso di essere “gli altri”) possano salvarsi e procedere nell’ulteriore cammino. Viene da chiedersi come potrà essere, qualitativamente parlando, questo cammino.
Si vede che il precedente biblico di Caino e Abele, in particolare la risposta secca di Caino («Non sono il custode di mio fratello!») segna una gigantesca deviazione nella rotta umana ancora immersa nel tunnel dei tempi. Comincia la libertà, questo è vero, ma non poteva cominciare in un modo peggiore.
Non bastava nascondere a se stessi il male fatto, l’azione commessa, la causa stessa per cui l’evento si è verificato, ma addirittura si giunge ad accampare le scuse piú miserande e menzognere, le motivazioni piú assurde e nefande, i pretesti piú vili ed infami, con l’unico disperato proposito di coprire la corruzione della coscienza.
Sono uscito dal seminato. L’ho fatto di proposito, ma ora vi rientro.
Bisogna riprendere il tema dalla necessità di offrire “una risposta adeguata ad una domanda interessante”. Che si fa, come ci si comporta in questi casi? Posto che in un gruppo ristretto, un’anima stia scantinando per suo conto e metta a soqquadro (o a repentaglio?) l’ordine stesso per cui il gruppo si è costituito, bisogna intervenire per amputare o per risanare? Il guaio è che in casi come questo il partito degli amputatori è sempre piú forte e determinato di quello dei risanatori, se non altro per il motivo che questi secondi necessitano quasi sempre di amorevole pazienza, calma serafica e tempi di tutto rispetto, mentre invece i primi scalpitano, non sono disposti né ad aspettare né a pazientare, per la ragione, senza dubbio importante, che cosí facendo, il lavoro spirituale in comune ne risulterebbe svilito e forse disperso. Questa parte di amici energofili trova espressioni come questa: «Abbiamo sopportato fin qui, ora basta!». L’ermeneutica è scadente, ma il discorso fila.
Chi spera di trovare. in conclusione di questo articolo una ricetta sicura per situazioni analoghe a quella descritta, può risparmiarsi la fatica di leggere avanti. Non posso sostituire il Karma di un gruppo, neanche piccolo, e neppure svolgo il compito del Facente Funzioni, anche se spesso mi sono preso la briga di dipanare alcune matasse intricate. So per esperienza che con l’anima in tumulto è impossibile riuscirci, ma so anche che per riconoscere di avere l’anima in tumulto, bisogna prima riconoscere la forza ostacolatrice di cui siamo stati pervasi, augurandoci si tratti soltanto di un semplice Malacoda, piuttosto che di un ben accorto Mefisto.
I pensieri di Massimo Scaligero sono sempre pensieri risolutori o, per dire con maggior correttezza, spalancano la visione su ampie possibilità risolutive, basta che essa sia voluta e cercata non per il proprio agio o per il proprio interesse, per quanto legittimo e sacrosanto possa apparire, ma perché lo Spirito umano, figlio di quello divino, non debba soccombere a ciò che ha avuto il compito di opporglisi per provocarlo.
Sapere cosa significhi una unità spirituale, un gruppo o un’associazione che si dia intenti orientati al mondo dello Spirito, quale sia la giusta metodologia per affrontare il percorso, quali siano le insidie e i pericoli – interni ed esterni – che tale gruppo dovrà incontrare, è già stato scritto dallo stesso Scaligero in appendice al suo libro Dell’Amore Immortale. Per quanto conosciuto e meditato da molti, il contenuto di questa appendice dovrà sempre rieffondersi dallo Spirito di quanti, singolarmente o assieme ad altri, abbiano scelto di cimentarsi a compiere la missione cosí intuita.
Da parte mia sarebbe superfluo e anche irrispettoso, provare a trarre da quel testo citazioni e forme di pensiero, nella speranza di conseguire ulteriori sviluppi. Tutto è già stato detto, e nel migliore dei modi: chi poteva capire ha capito, chi ha creduto di capire, dovrà tenere aperto il conto con se stesso fino al tempo assegnato.
Non c’è tuttavia alcuna legge che vieti di raccontare quel che si è ottenuto da un ammaestramento; da questa esperienza si può sempre ricavare qualcosa; è una controprova per se stessi e, in alcuni casi, un aiuto per chi ne sente bisogno.
Onde restare nel tema della comunità spirituale messa di fronte ad una crisi, ricapitoliamo l’interrogativo di fondo: un lavoro spirituale sostenuto in comune deve andare avanti “eliminando” l’elemento disturbatore o deve proseguire considerando tale elemento come parte integrante del lavoro fin qui compiuto?
In altre parole, l’assidua e regolare presenza fisica e il sentimento di devozione per il compito da attuare, sono di per sé sufficienti a garantire il corretto svolgersi di un’operazione in nome dello Spirito?
La mia risposta è no! Non può esserlo. Corpo (presenza fisica) e anima (devozione, amore) sono importanti, come intermediari devono esserci, ma non garantiscono un bel nulla. O si punta tutto sulla facoltà del pensare, e si rende il proprio pensare sempre piú nitido, indipendente, per quanto possibile, dalle categorie corporee e animiche, oppure il lavoro eseguito assieme, anche per molti anni, può rivelarsi precario e del tutto insufficiente; non riesce piú a contenere il peso di un evento che si presenta ora con il carattere dell’imprevisto, del fulmine a ciel sereno, ma che è stato, realisticamente, evocato da un ribasso di tensione generale di cui è responsabile il gruppo stesso. Una perdita di colpi che non è in alcun modo addebitabile ad un singolo componente.
Se questo succede, significa che la vita interiore di quel gruppo, anziché sviluppare nuove forze, si è ridotta ad un’ennesima parrocchietta; la quale ama riunirsi per godere vaghe sensazioni di compiacimento, di moralismo perbenistico; per potersi sentire interiormente a posto con la coscienza, divenuta, a questo punto, incapace di autocritica. Cerca la ritualità, la liturgia, celebra le ricorrenze e arriva perfino a festeggiarle con bibite, dolcetti e composizioni floreali. Manca poco per arrivare al ping pong e al torneo di briscola.
La vita per lo Spirito, la devozione per lo Spirito, la volontà di attuare lo Spirito nel mondo, che è in sostanza trovare il senso dell’essere qui presenti ora, in questa circostanza, e in tutte quelle a venire, non è riscoprire l’acqua calda e gioire delle sue virtú terapeutiche. Non si risolvono i problemi adottando soluzioni che facciano esclamare: «Che bello! Ora sono a cavallo! Posso stare tranquillo!».
Da un certo punto in poi l’ingenuità non è piú scusabile; essa è finita col nostro ingresso nella pubertà. Dopo, da adulti, diventa grottesca mancanza di accortezza, ossia mancanza di presenza interiore. Significa anche, purtroppo per il piccolo gruppo operativo, che si è sbagliato tutto e che si rende necessario ricominciare da zero; fondando sul medesimo principio, forse cambiandone le basi, sicuramente cambiandone l’approccio. È il caso di esigere da sé il coraggio di dirselo.
Lavorare per lo Spirito è mettersi di continuo in gioco, controllare attimo per attimo pensieri, volizioni e sentimenti analizzandoli alla luce di una coscienza che sia obiettivamente critica e non impostata ad assolversi, qualunque circostanza la determini; ma soprattutto è confrontarsi direttamente con tutti quei problemi, o incidenti di percorso, che la vita pone innanzi, tenendo sempre ben presente che essi sono il lievito per qualunque lavoro spirituale al quale si stia accudendo. Anzi, questo lavoro si può veracemente chiamare spirituale solo nella misura in cui non escluda mai nulla e nessuno di quel che c’è; perché se c’è, se esiste, è già segno dello Spirito; una richiesta di redenzione nello Spirito che può attuarsi soltanto in contemporanea tra l’essere che si è e quello che si sta tentando di diventare.
Ogni esclusione è un tornare sui propri passi, tradire i propri obiettivi e di conseguenza fallire nei propri scopi. È chiaro che se succede – quando succede – anima e coscienza devono già essere addormentate da un bel po’; tant’è vero che i relativi pretesti, dialetticamente esposti, per ribadire la validità della posizione d’intransigenza assunta, altro non sono se non un povero sipario che scende a coprire il dramma di un disagio interiore oramai avanzato e non svelato neppure a se stessi.
La via dello Spirito è una via di Amore e di Libertà; ma l’Amore, da solo, sarebbe capace perfino di vincolarsi a qualunque cosa lo susciti. Come la Libertà, priva dell’Amore, si ridurrebbe a una forma maniacale d’indipendenza contrapponibile a tutto e a tutti.
Messi assieme, coinvolti grazie alla forza di una coscienza pensante (che in tale caso è azione immediata ossia “non mediata” dell’IoSono) si concedono, si donano a vicenda, si rivelano come fortificazioni indispensabili l’uno al perfezionamento dell’altro, e sanno che, separati, svuoterebbero di significato la Vita che li anima e li ispira punto su punto.
Il pensare che viene dallo Spirito scorge nelle azioni degli esseri umani, di qualsiasi ordine e grado esse siano, l’elemento dell’Amore, e contemporaneamente l’elemento della Libertà, in quanto sa che se c’è l’uno c’è pure l’altro, cosí come la mancanza di uno solo rende inevitabile la negazione del congiunto. Osserva come l’attuarsi di questi, nascendo quali impulsi specifici dell’umana natura e tuttavia sviluppandosi secondo leggi evolutive facenti perno sulla pura coscienza pensante e sulla limpida capacità dell’anima di aprirsi a quella, abbiano a svolgersi spesso in modo scoordinato, conflittuale, profondamente egoico; tale da non consentire previsioni ottimistiche neppure a livello possibilistico e cautelativo.
Ma un’osservazione spassionata del passato, sorretta dal personale impegno assunto nei confronti del Mondo Spirituale, non può fare a meno di ritrovare anche nel caos, nel vortice, nell’avversione reciproca tra singoli e collettività, quelle fasi di crescita, la cui elaborazione, travagliosa quanto correttiva, ha permesso la visione sinottica delle forze in gioco: scorgere cioè nella tragedia umana, oltre il rivestimento di follia, odio e degenerazione, il primo turbatissimo, inconsapevole passo sul cammino dell’Amore e della Libertà.
Senza questi riferimenti, tutto resta oscuro, minaccioso, insolubile e inspiegabile. Senza questi riferimenti, i rimedi che si possono proporre non sono rimedi ma sussulti di sedimentazioni egoiche profondamente stratificate, che non vogliono capirla di dover morire per restituire all’anima, e quindi alla coscienza, l’obiettivo equilibrio che si credeva, esteriormente, compromesso.
Qualunque aspetto rivesta il vivente, sia formato da un organismo unico o composto da diversi individui decisi a perseguire in comune un determinato impegno, avrà nel tempo un percorso che ricalcherà in pieno ogni andamento evolutivo; quindi, a intervalli anche lunghi, stasi, crisi, sofferenze o insofferenze, cali e riprese, si presenteranno puntualmente; dovrebbero venir previste già in partenza, ma è umanamente comprensibile che l’iniziale positivismo non si lasci irretire da prospettive malaugurali.
Metti una crisi d’estate. Metti che essa non derivi da Caio o da Tizio, anche se Caio o Tizio fanno di tutto per ostentare il ruolo di disturbatori del lavoro di gruppo, ma, non essendo in grado di darsene una ragione, non facendosene autocritica, metti anche che non se ne sentano in colpa.
Metti pure che gli Antichi Avversari dell’uomo, estremamente interessati a ciò che il gruppetto di amici sta facendo, si siano dati da fare al punto che, attraverso uno o due membri del gruppetto, abbiano scatenato la sarabanda, nel chiaro intento di insinuare dubbi, invelenire animi, ergere ostilità e, in definitiva, aizzare gli uni contro gli altri. Fin qui tutto normale; rientra nel conto. Ma non c’entra nulla con l’Amore e con la Libertà; non c’entra nulla con un lavoro che possa dirsi deciso e voluto per lo Spirito. Potrebbe tuttavia venir messo in relazione con il Mondo dello Spirito, se, sottolineo se, indagando fino in fondo, oltre il teatrino delle immediate parvenze, di là dal vortice dell’angoscia e delle fobie, gli improvvisati entronauti diventassero di colpo capaci di leggervi un richiamo importante, fondamentale per quanti si trovino a navigare in acque agitate.
Il richiamo c’è, preciso e sostanziato; il guaio è scambiarlo sempre per qualche cosa d’altro.
Angelo Lombroni